Rainer Maria Rilke (1875-1926), La sua angoscia nascosta per le donne

Rainer M. Rilke (1875-1926), La sua angoscia nascosta per le donne.

 

Sulla via sempre assolata, nel

mezzo tronco cavo che da tempo

divenne abbeveratoio, e uno specchio d’acqua

in sé rinnova in sordina, sazio la mia

sete: limpidezza e origine dell’acqua

assorbendo in me dai polsi.

Bere parrebbe troppo, troppo esplicito;

ma questo gesto d’attesa

mi porta acqua chiara alla coscienza.                                                                      9

 

Così, se tu venissi, basterebbe, a saziarmi,

il posarsi leggero delle mie mani

sulla fresca curva della tua spalla,

o dove colmi premono i tuoi seni.                                                                  13

 

An der sonngewohnten Strasse, in dem

hohlen halbe Baumstamm, der seit lange

Trog ward, eine Oberflache Wasser

in sich leis erneuernd, still’ich meinen

Durst: des Wassers Heiterkeit und Herkunft

in mich nehmend durch die Handgelenke.

Trinken schiene mir zu viel, zu deutlich;

aber diese wartende Gebarde

holt mir helles Wasser ins Bewustsein.                                              9

 

Also, kamst du, braucht ich, mich zu stillen,

nur ein leichtes Anruhn meiner Hande,

sei’s an deiner Schulter junge Rundung,

sei es an den Andrang deiner Bruste.                                                13

 

da  “Ultime poesie”, giugno 1924

 

Molta filosofia si è fatta intorno alle poesie di Rilke, dai riferimenti alla fenomenologia di Husserl alle pagine che gli dedicò Heidegger; e certo la sua scrittura vi si presta, coi riferimenti a Orfeo, il privilegio dell’invisibile sul visibile e dell’astratto sul concreto, la distanza insuperabile e continuamente evocata tra esistere ed essere. I suoi testi (soprattutto le Elegie duinesi) reggono le interpretazioni, sia chiaro, ma sottopelle corre il sospetto della sopravvalutazione –di voler cercare coerenza di pensiero dove non ci sia che estetismo ed esagerata ambizione. C’è di che trovarlo antipatico, questo narciso cosmopolita che non ha mai seriamente lavorato in vita sua: lamentoso corrispondente di nobildonne e di artiste, coccolato in castelli non suoi. Peccato che sia un poeta vero e che anche nelle cose minori sappia dimostrarlo vittoriosamente. Per esempio in questo madrigaletto scritto senza impegno per una delle tante ragazze che si mettevano in contatto con lui e che lui rigorosamente teneva a distanza di sicurezza; è cinquantenne ormai, separato dalla moglie, tormentato da malattie apparentemente psicosomatiche che si trasformeranno dopo solo due anni in una leucemia fulminante e mortale. E’ un no-grazie gentile, un rifiuto in forma di paragone che si traveste da diagnosi indiscutibile: io sono fatto in questo modo e quindi…

L’accadimento è minimo: una passeggiata intorno al palazzotto svizzero dove viveva, lungo una strada consueta (il neologismo composto “sonngewohnten” (v. 1) può voler dire sia “abitata dal sole” che “abitualmente al sole”). Il contrasto piacevole ai sensi è quello tra la strada assolata e il freddo dell’acqua raccolta nell’abbeveratoio; è l’inizio d’estate, il silenzio è rotto solo dal chioccolare piano dell’acqua nel tronco cavo –acqua limpidissima che dà voglia di bere. Lui sazia la sua sete ma non, come farebbero tanti, avvicinando le labbra: solo immergendo i polsi nello specchio della vasca. Con uno scatto di sensibilità trova che sarebbe smaccato, volgare, bere con la bocca –una troppo esplicita ammissione di desiderio. Soddisfare così direttamente un bisogno porterebbe a non capire tutti i sottintesi di quell’acqua: che è materialmente limpida ma anche serena, allegra (heiter, v. 5); e la sua origine è sì quella geografica (gli acquedotti, i monti) ma anche meteorologica (il circuito perpetuo dal cielo alla terra e viceversa) e intellettuale (l’eterno che presiede all’effimero). Solo la rinuncia e l’attesa acquisiscono alla coscienza un’acqua più pura di quella fisica, un’acqua quintessenziata e spirituale. Dunque, dice alla donna, se tu venissi non ti berrei tutta, mi basterebbe sfiorarti. Lo dice più per rassicurarsi che per rassicurarla: è una conclusione fintamente ragionativa ma liberatoria (anche il ritmo lo sa, dalla prima strofa franta e piena di enjambements audaci si passa a una quartina prima esitante poi cantabile e simmetrica).

“Compresi”, scrive Rilke in un appunto del 1910, “che sarei sempre stato in torto se mi fossi aspettato dalla vita qualcosa di più che essere sfiorato da lei, lievemente, sul braccio”; e aggiunge il ricordo delle stele sepolcrali dell’antico cimitero di Atene –quei gesti trattenuti tra vivi e morti, gli addii tra cari che “si uniscono piano nel cuore indimostrabile di uno specchio”, il “salire di una mano alla spalla senza alcuna volontà di possesso”. L’allusione a quelle “mani che poggiando non premono” tornerà nella Seconda Duinese, dove si parla degli amanti che avvicinano le bocche come per bersi l’un l’altro (“bevanda a bevanda”) ma poi non consumano il gesto; gli amanti in cui si infiltra qualcosa dell’essenza angelica. La Seconda Duinese è l’elegia degli angeli: angeli che diventano “specchi” perché riattingono nel proprio volto la bellezza piovuta da Dio, proprio come fa l’acqua nel perpetuo giro dell’umidità. In un appunto del 1913 Rilke aveva scritto “l’angelo è ciò che l’acqua è sulla terra e nell’atmosfera: torrente, rugiada, abbeveratoio, fontana d’esistenza dell’anima”. Sotto il minuscolo episodio di quel giorno di giugno si stringe un nodo di significati: la donna è acqua e angelo, rinunciare a possederla vuol dire accedere a una conoscenza più pura e a una più pura origine –sotto l’acceso desiderio erotico dei seni, rintracciare l’amore materno (“stillen”, v. 10, è “saziare” ma anche “allattare”).

C’è molto Unbewusste, inconscio, dietro quella chiara coscienza; nell’esaltazione rilkiana della donna cova un’oscura misoginia –una pittrice polacca da lui trascurata l’aveva capito scrivendogli “accetto tutto da voi, anche la vostra paura”. Paura pura e semplice, dietro tutte le razionalizzazioni; e rispondendo alla pittrice Rilke lo conferma con un’immagine terribile: “L’amore ha avanzato spesso pretese nei miei confronti, come se un frutto ammirato dovesse essere schiacciato dentro l’occhio che lo guardava rapito, come se fosse una bocca”. Affermando che Rilke è un poeta vero, affermavo che l’autenticità dei suoi traumi trova nei versi la strada più naturale per rivelarsi, e che soltanto il ritmo delle parole concilia l’inconciliabile (vedi qui il parallelismo tra “Anruhn meiner Hande”, v. 11, e “Andrang deiner Bruste”, v. 13).

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 2 novembre 2014, p. 52