Pier Paolo Pasolini, “Supplica a mia madre”, 1962

Pier Paolo Pasolini, “Supplica a mia madre”, 1962

 

E’ difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

 

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

 

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

 

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

 

E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

 

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

 

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

 

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

 

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

 

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

 

            da “Poesia in forma di rosa”, 1962

 

Nel 1962 Pasolini era in crisi metrica; per un poeta è grave, è come perdere i punti cardinali o le chiavi per aprire la porta. Questa è una delle ultime poesie scritte in versi regolari: poi cederà al magma di una metrica sempre più informale, nel tentativo di catturare un cambiamento storico in cui i vecchi parametri ideologici non funzionano più. Qui la misura c’è ancora perché la poesia sembra escludere la storia e ridursi a un rapporto senza tempo né spazio, un rapporto quasi sacro: quello con sua madre. Pasolini all’epoca considerava la propria omosessualità come estranea al suo temperamento, un peso gravoso che gli era stato messo sulle spalle ma che non c’entrava niente con lui –insomma una condanna (“ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio”, v. 2). La teoria freudiana gli veniva incontro, permettendogli di interpretare l’omosessualità come il risultato del troppo amore per una donna (la madre, appunto: “E’ dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”, v. 6). L’eccessivo amore per la madre sarebbe il dato primario e la ricerca dei maschi sarebbe la formazione reattiva; anzi, quello per la madre sarebbe il solo amore intero, vissuto con l’anima, mentre il sesso coi maschi sarebbe un puro sfogo fisico, in fondo umiliante. “La confusione/ di una vita rinata fuori dalla ragione”: cioè il maledetto istinto vitale che spinge a sopravvivere comunque, anche quando non si è convinti di quello che si fa e non ci sarebbero ragioni profonde per continuare a vivere.

In una prima stesura il testo riporta in calce la data precisa di composizione, 25 aprile; in quello stesso giorno Pasolini scrisse un’altra poesia dove parla di una sua tentazione di suicidio proprio quella notte, anzi di fare un film sul suo suicidio. Il protagonista entra in un cinema, da solo, probabilmente per quell’antica pratica che nell’ambiente omosessuale si chiama “battere”. Ma poi non fa niente, esce, si perde nel brulichio della vita altrui, dei ragazzi “del Mille, o del futuro più lontano”. Un piccolo colpo di pistola, fine. Nella Supplica rovescia la tentazione di morte, è lui che chiede alla madre di “non voler morire” (v. 19). In molti suoi testi, fin da quand’era giovane, la presenza della madre e la vita libera si oppongono: lui è come un ladro che va a prendersi i suoi piaceri fuori mentre la madre lo aspetta sotto la lampada accesa. Santa e carceriera, rifugio della falsa coscienza quando il mondo intorno si fa troppo complicato –anche qui, nel nostro testo, la disarmante semplicità è direttamente proporzionale allo smarrimento. Nel 1962 Pasolini è sotto attacco: al Circeo è stato coinvolto in un processo assurdo, nei mercati rionali romani mettono il cartello “pasolini” sui finocchi; in una poesia che è ancora dell’aprile 1962 l’elegia si trasforma in grido d’odio per “tutti i normali, di cui è questa vita”. Si sente vittima di una “predestinazione” ma anche colpevole: parla di “degradante diversità” e affabula di un’impossibile rivolta di tutti i diversi (negri, ebrei, diseredati).

Disperazione esagitata, teatrale. Il doppio settenario a rima baciata, che qui Pasolini impiega con le solite collaudate licenze, è d’origine teatrale; pochi mesi prima l’aveva usato per tradurre il Miles gloriosus di Plauto, ispirandosi a Molière. In Recit, il componimento indirizzato nelle Ceneri di Gramsci all’amico poeta Attilio Bertolucci, i doppi settenari baciati alludono a Racine. Nell’unico altro testo scritto in questo metro (per il figlio di Bertolucci, Bernardo) ritroviamo sorprendentemente il 25 aprile. Quello famoso stavolta, quello della Liberazione: c’è festa intorno, fazzoletti rossi e stracci tricolori –ma a questa festa non può partecipare il fratello Guido, partigiano ucciso da altri partigiani. E Pier Paolo non può gridare il proprio dolore perché la madre non sa ancora niente… Nella Supplica c’è una contraddizione: prima si lamenta della solitudine poi ambisce a essere “solo” con la madre (v. 20) –solo senza il fratello, senza il padre: finalmente solo, lui e lei in un aprile futuro che è anche passato, in un’infanzia sognata di entrambi (la madre-bambina tante volte evocata nei versi).

Il teatro è stato, per Pasolini, il genere della resa dei conti familiari: dal giovanile La poesia o la gioia fino al 1966, anno di Sofocle al cinema e di quel dramma rovente che è Affabulazione. Là il complesso edipico è ribaltato e omosessualizzato, è il padre che desidera il figlio; verso la fine della vita Pasolini riconoscerà che nella primissima infanzia ha subito il fascino fisico del padre, che forse quello è stato il desiderio primario e che l’amore per la madre era la formazione difensiva. La teoria freudiana va a carte quarantotto. Ma questo groviglio intellettuale non tocca la purezza di questa Supplica: un coming out straziante dove le parole si vogliono didattiche nella loro terribilità, facili perché la madre le possa capire (estremo sadismo nella dolcezza). Il figlio le dice “la mia infelicità dipende da te”, ma glielo dice con rime da fidanzato (cuore/amore (vv. 3-4), tu/schiavitù (vv. 11-12), con un ritmo piano che la ipnotizza. E’ una poesia da recitare, un pezzo per attore e voce (memorabili le interpretazioni di Laura Betti e Sandro Lombardi). La poesia può tagliar fuori la verità, escluderla dalla visuale per lasciar fiorire l’emozione di un gesto psicologicamente violento –“mamma, parliamo”.

 

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 9 febbraio 2014, p. 54