Trotzkij e la tela del ragno. Ottobre 1917.
Lenin trascorre settembre in clandestinità. Lev Davidovic mette in piedi una macchina insurrezionale formidabile.
Nel quotidiano “La Repubblica” di mercoledì 6 settembre 2017, alle pagine 33-35, è pubblicata una nuova puntata dell’inchiesta che Ezio Mauro ha dedicato alla ricostruzione del fatidico 1917 in Russia.
Pioveva sulla notte che avrebbe cambiato il mondo, la luce elettrica saltava e si riaccendeva proiettando sul selciato come una lanterna magica le ombre bagnate dei due uomini che barcollavano alla fine del Prospekt Liteinij, poi all’angolo girarono su se stessi indecisi, prima di imboccare la Shpalernaja, quasi a tentoni. Gli zoccoli degli otto cavalli spiegavano tutto. Una pattuglia di guardia degli junker fedeli al governo provvisorio veniva da palazzo Tauride e si stava dirigendo verso di loro. Sotto la parrucca, la sciarpa e il cappotto marrone scuro, Lenin nascondeva l’ansia di ricongiungersi all’insurrezione e il terrore di essere riconosciuto, con i gendarmi che lo cercavano da mesi per tutta la città, Kerenskij che due giorni prima lo aveva pubblicamente definito “criminale”, la perquisizione a casa della sorella, i mandati di cattura che lo inseguivano. Appena videro gli allievi ufficiali a cavallo, lui e il compagno finlandese Eino Rahja si finsero ubriachi e Lenin si appoggiò all’ombra del muro per sorreggersi. La pattuglia li guardò dall’alto e proseguì, lasciando passare la rivoluzione che camminava in incognito, travestita. Duecento metri, cento, la curva della Neva giù in fondo, poi tornò la luce e lo Smolnyj si mostrò all’improvviso come un’apparizione bianca e gialla con le guglie dorate della cattedrale accanto, mettendo fine alla clandestinità di Vladimir Ilic dopo 111 giorni e 110 notti, dal 6 luglio a quell’alba del 25 ottobre che spalancava nel buio la “grande epoca”.
Le Guardie Rosse con il mitra a tracolla indugiarono scrutando i lasciapassare, che ormai per sicurezza cambiavano ogni tre ore: quell’uomo dai capelli inverosimili, senza il pizzo e i baffi, a loro non diceva niente, così come il falso nome scritto sul permesso del Soviet di Vyborg: Kostantin Petrovic Ivanov. Riuscirono a passare e appena superate le grandi porte sotto le otto colonne bianche capirono di essere entrati nella rivoluzione. I duecento metri di corridoio erano pieni di soldati, operai, armi, scatole di munizioni, sacchi di viveri, legname per far barriere, cappotti militari, stendardi, medicinali e bandiere. Due parole pronunciate all’orecchio di una Guardia Rossa da Rahja, e scattò un saluto militare e bolscevico, poi subito la scorta portò i due visitatori all’ultimo piano, girò a sinistra e bussò alla porta bianca d’angolo. Se la stanza 17, sede del Comitato Militare, era il cuore dell’insurrezione, questa era il cervello: l’equazione rivoluzionaria di Lev Davidovic Bronstejn, conosciuto da tutti come Trotzkij. Appena Lenin cominciò a parlare con la segretaria in anticamera, Trotzkij che era seduto alla scrivania davanti a una grande mappa di Pietrogrado, riconobbe la voce e si alzò. “Davvero vi state accordando col governo –chiese subito Ilic, irritato-, come scrivono i giornali?”. “E’ una tattica –rispose tranquillamente Trotzkij- in realtà tutto è pronto”. “E allora perché ho trovato le strade vuote?”. “Perché il piano scatterà all’alba”. Poco per volta Trotzkij illustrò la strategia logistica, la tempistica insurrezionale, il censimento delle armi, la conta dei reggimenti, la mobilitazione delle officine, la mappa dei punti nevralgici, i compiti degli uomini. Mezz’ora dopo si alzò: “Questa stanza è vostra –disse indicando con la mano il letto di ferro dietro il paravento-. Io mi sposto qui vicino”. Lenin si sedette alla scrivania del comando bolscevico, ma aveva capito: mentre lui aveva passato settembre nascondendosi alla polizia nell’appartamento della compagna Margarita Fofanova (che aveva le grondaie come unica uscita di sicurezza), qui dentro Trotzkij aveva messo in piedi una macchina insurrezionale formidabile, traducendo le sue direttive in organizzazione, le sue teorie in un congegno bellico, diventando così il gran maestro della rivoluzione che stava per incendiare la Russia.
Anche se aveva preso la tessera bolscevica da poco, Lev Davidovic possedeva tutte le carte in regola. Due volte nel carcere dello Zar, fuggito due volte dal confino in Siberia, due volte in esilio, emigrato per 12 anni, condannato in Germania, espulso dalla Francia, bandito dalla Spagna, imprigionato a Madrid, respinto negli Usa, aveva partecipato a entrambe le rivoluzioni, nel 1905 e a febbraio 1917, e adesso stava guidando la terza, dopo essere sfuggito al campo di concentramento inglese in Canada, durante il viaggio di ritorno in Russia da New York. Un albo d’oro rivoluzionario che stava evidentemente scritto nel destino, visto che era nato nell’anno dell’attentato al treno dello Zar, e proprio nel giorno storico dell’Ottobre, il 26. Ma la famiglia era piccolo-borghese, proprietaria di un podere di 300 ettari e di un mulino nel villaggio di Janovka nelle steppe del sud, con cavalli, mucche, maiali liberi nel cortile, la casa col pavimento d’argilla (legno soltanto sotto il tavolo da pranzo), il tetto di paglia pieno di nidi e un vecchio sofà di falso mogano accanto a un pianoforte comprato da un nobile decaduto per 16 rubli: davanti alla stufa che brillava quando s’incendiava la paglia prima di sera, l’ora in cui la madre di Lev accendeva la lampada e preparava il samovar. Nulla è rivoluzionario in quella campagna dove conta solo il prezzo del grano.
Il primo ricordo è del bimbo Lev che si fa la pipì addosso a casa dei vicini, poi il gioco d’estate a catturare le tarantole con un filo di pece per metterle in una boccetta di olio di girasole trasformandolo in medicinale, la domenica con il meccanico Ivan Vasilievic che taglia i capelli al padrone e ai due figli, il vecchio Timofej Isaevic che va in giro per i casolari a scrivere lettere e suppliche per i contadini analfabeti nascondendo nella manica i pagamenti in sale, pepe, zucchero e tabacco, la sinagoga ebraica solo per le ricorrenze più importanti, quel primo viaggio con la madre in carrozza a Bobrinez, la scoperta dei fili del telegrafo e la domanda senza risposta: come riescono a passare lì dentro i telegrammi?
La prima immagine del potere è quella del contrammiraglio Zelenoj, prefetto di polizia di cui si vede appena il pugno che spunta dalla carrozza mentre urla i suoi comandi, i gendarmi fanno il saluto e gli uomini abbassano il cappello. Poi arrivano le letture, Oliver Twist, “Potere nelle tenebre”, quindi il teatro, il giornale di classe a Odessa, un’espulsione a scuola con permesso di ritorno, gli opuscoli di propaganda sotto il materasso a Nikolaev, l’incontro con il giardiniere Franz Shvigovskij che riunisce in casa socialisti, esiliati, studenti e finite le riunioni li ospita a dormire dopo una zuppa collettiva, ma senza lenzuola e cuscini. Il padre che già non sopportava di vedere il figlio con gli occhiali, perché gli davano un’aria da intellettuale sfaccendato, non vuole mantenere un rivoluzionario. Lev rompe con lui, e quando il vecchio andrà a visitarlo nell’ufficio di Commissario del Popolo al Cremlino, regolerà quel conto eternamente sospeso: “Vi ricordate, padre, quando litigavamo al villaggio, e voi mi dicevate che lo Zar sarebbe durato per secoli? Eccoci qua”. Ma prima, Lev deve pagarsi da solo gli studi, la giacca blu e il cappello di paglia col bastone nero con cui va alle riunioni della Lega Operaia, il poligrafo con cui scrive articoli, titoli, manifesti. Per quelle carte lo arrestano la prima volta a 18 anni perché il disgelo fa emergere una borsa piena di documenti clandestini nascosta in un buco scavato sotto un cavolo, e in carcere (dove non ha sapone e non si cambia per tre mesi, ma fa ogni giorno ostinatamente 1111 passi lungo la diagonale della cella) incontra per la prima volta il nome di Lenin, leggendo il suo saggio sugli sviluppi del capitalismo russo.
Quando torna a Piter da New York Lenin è già il capo del partito, Lev Davidovic che lo aveva conosciuto a Londra ricorda il giudizio su Ilic di Plekhanov, il “papa” dei socialisti russi: “è di questa pasta che si fanno i Robespierre”. Lui può raccontare nei comizi quel che ha visto all’estero, l’eco enorme della rivoluzione negli Usa quando tutti, giornalisti, intellettuali, politici, si precipitavano nella redazione americana di Novyj Mir dove lui lavorava, il figlio con la difterite che balla sul letto quando lui telefona alla moglie le prime notizie da Pietrogrado, perché sa che rivoluzione vuol dire amnistia, vuol dire fine dell’esilio, vuol dire ritorno e vuol dire soprattutto Russia. Oratore appassionato e immaginifico (“il governo è nato morto –dirà del ministero Kerenskij- e con gli occhi aperti attende la sua sepoltura”), lo invitano dappertutto, anche senza tessera è il beniamino delle assemblee bolsceviche in cui usa sempre il noi, affolla la sera il Circo Moderno coi suoi discorsi a braccio, con la figlia che lo guarda in platea, inchioda con la sua furia polemica il Soviet, sempre con la Browning in tasca. Quando nel tumulto di luglio i marinai di Kronstadt riuniti davanti a Tauride sequestrano sul sedile posteriore di un’auto scoperta il ministro dell’Agricoltura Chernov come ostaggio, insoddisfatti delle sue risposte prudenti sulla terra ai contadini, tutti si precipitano fuori dal palazzo. Ma è Trotzkij che salta sul cofano dell’auto e chiede silenzio: “Voi siete la gloria e l’onore della rivoluzione, la sua avanguardia. Ma perché volete macchiare tutto questo con una violenza meschina contro una persona isolata? Chi è per la violenza?”. I marinai mugugnano, ma non rispondono. “Cittadino Chernov, siete libero”, dice Trotzkij sollevandolo dal sedile e accompagnandolo dentro Tauride.
Nella battaglia politica di Lenin contro Zinovev e Kamenev, che volevano aspettare l’Assemblea Costituente di novembre per prendere il potere legalmente, Lev Davidovic appoggia la tesi leninista dell’insurrezione subito. Tra i due c’è una differenza strategica, anzi politica, perché Trotzkij –diventato presidente del Soviet di Pietrogrado- vuole che questo sia lo strumento dell’insurrezione, mentre Lenin come sempre mette al centro il partito-guida. Ma adesso, dopo le polemiche del passato, sono alleati, entrambi vedono la storia a portata di mano, la battaglia è la stessa.
Quando il governo decide l’ordine di arresto per Lenin, Zinovev e Kamenev, Lev protesta con una lettera, chiedendo di essere accomunato ai suoi compagni. Finirà in cella al Kresty per poco più di un mese come “agente tedesco”, e qui –a conferma della sua autorità rivoluzionaria- arriveranno in visita i marinai dell’incrociatore “Aurora” chiedendogli di aiutarli a sciogliere il dubbio capitale durante la manovra controrivoluzionaria del generale Kornilov: devono difendere il Palazzo d’inverno o assaltarlo? Anche i figli ragazzini andarono a trovarlo raccontandogli –attraverso la grata- della domenica passata nella dacia di un colonnello amico di famiglia, dove avevano lanciato una sedia contro un ospite che aveva chiamato spie Lenin e Trotzkij. Mentre si salutavano con le mani sulla grata, lui si accorse che la moglie gli stava passando nei buchi un coltellino.
Adesso, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, quando Kerenskij vara il pre-parlamento come contraltare ai Soviet, è Trotzkij d’accordo con Lenin a chiamar fuori i bolscevichi: “Questo è un governo di tradimento nazionale, non faremo da paravento nemmeno un giorno, nemmeno un’ora”. Nella confusione dell’aula, qualcuno urla che il partito bolscevico prepara qualcosa di oscuro, un grande scandalo, un colpo di mano. “Stupidaggini –provoca Trotzkij, sfrontatamente-: appena qualche colpo di revolver”. Pochi giorni dopo, nell’assemblea plenaria del Soviet i menscevichi sollevano la stessa questione, riproponendo la domanda che agita tutta Pietrogrado: si sta preparando un colpo di Stato? Lev Davidovic si alza dalla presidenza, va alla tribuna e contrattacca: “Chi è che lo chiede? Chi vuole saperlo? Kerenskij? Il controspionaggio? L’Okhrana? O qualche altra organizzazione?”. Zinovev e Kamenev sfruttano questa ambiguità in una riunione della Duma di Vyborg, sostenendo che bisogna rinviare l’assalto alla città, perché il partito “non dispone di un meccanismo per l’insurrezione”. Lenin morde il freno, urla che ci sono solo due alternative, o una dittatura dei generali come Kornilov, o una dittatura del proletariato. Passa la sua mozione.
In realtà il meccanismo è pronto, e Trotzkij lo sta caricando come una molla. Col Comitato Militare Rivoluzionario in mano a due bolscevichi come Podvolskij e Antonov-Ovseenko ha lo strumento di battaglia. Ogni caserma sa quante autoblinde può muovere, quanti camion. Le Guardie rosse contano su quarantamila baionette, agiranno in gruppi di dieci, quattro gruppi formano un plotone, tre plotoni una compagnia, tre compagnie un battaglione di quasi 400 uomini. Le operaie creano reparti di infermiere, fanno i corsi in fabbrica. Sono pronte le divisioni operaie, i reggimenti contadini, le squadre di ferrovieri rivoluzionari e di postini bolscevichi, mentre è più difficile penetrare nel telegrafo, in mano ai cadetti. Tutt’attorno, la Russia ribolle: i sindacati sono ormai diventati duemila, con più di due milioni di lavoratori iscritti, i soviet a settembre sono quasi mille, il partito bolscevico supera i duecentomila tesserati, nel villaggio di Sicevka i contadini sono appena usciti di notte con fruste e bastoni per demolire la casa del padrone, l’Unione dei proprietari denuncia che in tre giorni sono stati bruciati ventiquattro poderi mentre il pane è razionato nelle città, a Mosca non si va ormai oltre le due libbre a settimana.
E’ a questo punto che Trotzkij fa la prima mossa. Il 18 ottobre un telegramma a tutti i reparti militari prescrive di non eseguire più gli ordini dello Stato Maggiore dell’esercito salvo che siano vistati dalla sezione militare del Soviet. E’ il via all’insubordinazione, primo atto della rivoluzione. E Trotzkij ha appena firmato di suo pugno l’ordine agli arsenali di consegnare cinquemila fucili alle guardie rosse. Sabato 21 la guarnigione di Pietrogrado si schiera, dichiarando che d’ora in poi prenderà ordini solo dal Soviet, “unico potere”. Lenin è inquieto nel suo rifugio protetto dal quartiere operaio, non va nemmeno nelle altre stanze della casa, non esce mai sul balcone, chiede al partito di poter raggiungere il quartier generale allo Smolnyi. Il Soviet di Vyborg risponde di no, le strade non sono sicure, la rivoluzione non può rischiare di perderlo. Allora alla vigilia del giorno fissato per l’insurrezione Lenin convoca Trotzkij. “Come mai il potere non si muove? C’è il rischio di qualche trappola? E se sapessero cosa stiamo facendo e all’ultimo momento giocassero d’anticipo?”. “Tutto è sotto controllo –risponde Trotzkij- tutto avverrà automaticamente”.
Una ragnatela d’impotenza sembra avvolgere le ultime ore del regime repubblicano, imprigionando il Palazzo d’inverno come otto mesi prima aveva catturato la reggia di Zarskoe Selo e la debolezza sovrana dello Zar. Kerenskij dice ai suoi uomini che organizzerà un Te Deum di ringraziamento se i bolscevichi attaccano: “Ho più forza di quanta mi serva, li schiaccerò”. In realtà, lui che baciava la terra davanti alle trincee, abbracciava i soldati, si illude che le truppe lo seguano. Il generale Polkovnikov, comandante della regione, gli ha appena detto che la guardia di Piter è fedele, ed eccola schierata con i ribelli, in blocco. Il comandante della fortezza di Pietro e Paolo, con i suoi centomila fucili, non accetta gli ordini del Comitato militare rivoluzionario, ma quando arriva Trotzkij a parlare alla truppa i soldati si schierano con il Soviet all’unanimità. “Noi –dice in ogni suo comizio Lev Davidovic- daremo tutto quello che c’è in Russia a chi non ha niente, e ai soldati nelle trincee. Tu hai due pellicce? Bene, danne una al soldato che sta al freddo. Hai due stivali ben caldi? Restatene a casa, servono più all’operaio che a te”. Nell’ultima assemblea al Circo Moderno gremito propone un giuramento collettivo, quasi un atto religioso: “noi difenderemo la causa degli operai e dei contadini fino all’ultima goccia di sangue. Giuriamo di sostenere con tutte le forze e qualsiasi sacrificio il Soviet che ha preso sulle sue spalle la rivoluzione per donare terra, pane e pace”. Una selva di mani alzate sigla la promessa.
Non fidandosi della città Kerenskij aveva disposto una cintura di sicurezza intorno a Piter, schierando il Terzo corpo d’armata a ventaglio nei presidi di Zarskoe Selo, Gatcina, Peterhof, pronto a intervenire al comando del generale Krasnov e dei suoi cosacchi, mentre sei cannoni da campo compaiono davanti al Palazzo d’inverno, sorvegliato dagli allievi delle scuole ufficiali fuori e dal battaglione femminile all’interno. Ma lunedì 23, quando ordina all’incrociatore Aurora che è entrato nella Neva di allontanarsi in mare, Kerenskij scopre che i marinai non obbediscono più. La notte chiama a rinforzo un battaglione di ciclisti, che però riconoscono solo il comando del Soviet, non accetta altri ordini, non si muoverà.
I nervi della città sovreccitata, confusa e tuttavia impaziente, avvertono nella tensione collettiva quel che sta per accadere. Le strade si riempiono al mattino, si svuotano la sera quando scende presto il buio, e le voci senza controllo affollano la notte spaventata parlando di saccheggi, furti, rapine per strada, passanti a cui sono stati rubati anche i vestiti. Solo Lenin non riesce a vedere, non può ascoltare, vorrebbe capire. Isolato nel suo nascondiglio, vicino ma assente, ancora alla vigilia scarica la sua inquietudine nell’ultimo telegramma al Comitato centrale: “Non dobbiamo aspettare, potremmo perdere tutto. Rimandare la sommossa significa morte certa”. Ma Trotzkij non rimanda, sta aspettando l’occasione, il pretesto simbolico, il passo falso di Kerenskij: che arriva alle 6 del mattino di martedì, due ore prima dell’alba di Pietrogrado, quando un drappello di junker assalta i due giornali bolscevichi, Soldat e Rabocij Put (che ha sostituito la Pravda fuorilegge), frantuma le matrici, spezza i cliché, getta le carte per strada, sbarra le porte con i sigilli del governo.
Parte un fonogramma dallo Smolnyi per tutti i reggimenti: “Il nemico del popolo è all’attacco, il Soviet assume la difesa dell’ordine rivoluzionario, prepariamoci all’azione”. Il reparto bolscevico del Genio va sul posto, spezza i sigilli davanti alla folla, riapre le due redazioni. Poi i telefoni diventano muti. Il governo ha isolato il palazzo tagliando le linee, bisogna usare le staffette. E’ il momento in cui Lenin, non sentendo più nulla, decide di lasciare il rifugio. Chiama il compagno Rahjia che aveva organizzato la fuga in Finlandia, scende nel Prospekt Bolshoj Sampsonievskij, si ferma sul portone stordito, poi lascia la clandestinità e si immerge nella febbre di Pietrogrado per raggiungere l’ora x dell’insurrezione.
Lo Smolnyi infine lo inghiotte, gigantesca cattedrale della rivoluzione, alveare bolscevico dove ogni stanza ospita una cellula della sommossa, dietro le targhe del vecchio collegio femminile della nobiltà zarista, “Aula III”, “Signori professori”, “Sala assistenti”, dove adesso sono appoggiati i fucili dei delegati di ogni reparto militare. La notte sarà lunga e prima dell’alba Vladimir Ilic vedrà Trotzkij che chiede una sigaretta a Kamenev, poi sviene sul divano per stanchezza, per sonno, per fame. L’indomani si riunisce il congresso pan russo dei Soviet, e si aprirà con la notizia che la rivoluzione è ormai per le strade della città. Nella fattoria di Janovka, nella scuola di Odessa, nel carcere dello Zar, sul bastimento che lo esiliava in America, Lev Davidovic non poteva nemmeno immaginare che sarebbe finita così: come in quel momento non immaginava che il terrore di Stalin sarebbe riuscito a divorare entro pochi anni anche lui, l’architetto della rivoluzione.
Ma adesso tutto sta per compiersi, è il momento. Quando la sala è già piena di delegati venuti da tutto il Paese, lui e Lenin si coricheranno stremati su una coperta nella stanza in fondo a destra, piena di sedie ammucchiate oggi come cent’anni fa: vado a vederla, identica, silenziosa, immagino il frastuono del Soviet oltre la parete bianca, il giorno della rivoluzione. Qui i due vorrebbero dormire un’ora, ma Lenin è tormentato: “E il Palazzo d’inverno? Perché non si sa niente? Non possiamo fermarci”.
Nessuno può più fermare la corsa cieca del secolo. La sorella di Ilic viene a chiamarli, è l’ora, il congresso si alza in piedi quando entra Trotzkij, poi vede spuntare accanto a lui questo strano Lenin senza il pizzo e senza i baffi, che si siede in prima fila: chi è? E’ lui? C’è Ilic, è tornato, è libero, dunque è finita la fuga, è cessata la paura e la nuova epoca forse può davvero cominciare. I menscevichi non lo credono, dicono che l’insurrezione abortirà, perché è una congiura, l’unica salvezza è un governo di coalizione. Lenin e Trotzkij si guardano, Lev Davidovic va alla tribuna: “Noi stiamo vincendo e voi ci proponete di rinunciare alla vittoria per venire a patti. Ma siete figure miserabili, siete dei falliti, la vostra parte è finita, potete andare solo nel posto che vi compete da oggi in poi: nella spazzatura della storia”.
Dall’altro angolo della storia, prigioniero dei suoi guardiani e del suo fallimento, l’ex Zar in quelle ore sembra scrivere il diario notturno con l’inchiostro di un altro mondo. “E’ stata una giornata di sole con quindici gradi sotto zero. Sono giorni che non arriva nessun giornale, come pure nessun telegramma. Probabilmente in città non accadono fatti degni di nota. Siamo andati a messa”. Buio fitto.
Ezio Mauro