Belli. Sonetti. “La carrozza d’un cardinale investe un povero passante”

Belli. Sonetti. “La carrozza d’un cardinale”

 

I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.

Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.

La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.

L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

 “La carrozza d’un cardinale”            9 febbraio 1833

 

Già, a Cacciabbove, proprio indove strozza

La strada sur Macello, ecco de bòtto

Ce s’infrocia abbrivata una carrozza

Co un gentiluomo in abbit’e ppancotto.                          4

 

Lì er cucchieraccio fijo de ‘na zozza

Senza dì “a voi davanti”, e de gran trotto,

Sapenno già ch’er poverello abbozza,

T’acchiappa un vecchio e tte lo mette sotto.                  8

 

Le rote je passonno s’una zampa

Ché ffu pportato a casa mezzo morto,

E dice ch’è un miracolo si campa.                                    11

 

De tutto è stato fatto er zu’ rapporto:

Ma che tte credi? Er cucchiere la scampa,

Ché, se sa, chi va a ppiede ha ssempre torto.                 14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).

 

                                      La carrozza di un cardinale

 

Certo, a Cacciabbove (era una contradetta di Roma, presso piazza Colonna; scomparsa per dar posto all’attuale Largo Chigi), proprio dove si restringe la strada sul Macello, ecco che di botto vi si caccia dentro, tutta slanciata di corsa, una carrozza con un gentiluomo in abito d’ufficio. Lì il cucchieraccio, figlio d’una zozza, senza dire il normale grido d’allarme dei cocchieri e andando di gran trotto, sapendo già per abitudine che il poverello tace con rassegnazione e non si ribella, ti acchiappa un vecchio e te lo mette sotto. Le ruote gli passarono su un piede e fu portato a casa mezzo morto, e si dice che sarà un miracolo se riesce a salvarsi. Di tutto è stato fatto rapporto: ma cosa credi? Il cocchiere non avrà alcun fastidio, perché, si sa, chi va a piedi ha sempre torto.

 

Analisi. Poco più di un anno prima, il 10 gennaio 1832, Belli aveva affrontato questo stesso argomento in un sonetto dal titolo: “Chi va la notte va alla morte”. L’ambientazione topografica era la stessa, il centro di Roma attorno a via del Corso, tra piazza Venezia e Largo Chigi: qui evidentemente le carrozze dei signori prendevano lo slancio e aumentavano la corsa dei loro cavalli. Il poeta stilisticamente vuol rendere questo abbrivio veloce delle vetture e nei primi sei versi usa ben cinque enjambement, proprio per dare l’idea dell’accavallarsi rapidissimo della scena. Poi, con un altro ritrovato fonico, dà un ritmo unitario al racconto: la rima in B delle quartine(bòtto, ppancotto, trotto, sotto) assonantizza con la rima in D delle terzine (morto, rapporto, torto).

E’ interessante sottolineare come il nostro poeta sia capace di esplorare i destini individuali, anche i più anonimi, senza esaurire il mistero della Storia e la sua mappa di contraddizioni e soprusi, di interrogare la vita come un processo dall’andamento illogico e spiazzante, con uno stile nitido e trasparente, attento ai dettagli e tendente –come si dice oggi- alla “sottrazione”, incline al levare più che ad addensare.

 

Il giorno dopo Belli, fra le altre cose, scrive un sonetto d’ambiente che mi ricorda tanti momenti della mia infanzia.

 

                   Er Venardì Santo                       10 febbraio 1833

 

Ne la morte de Dio la luna e ‘r zole

Co la famija bassa de le stelle

Se mésseno er coruccio; e castagnole

S’inteseno per aria e zaganelle.                                       4

 

E questo vonno dì quelle mazzole

E quelli tricchettracche e raganelle

Che sse fanno, pe dillo in du’ parole,

De leggno, ferro, canna, crino e ppelle.                          8

 

Er chiasso che ce famo è stato un voto

Per immità co li su’ soni veri

Quello der temporale e ‘r terramoto.                             11

 

E pperché Cristo è morto, e oggi e jeri

Vedessivo arrestà l’artare vòto

Sino de carte-grolie e cannejeri.                                               14

 

                                               Il Venerdì Santo

 

Nel giorno della morte di Gesù-Dio la luna e il sole, con i loro subalterni delle stelle, si misero il lutto; e per la città si udirono petardi e si videro leggeri fuochi artificiali. E questo vogliono dire quelle “mazzole e tricchettracche e raganelle” (erano strumenti con i quali i ragazzi facevano rumore per le strade. Questo faceva parte dei pittoreschi costumi della settimana santa, e in Italia c’era ancora questa usanza negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento), che si fanno, per dirlo in due parole, di legno ferro canna pelle. Il chiasso che facciamo è stato un voto per imitare, con i suoni, quello del temporale e del terremoto che ci furono a Gerusalemme nell’ora della morte del Cristo. E perché Gesù è morto, sia oggi che ieri (giovedì santo) voi avete visto l’altare vuoto persino di carteglorie e candelieri.

 

                                                                  Gennaro Cucciniello