N. Machiavelli, “La condanna dei principi italiani del suo tempo”

Niccolò Machiavelli, “La condanna dei principi italiani”, dall’”Arte della guerra”, 1519-1521.

 

Questa è la pagina finale del trattato nella quale, esaurita l’analisi politica e tecnica delle questioni militari –svolta attraverso il dialogo tra il capitano Fabrizio Colonna e i suoi giovani interlocutori degli Orti Oricellari fiorentini-, è posta in primo piano da Machiavelli la dura condanna della viltà dei principi italiani del suo tempo, il sogno nostalgico di un passato antico di concordia e unione, la speranza che i giovani dimostrino che ci sono per l’Italia concrete possibilità di ripresa e di rinascita.

 

“Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcuno ordine buono, e, per non avere avuto quella necessità che hanno avuta gli Spagnuoli, non gli hanno per loro medesimi presi; tale che rimangono il vituperio del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, ma sì bene i principi loro; i quali ne sono stati gastigati, e della ignoranza loro ne hanno portate giuste pene, perdendo ignominiosamente lo Stato, e sanza alcuno esemplo virtuoso.

Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre sono state in Italia dalla passata del re Carlo ad oggi; e solendo le guerre fare uomini bellicosi e riputati, queste quanto più sino state grandi e fiere, tanto più hanno fatto perdere di riputazione alle membra e a’ capi suoi. Questo conviene che nasca che gli ordini consueti non erano e non sono buoni; e degli ordini nuovi non ci è alcuno che abbia saputo pigliarne (…).

Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le sùbite fughe e le miracolose perdite; e così tre potentissimi Stati, che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti. Ma quello che è peggio, è che quegli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine, e non considerano che quegli che anticamente volevano tenere lo Stato, facevano e facevano fare tutte quelle cose che da me si sono ragionate, e che il loro studio era preparare il corpo a’ disagi e lo animo a non temere i pericoli. Onde nasceva che Cesare, Alessandro e tutti quegli uomini e principi eccellenti, erano i primi tra’ combatti tori, andavano armati a piè, e se pure perdevano lo Stato, e’ volevano perdere la vita; talmente che vivevano e morivano virtuosamente. E se in loro, o in parte di loro, si poteva dannare troppa ambizione di regnare, mai non si troverà che in loro si danni alcuna mollizie o alcuna cosa che faccia gli uomini delicati e imbelli. Le quali cose, se da questi principi fussero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non mutassero forma di vivere e le provincie loro non mutassero fortuna (…).

Colui dunque che dispregia questi pensieri, s’egli è principe, dispregia il principato suo; s’egli è cittadino, la sua città. E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire. Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale, che, essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piacciano, ai debiti tempi, in favore de’ vostri principi, aiutarle e consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura. Ma quanto a me si aspetta, per essere in là con gli anni, me ne diffido. E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto Stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna”.

                                               Dall’”Arte della guerra”, libro VII (1521)

 

Parla Fabrizio Colonna, che nelle pagine precedenti, dopo aver esaminato con sdegno e amarezza la situazione militare dell’Italia, aveva operato una piccola digressione per negare che il problema militare italiano potesse essere risolto trasferendo nella penisola i modelli svizzero e spagnolo, e ora ritorna a parlare dei soldati italiani.

“Ma torniamo ai soldati italiani, i quali, per non avere avuto principi saggi (si noti il rapporto strettissimo che intercorre fra ordinamenti militari e organizzazione e azione politica), non hanno avuto modo di imparare una buona e valida condotta di guerra, e non essendosi trovati nello stato di necessità nel quale si sono trovati gli spagnoli (subito prima di questo passaggio Machiavelli aveva scritto che gli Spagnoli si erano trovati a combattere in una terra straniera ed essendo costretti o a vincere o a morire, poiché non avevano possibilità di fuga, erano diventati valorosi), non li hanno imitati e non hanno potuto sviluppare da soli buone condotte di guerra; cosicché i soldati italiani rimangono la vergogna del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, sono i loro principi ad essere colpevoli; i quali ne sono stati castigati, e puniti giustamente per la loro ignoranza, perdendo con ignominia lo Stato, e senza che sia possibile indicare un solo esempio di principe dotato di virtù e di valore (la condanna dell’inettitudine e dell’irresponsabilità dei governanti è formulata con durezza, senza possibilità di appello).

Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre ci sono state in Italia dalla discesa di Carlo VIII di Francia, dal 1494 ad oggi; e mentre di solito le guerre rendano gli uomini coraggiosi e diano loro fama, quanto più queste siano state grandi e feroci, tanto più hanno svergognato i popoli e i principi (Machiavelli usa linguaggio e immagini presi dalla scienza naturale). Da ciò bisogna ricavare la conclusione che gli ordinamenti degli Stati italiani non erano e non sono buoni; e di nuovi ordinamenti non c’è traccia (…).

Credevano i nostri principi italiani, prima di essere sconfitti duramente dagli eserciti stranieri, che a un principe bastasse saper costruire nei gabinetti privati delle corti una risposta acuta e ingegnosa, scrivere una bella lettera, mostrarsi arguti e pronti nella conversazione, saper ordire inganni, ornarsi d’oro e di gioielli, dormire e mangiare lussuosamente, ostentare la ricchezza e gli sfarzi, comportarsi con i sudditi in modo avaro e superbo, marcire nell’ozio, conferire importanti incarichi militari secondo il proprio capriccio o per considerazioni di meriti cortigiani, e non in base a effettiva competenza e esperienza, disprezzare chi fosse stato capace di indicare una condotta personale e politica più corretta e più rispondente alle esigenze dello Stato, volere che le loro parole fossero considerate indiscutibili, come risposte di oracoli; né si accorgevano gli sventurati (qui c’è, insieme, durezza di giudizio e amarezza) che si preparavano ad essere preda di chiunque li assaltasse. Da qui nacquero poi nel 1494 i grandi spaventi, le improvvise fughe e le incredibili sorprendenti sconfitte; e così tre potentissimi Stati, Milano Venezia e Napoli, che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e rovinati dalle scorrerie degli eserciti stranieri (in altri scritti Machiavelli dirà, “tutta Italia fu corsa, lacera, pesta”). Ma quello che è peggio è che gli italiani stanno nel medesimo errore e continuano a vivere nel medesimo disordine, e non considerano che i popoli antichi che volevano mantenere uno Stato ordinato, facevano e facevano fare tutte quelle cose di cui io ho discusso, e che la loro preoccupazione, la loro cura principale era preparare il fisico ai disagi e l’animo a non aver paura dei pericoli. Da questo derivava che Cesare, Alessandro Magno e tutti quegli uomini e condottieri eccellenti erano i primi nelle battaglie e, se capitava loro di  perdere lo Stato, essi volevano perdere la vita, a tal punto che vivevano e morivano con valore. E se in loro, o in una parte di loro, si poteva condannare un’eccessiva ambizione di regno, mai si troverà che in loro si condanni una rilassatezza di costumi o qualcosa che renda gli uomini raffinati all’eccesso e quindi incapaci di coraggio. Se da questi principi fossero letti e creduti il comportamento e le azioni dei grandi uomini del passato, sarebbe impossibile che essi non cambiassero il loro modo di vivere e non cambiasse la fortuna dei territori da loro governati …).

Dunque colui che disprezza questi pensieri, se è principe, disprezza il suo principato; se egli è cittadino, disprezza la sua città. E io mi lamento della natura, che o non mi doveva far conoscere questa realtà o mi doveva dare la possibilità di poter esercitare pienamente le mie competenze militari (a parlare è sempre il Colonna ma qui si riflette anche lo stato d’animo di Machiavelli, anche lui costretto all’impotenza nonostante la coscienza che sempre ha avuto delle sue qualità e capacità di politico). Né penso oggi, essendo ormai vecchio, di poterne avere più occasione; e per questo io sono stato con voi generoso nelle confidenze e nei ragionamenti, con voi che, essendo giovani e qualificati, potrete, nei tempi debiti e in favore dei vostri principi, utilizzarli per consigliarli nel governo dello Stato. Io non voglio che voi vi facciate prendere dalla paura e dalla diffidenza, perché questa Italia sembra nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura (è un estremo atto di fiducia nella grande cultura rinascimentale italiana, che potrà far rinascere anche virtù militari e politiche decadute, come fino a poco prima erano state poesia, pittura, scultura e architettura, rifacendosi alla cultura classica).

 

Commento. Questa frase con cui si chiude il trattato richiama alla nostra mente sia il memorabile finale del “Principe” che l’inizio del “Decennale primo” e tanti altri passi delle “Istorie” e dei “Discorsi”. L’amarezza e il dramma personale e di un’intera generazione sono superati dalla fiducia che i più giovani sapranno fare quanto i loro predecessori non hanno saputo e potuto realizzare.

Sostiene la critica che più di ogni altro scrittore e uomo politico del suo tempo, Machiavelli prestò un’attenzione costante ai mutamenti nella tecnica militare e cercò di interpretare i fenomeni storici ai quali assisteva alla luce dei fatti militari. La sua tesi di fondo è che esiste una stretta e continua interdipendenza fra organizzazione militare e organizzazione politica. E’ questo uno dei temi principali del trattato l’Arte della guerra.

Questo trattato di teoria militare in sette libri fu composto da Machiavelli negli anni 1519-1520. Pubblicato nel 1521 dai Giunti, a cura dell’autore. L’opera (dedicata a Lorenzo Strozzi) si svolge in forma di dialogo ed è un trattato non di tipo scolastico ma di tipo umanistico. Lo scenario è fornito dagli Orti Oricellari di Firenze. Gli interlocutori sono i frequentatori abituali di quel circolo culturale: il patrono delle riunioni Cosimo Rucellai, Zanobi Buondelmonti, Battista della Palla, Luigi di Piero Alamanni. Ma il vero protagonista delle discussioni è il noto condottiero Fabrizio Colonna che Machiavelli immagina ospite di Rucellai durante un suo soggiorno a Firenze e al quale affida, nel dialogo, l’esposizione delle sue idee. L’autore ribadisce la sua decisa condanna delle armate mercenarie, che vanno sostituite con milizie cittadine. La parte strettamente tecnica del trattato, attribuendo scarsa importanza alle truppe a cavallo e alle nuove armi da fuoco, esalta il ruolo della fanteria e propone l’applicazione a essa degli ordinamenti militari romani (sono idee esposte anche nei “Discorsi”, II, 10 e seguenti). Ma l’impostazione globale dell’opera rimane fondamentalmente politica: solo il potere civile può garantire l’efficienza bellica, decidendo la condotta delle operazioni e coordinando le azioni dei singoli comandanti (v. “Il materiale e l’immaginario” di Ceserani- De Federicis, Loescher, 1979, v. IV, p. 758). Nel suo tempo pochi seppero capire il significato rinnovatore profondo dei legami sostanziali intuiti e proposti da Machiavelli fra politica, guerra e religione (“come possono coloro che dispregiano Dio riverire gli uomini?”), in una concezione globale che lascia ancora oggi interrogativi inquietanti. Perché non ricordarsi di Francesco De Sanctis che chiamò Machiavelli il Lutero italiano?

Da più parti si è sottolineato che Machiavelli, troppo infatuato del modello romano, commette il grave errore di sottovalutare l’importanza delle armi da fuoco e soprattutto delle artiglierie, fattore risolutivo delle grandi battaglie del tempo. Criticabile è pure la confusione che egli fa tra il mercenarismo presente in ogni esercito europeo e le compagnie di ventura dei condottieri, proprie della situazione italiana. Le truppe mercenarie, formate da professionisti della guerra, esperti delle nuove tecniche e tattiche militari, erano molto più preparate e affidabili dei vecchi eserciti dell’aristocrazia feudale. La mancanza in Italia di un forte potere centrale aveva invece favorito lo sviluppo delle compagnie di ventura, agli ordini di comandanti venali e infedeli, che passavano facilmente dall’uno all’altro contendente, contribuendo a rendere ancora più instabile la già precaria situazione politica della penisola. Il Colonna-Machiavelli alla fine del trattato deve riconoscere con amarezza che la riforma militare è impossibile perché mancano in Italia uno Stato e un principe all’altezza di un siffatto progetto tecnico-strategico.

E’ interessante notare come Machiavelli ritorni in modo quasi ossessivo (come tutta la sua generazione) sugli avvenimenti del 1494 e sull’effetto di shock che essi ebbero, rivelando l’intrinseca debolezza degli Stati italiani. Perciò è utile riportare anche una pagina di F. Guicciardini, tratta dalle “Storie fiorentine dal 1378 al 1509”, nella quale si spiega come l’intervento straniero avesse posto velocemente fine alla politica d’equilibrio che nel secondo Quattrocento aveva garantito all’Italia una pace precaria: “Perché dove prima, sendo divisa Italia principalmente in cinque Stati, Papa, Napoli, Vinegia, Milano e Firenze, erano gli studi di ciascuno, per conservazione delle cose proprie, vòlti a riguardare che nessuno occupasse di quello d’altri ed accrescessi tanto che tutti avessino a temerne, e per questo tenendo conto di ogni piccolo movimento che si faceva e facendo romore eziandio della alterazione di ogni minimo castelluzzo, e quando pure si veniva a guerra erano tanto bilanciati gli aiuti e lenti e’ modi della milizia e tarde le artiglierie, che nella espugnazione di uno castello si consumava quasi tutta una state, tanto che le guerre erano lunghissime ed e’ fatti d’arme si terminavano con piccolissima e quasi nessuna uccisione; ora, per questa passata de’ franciosi, come per una subita tempesta rivoltatasi sottosopra ogni cosa, si roppe e squarciò la unione di Italia ed el pensiero e cura che ciascuno aveva alle cose comuni (…) Nacquono così le guerre subite e violentissime, spacciando ed acquistando in meno tempo uno regno che prima non si faceva una villa; le espugnazioni delle città velocissime e condotte a fine non in mesi, ma in dì ed ore; e’ fatti d’arme fierissimi e sanguinosissimi. Ed in effetto gli Stati si cominciarono a conservare, a rovinare, a dare ed a torre non co’ disegni e nello scrittoio, come pel passato, ma alla campagna e colle arme in mano”.

Il lungo processo che si era venuto svolgendo nel mondo politico italiano, elevando a un potere tirannico oligarchie sempre più ristrette e finendo col disgregare le strutture stesse della società, giungeva alle sue amare conclusioni. Riflettiamo sul contesto: il Rinascimento italiano, con le sue grandi conquiste artistiche e letterarie, si legava alla prima rivoluzione dell’informazione (l’invenzione della stampa) e alla prima ondata della globalizzazione (le nuove rotte di Colombo e di Vasco da Gama). Ma ciò, paradossalmente, si accompagnava alla perdita rovinosa dell’indipendenza italiana. E Niccolò Machiavelli, l’unico intellettuale che nel primo Cinquecento avesse una visione ormai europea del problema italiano, era nel giusto quando considerava il problema della forza, in qualsiasi forma, come centrale nella vita di uno Stato moderno e quindi indissociabile dal rinnovamento delle istituzioni e del costume politico.

Gennaro  Cucciniello