Neanderthal che ci somiglia, ma non troppo

Neanderthal che ci somiglia, ma non troppo

Ha dipinto, forse praticato riti, ed era empatico. Ma è sbagliato farlo passare per una nostra copia. Intervista a Giorgio Manzi.

 

La conferma è arrivata lo scorso agosto: non siamo stati noi Sapiens i primi a pitturare le caverne, lo faceva già Homo neanderthalensis. Datando la calcite che copre stalattiti dipinte di rosso nella Cueva de Ardales, presso Malaga, paleontologi spagnoli e italiani hanno concluso che i pigmenti sono stati applicati oltre 60mila anni fa, 15mila anni prima che i Sapiens mettessero piede in Europa. Questa scoperta è solo l’ultima di una serie che attribuisce ai Neanderthal comportamenti collegabili a un pensiero simbolico complesso: il ritrovamento di piccole sculture in Germania e di ornamenti fatti di piume e artigli di aquila in Croazia e Italia, e persino l’individuazione, nel 2016, di una sezione nella grotta di Bruniquel in Francia arredata, 176mila anni fa, con 400 pezzi di stalattite disposti in due cerchi, al centro dei quali si accendevano fuochi, forse per svolgere rituali.

L’idea che i Neanderthal fossero mentalmente molto simili a noi è un bel passo rispetto al considerarli solo dei bruti scimmieschi, opinione prevalente fin da quando il loro primo cranio fu rinvenuto nel 1856 nella valle del fiume tedesco dal nome profetico di Neander (nuovo uomo, in greco). Se si aggiunge poi che la loro lunga permanenza in Europa non sembra aver portato danni all’ambiente, al contrario delle estinzioni a raffica indotte dai Sapiens ogni volta che arrivavano in una nuova terra, ecco che i Neanderthal sembrano addirittura una umanità migliore, distrutta dai nostri rapaci antenati intorno a 40mila anni fa: si delinea così una sorta di storia di Caino e Abele pleistocenici.

Non la pensa così il paleoantropologo Giorgio Manzi, docente alla Sapienza di Roma, accademico dei Lincei e prolifico divulgatore scientifico attraverso libri, articoli e programmi tv. Il suo nuovo saggio, “L’ultimo Neanderthal racconta” (il Mulino) riassume quello che la scienza sa di questa specie e, anche attraverso un dialogo onirico con l’ultimo di loro, cerca di spiegarne la scomparsa. “Io sono innamorato dei Neanderthal, li studio da una vita e ho scavato in tanti dei loro siti italiani”, ci racconta Manzi, “però tentare di farli passare per una nostra copia non è corretto: fra Neanderthal e Sapiens ci sono grandi differenze fisiche e cognitive”.

Ma non si dice che un Neanderthal in giacca e cravatta potrebbe passare per un contemporaneo?

Si dice, ma non è vero. Erano piuttosto bassi, con arti corti, torace e fianchi larghi e molto muscolosi: sarebbero stati grandi giocatori di rugby. Avevano poi un naso enorme, la fronte bassa prolungata da una visiera ossea, mento sfuggente e, soprattutto, una testa molto allungata, con una protuberanza sopra la nuca. Non credo proprio che passerebbero inosservati.

Perché erano fisicamente così diversi da noi?

Perché ci separano 500mila anni di evoluzione. Sapiens e Neanderthal discendono da Homo heidelbergensis, che apparve in Africa intorno a 600mila anni fa e poi si diffuse dall’Europa alla Cina a partire, appunto, da 500mila anni fa. Da alcuni Heidelbergensis rimasti in Africa, intorno a 200mila anni fa, sono derivati i Sapiens, così come da alcuni di quelli europei, 250mila anni fa, vennero i Neanderthal. Così, mentre i nostri antenati diretti si sono evoluti ai Tropici, i Neanderthal, esposti a un clima che alternava brevi periodi temperati a terribili glaciazioni, si adattarono al freddo: il loro corpo divenne tarchiato per trattenere meglio il calore e con vasti seni nasali per scaldare e umidificare l’aria. Secondo il collega Juan Luis Arsuaga forse andavano anche in letargo, e a quello serviva la grotta di Bruniquel. Nonostante questi adattamenti, però, le loro popolazioni crescevano solo nei periodi interglaciali, spingendosi fino in Siberia, mentre a ogni ritorno del gelo si riducevano al minimo.

Anche se diversi da noi, i Neanderthal hanno però evoluto un cervello grande quanto il nostro.

In effetti i loro cervelli occupavano in media un volume di circa 1500 cm cubi, come quello dei Sapiens, ma, se contasse solo il volume, gli elefanti dominerebbero il mondo. Il punto è che ai Sapiens è accaduto qualcosa di unico nel genere Homo: siamo i soli ad avere un cervello tondeggiante, non allungato. In una piccola popolazione isolata di Sapiens arcaici in Africa orientale, circa 200mila anni fa, la mutazione casuale di alcuni geni deve aver cambiato la velocità con cui il cranio dei neonati si salda nei primi mesi, consentendo al cervello di crescere verso l’alto, e così sviluppare di più la parte sommitale, ampliando le aree disponibili per memoria, ragionamento e fonazione. Ciò avrebbe permesso ai Sapiens di avere un linguaggio con una sintassi più complessa rispetto a quella dei Neanderthal e perciò più adatto a mettere in comune i cervelli, per scambiarsi idee, perfezionarle e tramandarle: già solo questo può spiegare la maggiore creatività dei nostri antenati.

Ma l’essere sopravvissuti all’inferno glaciale europeo per più di 200 millenni non è già prova di un cervello brillante e creativo?

Consideriamo come le due specie hanno affrontato le sfide della glaciazione: i Neanderthal hanno dovuto attendere che l’evoluzione li dotasse di corpi più resistenti al freddo, ma, nonostante questo, a ogni ritorno del gelo rischiavano l’estinzione, anche perché lo affrontavano con strumenti che sono cambiati poco lungo tutto il periodo in cui sono vissuti. I Sapiens, pur avendo un corpo adattato ai Tropici, hanno elaborato innovazioni ad hoc per la nuova situazione, come le pelli cucite o la domesticazione del lupo, e queste, nel bel mezzo della glaciazione, hanno consentito loro di moltiplicarsi e colonizzare tutta l’Eurasia, penetrando persino nelle Americhe.

Oggi però sappiamo che anche i Neanderthal innovavano e avevano un pensiero simbolico.

Certo, ma nonostante gli oltre 200mila anni di permanenza, abbiamo trovato, attribuibili a loro, solo qualche ornamento, piccoli intagli o linee dipinte. I Sapiens, invece, appena arrivati in Europa la riempiono di bellissime pitture e sculture, invenzioni rivoluzionarie come arco o ami, e persino strumenti musicali. Insomma, i Neanderthal producevano sì innovazioni e arte, ma queste restavano idee sporadiche e isolate, mentre per i Sapiens creare era sistematico e incrementale: ogni idea nuova si diffondeva e faceva da base per altre. Per non dire poi che la creatività dei Neanderthal aumenta dopo i primi incontri con i Sapiens, come se li imitassero.

Forse i nostri antenati sono stati gli “influencer” dei Neanderthal, però loro erano sociali ed empatici quanto noi.

Empatici sicuramente: non avendo armi da lancio, cacciavano le grandi prede corpo a corpo, subendo spesso fratture e mutilazioni, che richiedevano poi l’assistenza del gruppo per sopravvivere. Però ci sono anche prove che a volte praticavano il cannibalismo, cosa che non deve stupire vista la durezza del loro ambiente di vita. Non si sa molto della loro socialità, ma visto che memoria e linguaggio ampliano e rendono più articolate le relazioni interpersonali, credo che anche in questo i Sapiens fossero avvantaggiati, potendo riunirsi in gruppi più vasti delle bande Neanderthal di 10-20 individui.

Quindi la differenza mentale era tale che alla fine li abbiamo sterminati?

Niente affatto. Sapiens e Neanderthal hanno convissuto per circa cinquemila anni, cioè lo stesso tempo passato fra i Sumeri e noi, arrivando ad accoppiarsi: oggi il 2-4% del Dna dei non africani è neanderthal. Il fatto è che i nostri antenati sono arrivati nei loro territori nel picco dell’ultima glaciazione che, al solito, aveva ridotto i Neanderthal al lumicino. Grazie alle loro tecnologie innovative, i Sapiens hanno sfruttato meglio le risorse locali, moltiplicandosi ed espandendosi fra le bande degli altri, e finendo per spingerle in territori marginali e per isolarle l’una dalle altre, fino all’estinzione.

Triste fine per una umanità alternativa, che, se non altro, riusciva a convivere con la natura senza distruggerla.

Non è che loro fossero buoni e noi cattivi. Il fatto è che, grazie alla nostra tecnologia, noi siamo meno in balia dei metodi spicci usati dalla natura per limitare le popolazioni: carestie, epidemie, malattie o disastri climatici. Tendiamo così a espanderci oltre i limiti naturali, monopolizzando le risorse. Oggi questa nostra capacità ci si sta ritorcendo contro, ma confido che il nostro brillante cervello tondeggiante, dopo aver inquadrato il problema, riesca anche a risolverlo, evitandoci l’amaro destino dei Neanderthal.

 

 

                            Alex Saragosa                                Giorgio Manzi

 

Questo articolo-intervista è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 29 ottobre 2021, alle pp. 62-65.