Le parole banali del male

    Le parole banali del male

Il polacco Nachman Blumental studiò tutta la vita la lingua dei nazisti e la distorsione dei vocaboli. Ora le sue carte a New York testimoniano l’orrore di quegli anni terribili.

 

Riporto il testo di un articolo di Gal Beckerman, pubblicato nel “New York Times”, con traduzione di Fabio Galimberti, e ripreso dalla “Repubblica” del 5 luglio 2019, alle pp. 38-39.

 

Non aspettarono nemmeno che la guerra finisse. Nell’agosto del 1944, non appena le truppe sovietiche ebbero spazzato via i nazisti dalla Polonia orientale, un gruppo di intellettuali ebrei accorse in città come Lublino e Lodz per cominciare a raccogliere e ricordare, girando alla ricerca di qualsiasi traccia dell’orrore che si era portato via i loro cari. Volevano prove. Fra di loro c’era Nachman Blumental, un filologo ossessionato dagli usi e abusi della lingua. Era fuggito in Unione Sovietica e ora era tornato per scoprire che la moglie Maria e il figlio piccolo, Ariel, erano stati uccisi. Tutto il suo mondo era svanito.

Per dare un senso a tutto questo, Blumental si mise al lavoro. Insieme a un assortimento di storici, etnografi e linguisti, istituì la Commissione storica ebraica centrale. Tra il 1944 e il 1947 lui e gli altri trascrissero tremila testimonianze di sopravvissuti, rovistarono fra i documenti nazisti negli uffici della Gestapo abbandonati e preservarono frammenti della vita quotidiana nei ghetti (un quaderno di scuola, una tessera annonaria). E Blumental, fin dal principio, raccolse anche parole.

In ogni documento nazista in cui si imbatteva cerchiava e sottolineava termini innocui come Abgang(Uscita) o Evakuierung (Evacuazione). Sapeva che queste parole, quando comparivano in memorandum e moduli burocratici, erano eufemismi per Morte. Prese forma una missione tutta sua: svelare i modi in cui i nazisti usavano la lingua tedesca per occultare la meccanica dell’omicidio di massa e rendere il genocidio più accettabile ai loro stessi occhi.

Ora abbiamo una finestra aperta sulla mente di Blumental e degli altri storici sopravvissuti che lavorarono con lui. Lo Yivo Institute for Jewish Research di New York, che contiene la più grande collezione sull’Olocausto nel Nord America, a febbraio ha acquisito le carte personali di Blumental, composte di oltre 200mila documenti. Secondo il direttore dell’istituto, Jonathan Brent, è uno dei più grandi archivi dell’Olocausto che rimangono.

La sua importanza sta nella sua ampiezza. Trenta scatoloni di materiale lasciati alla polvere e al rosicchiamento dei topi negli anni trascorsi dalla morte di Blumental, nel 1983. Aperti ora per la prima volta, contengono gli oggetti che raccolse nel dopoguerra, francobolli di Hitler ed esempi di propaganda antisemita. Una cartella molto spessa è riempita con centinaia di poesie e canzoni inedite composte dagli ebrei nei ghetti e nei lager, che Blumental trascrisse dai sopravvissuti. I manufatti sono pochissimi rispetto alle migliaia di fogli di appunti, scritti in una minuscola calligrafia. Ognuno contiene qualche frase tipica della scrittura nazista e l’etimologia di una parola tedesca specifica, nel suo significato originario e in quello distorto.

Erano appunti di ricerca per l’impresa orwelliana di Blumental: un dizionario nazista. “Per lui far fronte all’esperienza della guerra era una questione personale ed extrapersonale al tempo stesso”, dice Brent. “Il risultato è che le sue carte contengono la cosa più intima che si possa immaginare e, essenzialmente, la griglia linguistica del nazismo”.

Blumental si era laureato all’Università di Varsavia con una tesi intitolata “Sulla metafora” e conosceva quasi una dozzina di lingue, dall’ebraico al francese e all’ucraino. Vedeva le parole e il loro uso come la finestra più limpida sulla cultura umana. Il suo dizionario delle parole naziste, da un certo punto di vista, era un’impresa disperata con cui Blumental sperava che quel lessico potesse tornare utile ai magistrati inquirenti, durante i tanti processi che seguirono la fine della guerra. A tre di questi, fra cui il processo a Rudolf Hoss, il comandante in capo di Auschwitz, Blumental partecipò come perito. E pensava anche al futuro, a un’epoca in cui l’evidenza documentale del genocidio magari sarebbe stata indecifrabile, senza una chiave linguistica.

Nel 1947 pubblicò “Slowa niewinne” (Parole innocenti), che copriva le lettere dalla A alla I, il primo dei due volumi che aveva immaginato per il suo dizionario. Contemporaneamente, quello stesso anno, un altro filologo sopravvissuto, Viktor Klemperer, pubblicò “Linguaggio del Terzo Reich”, un progetto simile che dissezionava l’uso nazista della lingua. Blumental non completò mai il secondo volume. Portò avanti le sue ricerche nel dopoguerra in modo scientifico e metodico, ma la sua non fu mai una ricerca distaccata. Era anche un modo per rendere omaggio ai morti.

Tra le sue carte c’è un esempio agghiacciante della collisione fra il suo sguardo analitico e il suo dolore personale. Nel 1948 viaggiò fino al paesino dove Maria e Ariel erano stati uccisi, nel giugno del 1943. Arrivò con il suo taccuino, con l’approccio di un’indagine giudiziaria, e intervistò una serie di abitanti del luogo che avevano assistito all’omicidio. Sua moglie si faceva passare per una donna cattolica e si nascondeva con suo figlio quando fu arrestata da dei poliziotti polacchi. Poi, un ufficiale nazista li portò nel locale cimitero ebraico e li uccise a colpi di pistola. Nei suoi appunti scritti a mano Blumental trascriveva, parola per parola, i veri resoconti dell’uccisione. Grazie a questa indagine, i poliziotti che avevano arrestato Maria e Ariel furono incriminati, nel 1950. Inoltre, Blumental esumò i corpi dei suoi cari e li seppellì nel cimitero ebraico di Varsavia.

Le sue carte personali, che lo Yivo progetta di digitalizzare e rendere pubblicamente accessibili, sono state acquisite dal figlio di Blumental, Miron, nato nel 1954, undici anni esatti dopo il giorno in cui Ariel fu ucciso. E’ una coincidenza che per Miron è diventata un’ossessione. Negli ultimi trent’anni le carte di suo padre si sono spostate insieme a lui, da Israele a Londra e poi a Vancouver, dove lavora come avvocato tributarista internazionale.

Quello che vede nelle schede e nelle migliaia di fogli di appunti è un uomo che combatte contro la propria impotenza, aggrappandosi a ogni brandello di evidenza, anche le cose più effimere: le parole.

Tutto quello che conosceva era scomparso”, dice Miron. “Si aggrappava a tutti quei dettagli perché rappresentavano la prova che era realmente esistito. Era il suo memoriale, era quello che poteva fare. In termini reali, non poteva fare nient’altro. Non poteva riportare indietro nulla di tutto quello”.

 

                                                        Gal Beckerman