Leggere “I Malavoglia” come una serie TV

Leggere “I Malavoglia” come una serie TV

Tutti vogliono cambiare le cose. Ma anche se si fallisce, quel che conta è aver deciso.

 

Questo articolo è stato scritto da Francesco Piccolo ed è uscito in “Robinson”, inserto culturale di “Repubblica”, del 22 gennaio 2022, alle pp. 6-7.

 

E poi un giorno al liceo abbiamo letto questo inizio di romanzo: “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”. E ci siamo chiesti; ma chi è che sta parlando? Come mai da quella specie di dio onnipotente di narratore che ci ha detto quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno –che guarda le cose dall’alto e poi pian piano scende verso un curato che cammina in una stradina- siamo passati a qualcuno che sta dentro quel paese, che parla con confidenza dei Malavoglia, e che quasi non ci considera a noi lettori perché sono fatti di Trezza? Perché adesso parla un narratore che spettegola, che sa le storie di tutto il paese, non solo dei Malavoglia, che giudica ed è compassionevole, che viene a sapere le cose come si vengono a sapere per strada?

Ecco, a quel punto, nei licei, anche se gli anni passano, poi ci si arriva sempre. Quando si leggono le prime righe dei “Malavoglia”, e si rimane spiazzati rispetto a tutto quello che ci hanno spiegato fino a quel momento. A quel punto le strade sono due: si può dire che palle!, cioè si può dire ma che c’entrano i Malavoglia con la mia vita, con i miei amici, con il mio tempo, con le serie che devo guardare, con i miei interessi! E l’altra ipotesi è cercare di capire se c’è dentro qualcosa che riguardi ancora adesso chi sta al liceo e legge la storia di quella famiglia. Se insomma la letteratura (o il cinema, o un quadro, o qualsiasi atto creativo prodotto secoli fa) parla ancora a uno studente del liceo.

Voglio fare un inciso: non bisogna per forza trovare delle ragioni che si rigenerano. Un classico è per sua stessa definizione rigenerato. Ma alle volte la tentazione, quando si è di fronte a ciò che ci piace di più oggi, di dirsi ma questo l’ho già incontrato prima, è seducente più che forte. Se, insomma, ogni tanto dobbiamo dire a qualcuno chi siamo, cosa ci rende riconoscibili come individuo agli occhi degli altri, non è necessario ma suggestivo sapere che stiamo facendo quello che fu costretto a fare Ulisse quando tornò a casa e doveva convincere gli altri che era davvero lui. Quindi, la prima ipotesi (che palle) non è discutibile, è sempre legittima, al contrario di ciò che pensano coloro che ritengono i libri irrinunciabili e al di sopra di altre forme di creatività; ma è davvero troppo facile. La seconda ipotesi è più difficile, ma piena di aperture, ipotesi, combinazioni simili a quello che succede ora.

Faccio un esempio: continuiamo a seguire don Abbondio, dopo la descrizione di Manzoni: mentre cammina, c’è qualcuno che lo aspetta: sono i bravi di don Rodrigo, e stanno per fermarlo e minacciarlo. Spogliamoli degli abiti di allora e mettiamogli quelli di oggi: è una  scena di Gomorra, identica. I bravi sono come Ciro e Gennaro della serie tv, fanno esattamente lo stesso, e fanno scaturire narrazione allo stesso modo.

Anche per i libri di Verga le chiavi di entrata sono molteplici. Ne propongo solo una tra le tante, che riguarda direttamente quegli studenti del liceo che aprono quella prima pagina dei Malavoglia: la questione dei vecchi e dei giovani –come nel romanzo di Pirandello; e come in fondo, per tornare a Manzoni, il diritto alla libertà e all’amore dei giovani Renzo e Lucia.

Renzo è un po’ inetto, un po’ fanfarone, poco coraggioso anche lui. Nel romanzo di Verga, il vero protagonista è ‘Ntoni, questo nipote che cerca di ribellarsi allo stato delle cose, e anche alla maledizione della fatica, della povertà, dell’andare avanti sempre senza prospettive. Vorrebbe una vita diversa, la sogna, come ogni ragazzo di liceo si tormenta i pomeriggi alla ricerca di un pensiero proprio e di una costruzione di vita originale, perché non vuole replicare la vita di casa. Come ogni ragazzo di liceo, e come Renzo, come Lucia, come Tancredi del Gattopardo, come mille altri personaggi della letteratura, come i giovani di Pirandello,- tutti loro vogliono cambiare il mondo vecchio per farne uno nuovo. E ce la fanno, non ce la fanno, sbagliano, vengono corrotti, perdono tutto, riconquistano tutto (non è questa, al netto della differenza incolmabile tra povertà e ricchezza, la storia di Succession, dei tre figli che ognuno a modo loro vogliono cambiare tutto per non cambiare niente?); sono meravigliosi o sono deboli, sono puliti o sporchi, sono sognatori oppure concreti. Ma, come quegli studenti al liceo, vogliono una vita propria, vogliono uscire di casa, farsi adulti in autonomia.

Ed è la storia di ‘Ntoni (ma anche del protagonista di Una peccatrice, o di Eva, per quanto riguarda Verga): abbandonare il passato della propria famiglia per costruirsi un presente inventato da se stesso. E’ il motivo per cui, alla fine, ‘Ntoni se ne va da Trezza perché è impossibile riuscire in quel luogo a staccarsi dalla tradizione dei Malavoglia. E ‘Ntoni, che è stato perfino in galera a causa della ricerca della propria identità autonoma (passata per strade sbagliate –ma non sono le strade sbagliate quelle in cui possiamo identificarci di più?), sia pur straziato, deve andare lontano. E, a dirla tutta, anche Verga era andato lontano, prima a Firenze poi altrove, e scriveva lettere disperate alla madre ma non mollava, restava lì alla ricerca della sua identità letteraria.

Questo narratore anonimo e collettivo, da lì dentro, dal paese, un po’ disapprova: “I giovani hanno la memoria corta, e hanno gli occhi per guardare soltanto a levante; e a ponente non ci guardano altro che i vecchi, quelli che hanno visto tramontare il sole tante volte”. E anche il nonno non ha intenzione di liberare il nipote: “Vedi quelle passere? Le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo e non vogliono andarsene”, ma ‘Ntoni resiste: “Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! Rispondeva ‘Ntoni. Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota”. Vivere un’altra vita: ecco cosa sogna uno studente al liceo.

Ma non basta la testardaggine dell’autonomia, per identificarsi con ‘Ntoni. C’è la sua sofferenza, la scissione dentro di sé, il senso di appartenenza e la volontà di cambiare tutto. La fragilità e il fallimento dei suoi desideri –anche a questo serve la letteratura, a sopportare i fallimenti possibili, a farne vedere l’umanità, a mostrare che la vita è possibile anche senza la realizzazione dei sogni più grandi. A mostrare a quello studente che essere giovani non vuol dire soltanto progredire, fare scelte migliori rispetto alla generazione precedente, ma anche andare per la strada sbagliata; e il risultato è lo stesso di ‘Ntoni: che te ne vai con la nostalgia di casa. E andarsene non significa solo andarsene da Trezza –andarsene lontano. Ma anche semplicemente uscire dalla casa dei genitori, per sempre. Farsi la propria vita.

Tutto questo è ciò che ‘Ntoni può insegnare allo studente che lo legge, è uno dei possibili destini che stanno davanti a coloro che al liceo stanno leggendo I Malavoglia: sia se rimani nei paraggi di casa, sia se te ne vai lontanissimo, da casa devi andartene, e sul serio. Devi farti la vita tua, devi pensare che qualcosa di quello che ti volevano insegnare è un peccato averlo perduto, ma te ne sei fottuto ed è giusto; e qualcosa di quello che vuoi costruire in autonomia non verrà bene; e in più, dentro devi riconoscere senza paura la nostalgia di casa, che ‘Ntoni si porta dentro con strazio; ma soltanto perché è un sentimento che predispone l’anima, l’autonomia e il futuro, al meglio. E’ questa l’immagine finale dell’ultimo episodio della serie tv dei Malavoglia: ‘Ntoni che se ne va, si guarda indietro e soffre di lasciare tutti là, con tutti i guai che ci sono. Ma se ne va.

“’Ntoni se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi quando fu lontano in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci-Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico (…)

Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero, e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono a udirsi certi rumori ch’ei conosceva e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i “Tre re” che luccicavano e la “Puddara” che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i “Tre re” ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. “Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta”, pensò ‘Ntoni, “e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui”. Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta, e disse: “Ora è tempo d’andarmene, perché fra poco comincerà a passar gente…”  

                                                        Francesco Piccolo