“Er battesimo der fijo maschio”, 22 maggio 1834
La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.
Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli aveva scritto: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina (un parallelo blasfemo con il centro-destra italiano che, nel 2011, solennemente ha votato in Parlamento –per difendere la crapula di papi-Berlusconi- che la prostituta minorenne Ruby era nipote di Mubarak?). Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.
Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.
Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.
Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, Sonetti, a cura di Gibellini, Felici, Ripari, edizione critica, Einaudi, 2018.
“Er battesimo der fijo maschio” 22 maggio 1834
Cosa sò sti fibbioni sbrillantati,
Sto bber cappello novo e sto vistito?
Sta carrozza ch’edè? cch’edè st’invito
De confetti, de vino e dde gelati? 4
E li sparaggni tui l’hai massagrati,
Cazzo-matto somaro sscimunito,
Perché jjeri tu’ mojje ha ppartorito
Un zervitore ar Papa e a li su’ frati?! 8
Se fa ttant’alegrìa, tanta bbardoria,
Pe bbattezzà cchi fforzi è ccondannato,
Prima de nassce, a ccojje la scicoria! 11
Poveri scechi! E nnun ve sete accorti
Ch’er libbro de bbattesimi in sto Stato
Se poterìa chiamà “llibbro de morti”? 14
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE)
Il battesimo del figlio maschio
Cosa sono queste grandi fibbie rilucenti, questo bel cappello nuovo e questo vestito? Questa carrozza cosa è? Cos’è questo ricevimento con confetti, con vino e con gelati? E i tuoi risparmi li hai sperperati rovinosamente, imbecille somaro e scimunito, solo perché ieri tua moglie ha partorito un servitore al papa e ai suoi monaci?! Si fa tanta allegria, tanta esultanza, per battezzare chi, forse, è condannato, già prima di nascere, a raccogliere cicoria! (a trovarsi in miseria estrema). Poveri ciechi. E non vi siete ancora accorti che il libro dei battesimi in questo Stato si potrebbe chiamare “libro dei morti”? (Era il registro dei decessi che, con quello dei battesimi, costituiva lo “stato delle anime” delle parrocchie.
Le quartine.
E’ questo un sonetto di terribile eloquenza, di una chiarezza esemplare, di una efficacia stordente. Il poeta immagina di trovarsi in una casa romana nella quale si festeggia il battesimo di un figlio maschio. Apparentemente l’esordio è scherzoso: c’è un clima di festa, si annotano scarpe, cappello e vestito nuovi, si citano confetti, vino e gelati, lo sperpero dell’affitto d’una carrozza. Ma si sente la voce severa di un osservatore: tutto questo scialo per la nascita di un bambino, destinato solo ad arricchire questo clero potente e miscredente? Il sonetto è originale: l’inizio è segnato dall’allegria, il tono è irridente, viene alzato il sipario sulla baldoria di una festa in famiglia, con tutti i parenti invitati. Si sente d’improvviso il sarcasmo di una invettiva che dovrebbe turbare e sconvolgere l’allegra brigata.
Le terzine.
I versi spiegano con coerenza di ragionamento e con riflessioni amare sul destino di schiavitù e di miseria al quale è condannato chi nasce sotto il governo dei preti, in un climax di sdegnate e arrabbiate esclamazioni. Il finale culmina in un terribile epigramma: in uno Stato come questo il registro dei battesimi è un registro di morti, nascita e morte s’identificano. E’ lo Stato pontificio ad essere messo sotto accusa? Sì sicuramente: guardiamo alla maiuscola di Stato del verso 13 (la parola non è interpretabile come “condizione umana”). Vigolo tuttavia suggerisce che “la forza dell’immagine nasconde un suo significato esistenziale universale, senza allusioni a determinati tempi e luoghi. Tutti gli uomini, essendo già dalla nascita assegnati alla morte, sono già scritti sul libro dei morti. Questa verità è il senso più riposto e autentico di questo sonetto”. Lo stesso Vigolo, infine, aggiunge un suggestivo accenno alla somiglianza tra er llibbro de morti e il titolo del romanzo “Le anime morte” di Gogol che, come si sa, conobbe Belli, gli sentì recitare dei sonetti e contribuì a diffonderne la fama in Europa.
Qualche giorno prima, il 15 maggio 1834, Belli aveva scritto:
L’Olivetani
Io, er mi’ fijo granne e mi’ fratello
Erimo tutt’e ttre capi-ortolani
Dell’orto de li Padri Olivetani
Che nun c’è ar monno un orto accusì bello. 4
Ma venuto a reggnà sto gran cervello
De don Mauro, noi poveri cristiani
Semo stati cacciati com’e cani,
Proprio come caggnacci de macello. 8
E pperché? perché er Papa ha avuto voja
De sopprime sti monichi, e mo adesso
Fa l’inventario, e, bontà ssua, li spoja. 11
E pperché l’ha soppressi e l’ha spojati?
Pe ffà a spese dell’Ordine soppresso
Più ricchi li su’ antichi cammerati. 14
Io, il mio figliolo più grande e mio fratello eravamo tutti e tre capi-ortolani dell’orto dei Padri Olivetani (il convento si trovava nel Foro Romano, presso la chiesa di Santa Francesca Romana) , che non c’è al mondo un orto così bello. Ma eletto papa questo gran cervello di don Mauro Cappellari (diventato papa Gregorio XVI), noi tre poveri cristiani siamo stati cacciati come cani, proprio come cagnacci da macello. E perché? Perché il Papa ha avuto voglia di sopprimere questo Ordine dei monaci olivetani, e adesso fa l’inventario e –bontà sua- li spoglia (Lo stesso Belli annota: “I beni dell’ordine Olivetano sono stati donati da Gregorio a’ suoi confratelli Camaldolesi”).E perché li ha soppressi e li ha spogliati? Per fare, a spese dell’Ordine soppresso, più ricchi i suoi antichi camerati.
Gennaro Cucciniello