Un antropologo americano innamorato di Napoli

Tommasino l’americano nella Napoli irriducibile

Marino Niola ricorda l’antropologo Thomas Belmonte che negli anni ’70 visse tra i vicoli per studiarne la vita e la cultura.

 

L’articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 21 gennaio 2022, alle pp. 94-95. Thomas Belmonte, tornato a New York, ha insegnato fino alla sua morte alla Hofstra University di Long Island.

 

Amo Napoli perché sono molto newyorkese. Qui ritrovo la stessa energia esplosiva, che con la stessa rapidità crea e distrugge vite e destini”. Sono parole di Thomas Belmonte, antropologo americano scomparso a soli 49 anni nel 1995, che a metà degli anni ’70 sbarca per la prima volta nella città vesuviana per la sua ricerca di dottorato. E quattro anni dopo racconta tutto in un bellissimo libro intitolato “The Broken Fountain, La fontana rotta”, che adesso Einaudi rimanda in libreria nella bella traduzione di Daniele Petruccioli. Quando esce, nel 1979, il libro viene accolto da entusiastiche recensioni sul New York Times, eletto saggio dell’anno e nominato per il premio Pulitzer.

Belmonte sceglie Napoli per studiare la “cultura della povertà”, come gli hanno insegnato i suoi maestri. E che maestri! Margaret Mead, la papessa dell’antropologia statunitense, Marvin Harris, il profeta del materialismo culturale, e Conrad Arensberg, uno dei mandarini della Columbia University. Ma Thomas non ha niente del pollo di batteria accademica. Sembra uscito da un film di Scorsese. Per pagarsi gli studi fa il taxi driver. Somiglia anche fisicamente al personaggio reso celebre da Robert De Niro. Ha la stessa inconfondibile faccia da italoamericano. Come lui gira di notte nell’auto gialla per le strade di una Grande Mela violenta, degradata, selvaggia. Come lui ha la pistola nel cruscotto.

Arriva in Italia senza conoscere una parola d’italiano e si inabissa nel ventre di Napoli, che diventa la sua casa, scuola, famiglia. Sceglie di vivere in una delle zone più malfamate del centro storico, lo stesso dedalo a due passi dall’Università in cui Malaparte ambienta le pagine più sconvolgenti di “La pelle”. La chiama “Fontana del re” dai resti di un’antica fontana, fatta a pezzi dai ragazzi del quartiere, da qui il titolo del libro. E in questo gesto di autodistruzione Belmonte vede una città in guerra con se stessa.

L’autore sceglie come punto di osservazione umano, ma anche concettuale, proprio il sottoproletariato che vive alla giornata, senza speranza di riscatto. Una plebe che però non ha ancora il maledettismo sinistro di Gomorra. E’ l’ultima tribù pasoliniana, lontana, quasi straniera eppure strettamente tramata nel tessuto della città, come un nucleo primordiale, un fondo irriducibile e irredimibile. Più una casta che una classe sociale. E Belmonte la racconta senza sociologismi, senza astrazioni. Chiamando tutti per nome, ancorché di fantasia. Ma le storie di Elena, Stefano, Gennaro, Nina sono profondamente vere. Incarnate e al tempo stesso trasfigurate da una penna che riesce a far brillare la scintilla della poesia sotto quella cenere di sogni proibiti e di bisogni traditi.

Il vicolo lo accoglie come una tana, ospitale ed esigente, al punto da costringerlo spesso a custodire droga sotto il letto in quanto persona insospettabile. Lì l’americano diventa “Tommasino” e impara i codici della vita. A cominciare dalla lingua, un italiano dal pesantissimo accento partenopeo e dall’effetto irresistibilmente comico. Una volta lo feci invitare a Milano per una rassegna di cinema antropologico organizzata dal Teatro dell’Elfo. C’era molta gente venuta per ascoltare l’allievo di Margaret Mead, antropologo di strada, ma studioso finissimo. Appena Thomas prese la parola scoppiò una risata fragorosa, per quella parlata a metà fra Dean Martin e Mario Merola. Lui, superato il primo istante di imbarazzo, ammise spiritosamente che la sua lingua era rimasta impigliata nei vicoli napoletani. In realtà il decalogo antropologico secondo cui il ricercatore deve imparare a parlare direttamente dai nativi, come Mead a Samoa o Gregory Bateson in Nuova Guinea, gli aveva giocato un brutto tiro. La conferenza fu un grande successo. Anche perché Belmonte, forte della full immersion nell’umano troppo umano della convivenza partenopea, riusciva a entrare in comunicazione con qualunque tipo di interlocutore. Con acutezza analitica e capacità di penetrazione, emozione e commozione. Da autentico scrittore più che da semplice ricercatore.

Ed è proprio la densità incandescente della prosa a rendere straordinario “La fontana rotta”. Che non è solo un libro sul sottoproletariato urbano. E va oltre l’etnografia. E’ un racconto di Napoli come metafora del mondo, dinamizzato da una scrittura ad altissima densità narrativa. La qualità letteraria fa brillare il nucleo scientifico del lavoro di Belmonte custodendo, come un prezioso involucro poetico, il senso di quello scambio tra umanità che è il focus di ogni ricerca antropologica.

Dall’affresco dell’autore si stagliano soprattutto le figure femminili, così centrali nella società napoletana dove la donna regna ma non governa. E sembra che abbia potere solo perché interpreta con potenza teatrale il suo ruolo sociale di mamma. Genitrice e redistributrice di cibo, di indulgenza, di consolazione, di gratificazione. E’ un mondo popolato di mogli decantate, madri divinizzate e donne dimezzate. Ma anche di femmine fatali, soprattutto a se stesse. Come Leah, rampolla di una ricca famiglia ebrea di Copenaghen che ha lasciato marito e figli per seguire un artista da circo ed è diventata una prostituta colta e poliglotta, una regina dei quadrivi e degli angiporti, sospesa tra la Bambenella di Raffaele Viviani e la Jenny di Bertolt Brecht, ma ormai più napoletana dei napoletani.

“La fontana rotta” ci restituisce l’immagine di un universo quasi picaresco, dove la furbizia è un’arma di sopravvivenza e la forza viene venerata. La forza “si siede alla loro tavola per essere onorata e ingerita da ciascuno, come nel rito della comunione”. Ma Napoli è anche l’antica capitale della carità, la sola città europea, ripeteva sempre Thomas, in cui la furbizia è inseparabile dalla generosità. E l’una appare il solidale risarcimento dell’altra, la restituzione di un debito contratto con la comunità. Anche l’americano, dal canto suo, ricambia gli abitanti di Fontana del Re che lo hanno adottato, e arriva a leggere loro le pagine che ha scritto sul quartiere e sui suoi personaggi. Perché non si sentano semplici oggetti di studio. Perché riconoscano se stessi nelle parole di quell’ospite ficcanaso. Che ha amato tanto la loro città da volere che le sue ceneri venissero disperse nel mare del golfo. E così nel 1995 Thomas è diventato una sola cosa con Napoli.

 

                                               Marino Niola