Belli. Sonetti. Il Papa. “L’avocato de le cause sperze”, 18 febbraio 1833

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Immagine e ruolo del Papa. “L’avocato de le cause sperze”, 18/2/1833

Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere.

Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.

E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.

A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

 

“L’avocato de le cause sperze”                                           18 febbraio 1833

 

Eh già, tutti li guai, tutti li scarti

sò pe causa der Papa a sto paese:

e nun fuss’io che n’aripìo li quarti,

lo vorìano schiattato in mezzo mese.                                                         4

 

Li Cardinali fanno troppe spese:

è er Papa. S’arisenteno l’assarti:

è er Papa. S’arricchischeno le chiese:

è er Papa. S’aridoppieno l’apparti:                                                  8

 

è er Papa. Tutto er Papa, ciorcinato!

Lui cresce le gabbelle, cala er pane,

frega er zuddito, buggera lo Stato!…                                                          11

 

Come! Questo è er linguaggio che s’addopra

Cor Crist’-in-terra, eh fiji de puttana?

Zitti: e ar Papa, per dio, ‘na pietra sopra.                                     14

 

Eh già, la colpa di tutti i guai, di tutti gli errori viene attribuita al Papa in questo paese: e se non ci fossi io a prenderne le difese lo vorrebbero veder morto in quindici giorni. I Cardinali spendono troppo: è colpa del Papa. Si risente parlare di aggressioni di briganti: è colpa del Papa. Si arricchiscono le chiese: è colpa del Papa. Si moltiplica il numero degli appalti ai privati della riscossione di rendite pubbliche: è colpa del Papa. Tutto è colpa del Papa, poveretto! Lui aumenta le tasse, lui rimpicciolisce il peso del pane a parità di prezzo, lui inganna il suddito, lui rovina lo Stato!… Come! È questo il linguaggio che si adopera nei confronti del Cristo in terra, eh, figli di puttana? Zitti: e sul Papa, per dio, mettiamo una pietra sopra (seppelliamolo nel silenzio).

 

Metro: sonetto (ABAB BABA CDC EDE).

Le quartine.

E’ un tema ricorrente nei suoi sonetti: le critiche della plebe romana verso il governo del Papa-re, accusato di favorire la corruzione, di tartassare i più deboli economicamente, di non saper nemmeno garantire l’ordine pubblico. La voce parlante si fa avvocato difensore del papa: allo sfogo umorale della plebe, che vorrebbe fare assurdamente del Papa il capro espiatorio di ogni male, l’avvocato tenta goffamente di mettere ordine verbale al caos delle emozioni e delle rabbie di chi spesso non ha abbastanza parole per esprimerle ma sa contrapporre solo un autoritarismo dispotico che approda all’autoparodia. La causa di difendere il Papa agli occhi della plebe era persa in partenza, ma alla fine è persa doppiamente.

Andamento fortemente teatrale, successione velocissima delle intonazioni, scandite dalle strofe. 1°: la voce monologante dell’avvocato si atteggia a difensore della ragionevolezza e del buon senso, più ancora dello stesso Papa, nei confronti di un “loro” indistinto –chiaramente identificabile con la plebe romana- il cui semplicismo e la cui irragionevole furia iconoclasta sono stigmatizzati dalla icastica metafora schiattato in mezzo mese e dall’enumerazione anaforica tutti li guai, tutti li scarti. 2° e 3°: sono occupate da una parodia: l’avvocato riproduce attraverso il discorso diretto libero il crescendo delle accuse rivolte al Papa (nome ossessivamente citato cinque volte in quattro versi consecutivi); c’è un uso molto più insistito che in precedenza dell’anafora (è er Papa) che si combina con un particolare andamento enfatico dei versi: l’enjambement –se pure corretto dai due punti- prima dell’emistichio (è er Papa) attribuisce a questa espressione un andamento di conclusione perentoria, il cui ottuso semplicismo è messo in parodia. Lo spirito parodistico si rivela esplicitamente nell’esclamazione (Tutto er Papa, ciorcinato) e nella frenetica serie di parallelismi sintattici che contrappongono cresce a cala e rinforzano frega con buggera. 4°: è un colpo di scena. L’avvocato difensore si trasforma in accusatore, il generico “loro” diventa un “voi” che inchioda la plebe alle sue responsabilità e al suo ruolo subalterno. Quella che sembrava una difesa del Papa in nome del buon senso e della capacità di distinguere razionalmente rivela il suo vero carattere di brutalità autoritaria: le tre esclamazioni (Come!, Zitti, per dio) e l’interrogativa retorica (vv. 12-13), oltre all’insulto fiji de puttana, sono il segno evidente del rifiuto di ogni dialogo da parte di un potere dispotico e sfrontato, che in fondo sa di poter contare sull’immobilismo dei sudditi, capaci solo di lamentarsi; contro questi sudditi sono infatti sempre efficaci l’inganno e l’intimidazione, esercitati facendo appello all’istanza del sacro, che si pone al di sopra dii ogni critica razionale. Splendida però è l’ambiguità finale. L’avvocato cade infatti in tre evidenti contraddizioni, con effetto antifrastico: rivendica la correttezza di linguaggio e, da parte sua, usa il turpiloquio; parla del Papa con le espressioni ambigue di Crist’-in-terra a cui mettere ‘na pietra sopra, e crea così un effetto di cinico distacco dalla causa che difende; e infine quel per dio può suonare sia come bestemmia autoritaria, sia però anche come accenno alla suprema istanza divina che giudicherà anche il Papa. Nell’ultimo verso è il poeta che interviene, svelando il vero valore di questa disputa tra la plebe, esasperata da un oggettivo malgoverno ma incapace di agire se non imprecando vanamente contro un capro espiatorio, e un esponente di quel corrotto e parassitario governo papalino, incapace di dare espressione a un ceto medio moderno e produttivo, che difende lo status quo con argomenti autoritari e non razionali. Belli così esprime, seppure attraverso l’ironia, un atteggiamento di pessimismo radicale e sconsolato, senza saper indicare una via d’uscita da questa impasse.

 

Il giorno prima, il 17 febbraio 1833, Belli scrive: “Li sette peccati mortali”

 

Senti, te vojo dà ssette segreti

Su la distribbuzzion de li peccati.

L’avarizia è er peccato de li preti,

E l’usuria er peccato de li frati.                                                         4

 

La superbia impallona li poveti

Pe li loro sonetti stiracchiati:

E la gola incazzisce li tre ceti

De cardinali, vescovi e pprelati.                                                        8

 

Le donne attempatelle hanno l’invidia:

Li cavajeri cojonati, l’ira;

E l’impiegati pubbrichi l’accidia.                                                      11

Striggni poi tutto er settenario, e capa:

Méttelo drent’ar bussolo, e ppoi tira:

Qualunque piji nun sta bene ar Papa.                                             14

 

Senti, ti voglio confidare sette segreti sulla distribuzione dei peccati. L’avarizia è il peccato dei preti, la lussuria è il peccato dei frati. La superbia gonfia come palloni i poeti per i loro sonetti mal costruiti: la gola istupidisce i tre ceti dei cardinali, dei vescovi e dei prelati. Le donne in là con gli anni hanno l’invidia, i cavalieri sbeffeggiati hanno l’ira; e gli impiegati pubblici l’accidia. Stringi poi tutto il settenario, e scegli: mettilo dentro un bussolotto, e poi estrai: qualunque peccato pigli non sta bene al Papa.

 

   Gennaro  Cucciniello