Belli. Sonetti. “Er padrone padrone”, 23 dicembre 1837

Belli. Sonetti. “Er padrone padrone”

 

I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.

Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.

La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.

L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Gibellini-Felici-Ripari, “Belli. I sonetti. Edizione critica”, Einaudi, Torino, 2018.

 

         “Er padrone padrone”           23 dicembre 1837

 

Era da un pezzo c’avevo annasato

Ch’er zor padrone m’ucellava Ghita.

Dico: “Eccellenza, vado ar Caravita”.

Dice: “Va’ bello mio: bravo, Donato”.                               4

 

Io m’agguatto in cucina; e appena uscita

La padrona cor zu’ ganzo affamato,

Te li pijo in gattaccia: “Ebbè? ch’è stato?”

Dice: “Gnente… giucamio una partita”.                          8

 

Dico: “Me pare a me che de sto svario

Se ne pò ffà de meno; e ste su’ voje

Nun entreno ner conto der zalario”.                                 11

 

Dice: “Se pò ssapé che ve se scioje?

Oh guardatelo lì che temerario!

Nun vò che mi diverti con zua moje”.                               14

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD).

 

                                      Il padrone padrone

Era da un po’ di tempo che avevo subodorato che il signor padrone se la faceva con mia moglie Margherita. Gli dico: “Eccellenza, vado a pregare all’oratorio del Caravita”. Lui dice: “Và bello mio: bravo Donato”. Io mi nascondo, mi pongo in agguato in cucina; e, appena uscita la padrona col suo amante voglioso, col suo cicisbeo squattrinato, li prendo sul fatto: “Ebbè? che è stato?”. Lui dice: “Niente… giocavamo una partita”. Io dico: “Sembra a me che di questo gioco si può fare a meno; e che queste sue voglie non entrano nel conto del salario”. Lui dice: “Si può sapere quali nuove idee vi saltano in testa? Oh, guardatelo questo temerario! Non vuole che io mi diverta con sua moglie!”.

 

Prima quartina.

E’ l’antefatto. Il servitore ha capito l’antifona, il suo è più che un sospetto: il padrone fa sesso abitualmente con sua moglie. Vuole coglierlo in flagrante, e allora finge addirittura di voler andare in chiesa. Si merita così anche una lode compiaciuta. Belli costruisce una scena teatrale, dialogata, quasi un botta e risposta.

Le altre strofe.

La descrizione è accurata in tutti i suoi dettagli. Il nostro servo si nasconde in cucina, dove evidentemente gli amanti si rinserravano; neanche tanto di sfuggita si allude alla padrona che esce liberamente da casa col “zu’ ganzo affamato” (una notazione che rivela contemporaneamente l’opportunismo economico e l’appetito erotico dei maschietti frequentatori delle dame e la libertà dei costumi dell’aristocrazia romana); c’è poi lo scambio insistito delle battute, rivelato dall’alternarsi del “Dice” (v. 8), “Dico” (v. 9), “Dice” (v. 12): la sottolineatura di un conflitto sociale e morale. Da una parte il nobilotto che non riesce proprio a vedere la demarcazione tra il lecito e l’illecito; dall’altra il servo che sorvolerebbe pure sulle corna, a patto però che ci sia un compenso salariale. La nota finale va oltre il sarcasmo: in quel “che idee nuove vi saltano in testa” c’è l’allusione alle pretese di giustizia che un mondo nuovo potrebbe creare. Così la scenetta potrebbe acquistare un sapore alla Beaumarchais.

 

Nello stesso giorno Belli scrive un testo di saporosa misoginia e di atroce amarezza:

 

A voi de sotto

Ai fedeli posti sotto il pulpito

 

S’aricconta c’un frate zoccolante,

Grasso ppiù der compar de sant’Antonio,

Ner concrude una predica incarzante

Sull’obbrighi der zanto madrimonio,                              4

 

Staccò er Cristo dar pùrpito, e gronnante

De sudore strillò com’un demonio:

“Eccolo, e ve lo dico a ttutte quante,

Eccolo su sta croce er tistimonio.                                       8

 

Io mo lo tiro in testa inviperito

A chi ss’è ppresa er ber gusto, s’è ppresa,

De temperà ppiù ppenne a ssu’ marito”.                         11

 

A quell’atto der frate ‘gni miggnotta…

‘Gni donna, vorzi dì, che stava in chiesa,

Arzò le mano pe pparà la botta.                                        14

 

                                                        Gennaro  Cucciniello