Philip Larkin (1922- 1985), “Finestre alte”, 1967

Philip Larkin (1922-1985), “Finestre alte”, 1967

Quando vedo una coppia di ragazzi

e immagino che lui se la scopa e lei

prende ‘ste pillole o si mette il diaframma,

so che quello è il paradiso 4

che ogni vecchio ha sognato per tutta la vita –

impegni e formalismi spinti da parte

come una mietitrebbia vecchio modello,

e ogni giovane va giù per il lungo scivolo 8

verso la felicità, all’infinito. Chissà se

qualcuno mi ha guardato quarant’anni fa,

e ha pensato, Quella, sarà vità:

niente più Dio, o sudori nel buio 12

per l’inferno eccetera, o dover nascondere

quel che pensi del prete. Lui

e quelli come lui andran giù per il lungo scivolo

come fottuti uccelli liberi. E di colpo 16

più che parole viene il pensiero di finestre alte:

e il vetro che accoglie il sole,

e, oltre, l’aria azzurra profonda, che non mostra

niente, ed è in nessun luogo, ed è infinita. 20

“Hig windows”

When I see a couple of kids

and guess he’s fucking her and she’s

taking pills or wearing a diaphragm,

I know this is paradise 4

everyone old has dreamed of all their lives –

bonds and gestures pushed to one side

like an outdated combine harvester,

and everyone young going down the long slide 8

to happiness, endlessly. I wonder if

anyone looked at me, forty years back,

and thought, That’ll be the life;

no God any more, or sweating in the dark 12

about hell and that, or having to hide

what you think of the priest. He

and his lot will all go down the long slide

like free bloody birds. And immediately 16

rather than words comes the tought of high windows:

the sun-comprehending glass,

and beyond it, the deep blue air, that shows

nothing, and is nowhere, and is endless. 20

Conviene partire dalla data di composizione, 1967: sono gli anni della swinging London, della minigonna. In Annus mirabilis Larkin scrive: “i rapporti sessuali cominciarono / nel millenovecentosessantatre / tra la fine del bando a Lady Chatterley / e il primo LP dei Beatles”. L’assoluzione in tribunale del romanzo di Lawrence risale al 1960, Please please Meè è del ’63; spostandosi all’estremo dell’intervallo cronologico, Larkin implica che per lui comunque era troppo tardi (nel ’63 aveva quarantun anni). Nel 1965 in Inghilterra fu approvata la legge che rendeva gratuiti gli anticoncezionali; al v. 3 non dice “la pillola” ma genericamente “taking pills”, con ostentata imprecisione. Ormai quarantacinquenne, si colloca tra gli old del v. 5; per lui sarebbe stato il paradiso se l’attuale ondata di liberazione si fosse affermata vent’anni prima (al v. 10 spara “quaranta”, esagerando per rabbia).

Nelle lettere giovanili all’amico Kingsley Amis fa i conti di quanto costa portar fuori una ragazza, e di quanto poco se ne ottiene in cambio; i gestures (v. 6) sono le manovre noiose e dispendiose del corteggiamento, i bonds (ibid) i vincoli impegnativi, le promesse (ma c’è una parentela con “bondage” –sotto pseudonimo femminile, Larkin scriveva romanzetti pornosoft lesbici, complementare sfogo della repressione).

Era uno scapolo taccagno di sentimenti, misantropo e misogino, convinto masturbatore (“il sesso è una cosa troppo goduriosa per condividerla con chicchessia”); temeva il matrimonio e i figli perché li sentiva in contrasto con la vocazione di scrittore (i preziosi words, v. 17, le parole). Ovvio che, di fronte ai giovani “liberati” degli anni ’60, provasse un misto di invidia e repulsione; andar giù per lo scivolo significa lasciarsi andare come lui non ha mai fatto, ma anche abbandonarsi a une felicità troppo facile –che è poi quella del consumismo. Il sesso è ormai una merce, come la mietitrebbia era l’ultimo grido negli anni ’50 ma ora arrugginisce superata da nuovi modelli.

Nella strofa centrale del testo si insinua un dubbio, alimentato dalle frasi in corsivo che si immaginano pronunciate da altri vecchi, più antichi. La struttura dialogica, i discorsi riportati, sono più tipici della prosa che della poesia. I poeti inglesi che dopo il ’56 si riconobbero nel cosiddetto Movement (Larkin, Amis, la Jennings, Gunn) si oppongono al simbolismo e alle pretese d’assoluto delle generazioni “moderniste” (da Yeats a Eliot fino a Dylan Thomas) proponendo una poesia che va verso la prosa, sostituendo al sublime l’ironia e cercando ispirazione nelle avventure del quotidiano. La lingua è media, non si nega volgarità come fucking o bloody; la metrica c’è ma gioca a rimpiattino col ritmo del discorso comune (qui quartine a rima alternata, purché insieme alle rime perfette si accettino assonanze, consonanze, rime all’occhio; i versi sono liberi e nessun punto fermo coincide con l’a-capo).

I vecchi di quarant’anni prima forse pensavano (e si sa quanto a torto) dei giovani di allora le stesse cose: che bello non doversi più preoccupare della religione, non dover più convincere le ragazze che l’inferno non esiste. Ma questo significa che proiettare la felicità sulla giovinezza non dipende dall’ideologia, né dagli accidenti della cronaca culturale; c’è un infinito (endless) più vero e duraturo di quello del consumismo desiderante (lo scivolare endlessly). Più forte ancora dei words, le parole così accanitamente difese, c’è il pensiero di un’altra luce: nel lessico comune le high windows sono i finestroni grandi, per esempio quelli piombati delle chiese (anch’esse in Church going dichiarate “completely out of use”); comunque quell’hig guida gli occhi in su, dove l’azzurro profondo non mostra niente, dove non c’è più niente da vedere. Il voyeurismo astioso della prima strofa è cancellato dal quasi-misticismo dell’ultima. Il vetro che comprende il sole (nel senso di accogliere ma anche di intendere) si fa tramite per una visione che non ha rapporti con la religione dei preti, ma semmai con la vertigine paolina della prima lettera ai Corinzi (dal vetro-specchio al faccia-a-faccia con Dio). Le tre negazioni che si accumulano nell’ultimo verso accennano a una specie di nirvana sopra-confessionale, sereno e nichilista, molto lontano dalle ossessioni per lo scopare e per l’intimo femminile. Non contraddizione dunque, ma aria nei polmoni di una lirica che rischiava di restar chiusa nel recinto del cinismo.

L’immagine pubblica di Larkin (il tory intelligente e acido, il cantore della vecchia Inghilterra ammirato dalla Thatcher) ha avuto qualche scossone dopo la sua morte, quando sono venute alla luce le lettere private (politicamente scorrette, oscene, oltraggiosamente sincere); ma non c’è poesia vera senza sottofondi aggressivi, e non c’è aggressività lirica che non sia compensata da qualche forma di fede. Se è vero che nel secondo dopoguerra la lirica era stata bloccata dalla vergogna (mai più poesie dopo Auschwitz), è stato proprio con l’escamotage della prosa che i migliori han saputo ritrovare il filo di un racconto, arrivando al sublime per i sentieri apparentemente minori della curiosità spicciola e dell’auto-derisione.

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 17 agosto 2014, p. 56