Storia della Sperimentazione allo “Stefanini”

Questo è il testo dell’articolo che riassume e analizza la storia dell’esperienza sperimentale dell’Istituto “L. Stefanini” di Venezia-Mestre e che introduce il volume, “Vent’anni di sperimentazione: verso dove? (1975-1995)”, Venezia, Supernova, marzo 1996, pp. 11-24.

 

La Sperimentazione nell’Istituto “Stefanini-Palmeri”

dei  proff.  Gennaro  Cucciniello  e  Pasquale  Palmeri

 

Dalla contestazione alla sperimentazione.

Per risalire alle origini della sperimentazione, occorre spingersi fino agli anni 1968-1970, anni in cui la consapevolezza della crisi della scuola diventò esplosiva, preannunciando sommovimenti violenti in tutta la società. Tale consapevolezza si manifestò nel modo più eclatante attraverso la “contestazione studentesca”, dando luogo nello stesso tempo ad un risveglio di interesse per il “problema scuola” e coinvolgendo insieme agli alunni anche i docenti, i genitori e l’intera cittadinanza. A Venezia in quegli anni si costituirono il “Movimento Democrazia nella scuola” (aprile ’68) e, qualche mese dopo, il “Movimento per la mobilitazione della scuola“, presentato alla cittadinanza in un’affollatissima assemblea pubblica, presso il cinema “Corso” di Mestre, il 10 novembre.

Da allora sono trascorsi 27 anni, molte cose sono avvenute, molte certo sono cambiate anche nella scuola, e tuttavia quante delle carenze allora evidenziate sono state colmate e quali esigenze vitali per la scuola sono state soddisfatte? Non è forse vero, ora come allora, che “la Repubblica non assolve il suo compito costituzionale di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che determinano alla base la selezione scolastica”, e che “la Scuola non consegue i suoi fini autentici di suscitare capacità critiche e consapevolezza sociale?” [dal foglio di invito per l’assemblea al “Corso“]. Non è vero ancora oggi che, strutturalmente, il nostro sistema scolastico è rimasto “autoritario ” e “paternalistico“, incline a reprimere “ogni iniziativa che si discosti dalle direttive della gerarchia”, e ad educare gli studenti “al conformismo e alla sottomissione”, preparando non tanto “cittadini impegnati a dare un apporto alla vita sociale”, quanto individui egoisticamente inclini “al disimpegno, al qualunquismo”? [da “Linee programmatiche del Movimento Democrazia nella scuola“]. Il problema centrale tuttora aperto non è sempre contrassegnato dall’esigenza di muovere sin dall’ambito scolastico alla “ricerca di strumenti atti a far diminuire il numero e la forza di chi vuole conservare l’attuale struttura di potere ed aumentare il numero e la forza di chi vuole cambiarla radicalmente”, per dar corpo finalmente ai principi fondamentali, ai diritti e ai doveri sanciti dalla nostra Costituzione? [da “Per la mobilitazione della scuola“, pubblicato in “Scuola e Città” del novembre 1968].

Tra la tendenza ad assistere passivamente allo pseudo riformismo, promosso dalle forze politiche e spesso anche da quelle sindacali, e il velleitarismo di chi intendeva por mano ad una “contestazione globale” del sistema, fiducioso di veder rinnovata la scuola non appena fossero mutate dal fondo le strutture sociali, si faceva strada lentamente un orientamento nuovo che spingeva gli insegnanti verso un impegno autonomo, ma non corporativo né soltanto individuale, che non perdesse di vista “l’inserimento della scuola nella società”, ma muovesse “dalla scuola stessa“, operando “nel suo interno“, attraverso “l’iniziativa di gruppi organizzati”. [da “Appello di un gruppo di docenti ai colleghi di Venezia e di Mestre”, del gennaio ’71].

La gravità della crisi e l’interdipendenza dei fattori esterni ed interni che la determinano esige ancor oggi (come esigeva ieri) “un concorso di iniziative per cui dal di fuori si provveda a realizzare le condizioni necessarie a rendere efficace una  riforma della scuola che muova dal di dentro” [da un documento dattiloscritto occasionato da un’allocuzione televisiva dell’allora Ministro della P.I.  Ferrari Aggradi].

Alla suddetta esigenza, a partire dal 1974, cominciarono a rispondere le “sperimentazioni”, promosse e sostenute da gruppi di insegnanti onestamente alla ricerca di un rinnovamento strutturale, culturale e didattico della scuola.

Intanto la politica scolastica, sospinta dallo stato prolungato di agitazione, passava dall’inerzia inefficiente all’improvvisazione demagogica, caratterizzata dal succedersi di provvedimenti parziali e incoerenti, taluni dei quali proposti come tappe provvisorie in vista di un più ampio progetto, e invece destinate a rimanere fini a se stesse e a sopravvivere ancor oggi.

Due fatti e due documenti, tuttavia, intervennero in quegli anni, impegnando direttamente le forze politiche e di governo in una direzione nuova che avrebbe potuto segnare l’avvio di un’effettiva rinascita della scuola, e che invece servì solo da alibi e fu poi seguita da interventi contraddittori e improduttivi: il “Progetto ‘80” (emanato dal Ministero del Bilancio e della Programmazione economica), relativo alla programmazione economica nazionale fra il 1971 e il 1975, e la Conferenza di Villa Falconeri, tenutasi dal 4 al 9 maggio del 1970, presso il “Centro Europeo dell’Educazione” di Frascati, sui “nuovi indirizzi dell’istruzione secondaria in Italia”.

Il “Progetto ‘80”  auspicava la trasformazione della scuola in una “istituzione aperta”, “un’ampia autonomia delle istituzioni scolastiche”, il “rafforzamento a tutti i livelli degli organi collegiali”, ed inoltre una “riforma permanente” della scuola che, rifiutando “meccanismi legislativi ed istituzionali di tipo rigido” avesse ” il suo  perno nelle attività di ricerca e di sperimentazione”.

Tali indicazioni furono riprese nel discorso inaugurale della Conferenza di Frascati dall’ennesimo ministro democristiano, Riccardo Misasi, che avanzò la proposta di un modello di “scuola secondaria unica, ricca di opzioni all’interno”, da realizzarsi attraverso una riforma che non si proponesse di “fissare soluzioni definitive“, ma procedesse introducendo e applicando largamente il “criterio della sperimentazione“. Le linee successivamente elaborate dai vari gruppi di lavoro impegnati a Frascati, e riassunte in 10 punti nella sintesi  conclusiva del prof. Aldo Visalberghi, hanno poi rappresentato un punto di riferimento comune per molti progetti di sperimentazione elaborati dalle diverse scuole, sulla base del D.P.R. 419 del  1974.

La politica scolastica invece -portata avanti dallo stesso ministro Misasi e dai suoi successori, senza tenere in alcun conto, negli anni seguenti, la necessaria coerenza tra provvedimenti urgenti e progetto globale di riforma-  usò inizialmente la “sperimentazione” come valvola di sfogo, e poi cominciò a perseguire  l’intento di omologare le sperimentazioni autonome (quelle, cioè, promosse liberamente, in conformità della legge, dagli Organi Collegiali dei singoli Istituti) ai modelli schematici via via elaborati dalle Direzioni Generali del Ministero  e, in ultima, al “progetto Brocca“, non senza conflitti tra le Direzioni “classica”, ”tecnica” e “professionale”.

 La sperimentazione all’I. M. S. ”L. Stefanini”

ll progetto dello “Stefanini” -elaborato fra il ‘74 e il ’75- fu presentato a Mestre il 29 settembre  ‘75, in un pubblico dibattito svoltosi col patrocinio del Comune di Venezia e con la partecipazione di Aldo Visalberghi. Dicevamo in quell’occasione: “…Se la nostra scuola ha bisogno di essere rinnovata dalle fondamenta, ciò d’altronde riesce estremamente difficile, perché essa è una realtà complessa. Strutture scolastiche, tipi d’istituto, orari e programmi, contenuti culturali e metodi, formazione e personalità dei docenti, impegno politico e rapporto educativo, specifico scolastico e interazione sociale sono aspetti che si condizionano a vicenda interagendo gli uni con gli altri. E’ anche per questo che poco o nulla cambia nella scuola: perché appena ci si prospetta un mutamento parziale, si mette in moto una reazione a catena, e ci si accorge che, lasciando tutto il resto immutato, anche quel modesto mutamento diventa impossibile. Talvolta allora interviene il desiderio di sconvolgere tutto, per porre mano al nuovo; e ne deriva –inevitabilmente-  improvvisazione, spontaneismo, disorganicità, disorientamento. Proprio per evitare l’una e l’altra cosa: l’immobilismo e l’improvvisazione; per evitare anche una terza cosa, il mutamento preordinato e calato dall’alto, magari attraverso una circolare o un decreto ministeriale; un gruppo di insegnanti dell’istituto “Stefanini” di Mestre si è reso promotore di una “sperimentazione che intende evitare i lati negativi insiti nel carattere di improvvisazione di taluni processi di innovazione spontanea, attraverso un’attenta elaborazione e programmazione delle attività scolastiche, un organico rinnovamento dei contenuti culturali e dei metodi, un’aperta revisione delle finalità sociali e politiche dell’educazione”.

La sperimentazione ebbe poi inizio con l’anno scolastico 1975-‘76

Nel “Progetto di Scuola Secondaria Superiore Sperimentale quinquennale” e nella Relazione presentata al M. P. I. nel febbraio del ‘76, veniva precisato che la sperimentazione si proponeva tre scopi fondamentali:

– porsi come punto di riferimento dialettico, come incentivo al rinnovamento della scuola nell’area provinciale, come esperienza utile a sensibilizzare la comunità ai problemi dell’educazione;

– verificare alcune ipotesi e di conseguenza offrire alcune indicazioni utili alla riforma della scuola secondaria superiore, anche per accelerarne l’attuazione (…)

 divenire, se possibile, un centro di sperimentazione permanente, anche una volta che fosse avviata la riforma (…)

Tutto ciò, in particolare, relativamente ai seguenti punti:

– carattere unitario del biennio e sua funzione orientativa, in rapporto all’ipotesi di estensione dell’obbligo scolastico fino al 16° anno;

– carattere internamente differenziato del triennio e sue finalità in rapporto al problema della formazione civile e culturale e della preparazione professionale;

 natura e funzione delle discipline dell’area comune e dell’area opzionale;

– impostazione interdisciplinare del lavoro scolastico, …funzione e struttura delle “ricerche”;

– criterio della collegialità nella programmazione e nella valutazione del lavoro scolastico;

– rinnovamento dei contenuti e dei metodi;

– gestione sociale e iniziativa studentesca.

Nel presentare la struttura del biennio si affermava: “Il biennio non è un semplice prolungamento della scuola media, ma –pur ponendosi in continuità con essa e nella prospettiva di venire a far parte della scuola dell’obbligo- vuole avere caratteri e obiettivi propri. Esso è rigorosamente unitario, sia in quanto non prevede indirizzi distinti, sia in quanto i due anni costituiscono un unico ciclo. Le classi non sono rigide e permettono la formazione di gruppi interclasse. Gli obiettivi sono: completare la preparazione dello studente, in vista di un suo possibile diretto inserimento nella società e nelle attività lavorative dopo il l6° anno (preparazione teorica e pratica, introduttiva ai problemi della società e del lavoro), promuovendone “il pieno sviluppo della personalità” allo scopo di rendere possibile “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 della Costituzione); far acquisire allo studente la necessaria preparazione di base e un criterio di scelta, sia in rapporto al suo inserimento in una particolare attività professionale, sia in rapporto alla prosecuzione degli studi nel triennio, orientandolo verso uno degli indirizzi fondamentali che gli saranno aperti.

Il biennio, pertanto, si propone di:

– far acquisire agli studenti una conoscenza il più possibile diretta del mondo in cui viviamo (osservazione, esperienza, ricerca interdisciplinare nei vari settori): orientamento, quindi, del biennio verso la contemporaneità (con impliciti tutti i riferimenti al passato utili a meglio cogliere il significato e il valore del presente);

– far acquisire agli studenti un orientamento, permettendo loro di approfondire, attraverso le discipline dell’area opzionale, alcuni loro interessi e alcuni aspetti della realtà…;

– far acquisire agli studenti gli strumenti per realizzare questo approccio con la realtà: impostazione metodologica, quindi, dell’insegnamento delle discipline dell’area comune;

– realizzare due forme di interdisciplinarietà: la prima, insita nell’impostazione metodologica delle discipline dell’area comune (i vari metodi, conservando una loro propria specificità, non spezzano l’unità della cultura, rappresentando invece “dimensioni” diverse di ogni studio). La seconda -propria delle ricerche interdisciplinari- se queste, muovendo dalla complessità dei problemi concretamente posti dall’esperienza, ritrovino solo in essi la distinzione analitica delle singole discipline”.

Nell’avviare, poi, il triennio, nell’anno scolastico 1977-’78, si prevedevano i seguenti lndirizzi: linguistico-letterario moderno; socio-pedagogico; giuridico-economico-amministrativo; scientifico.

L’ipotesi da verificare si articolava nei seguenti punti:

A) Una struttura unitaria e internamente differenziata del Triennio, tale da permettere concretamente  il passaggio da un indirizzo all’altro attraverso prove integrative.

B) Validità della formula che lo caratterizza (2+1), nella quale i primi due anni mantengono, pur nella diversità degli orientamenti, una funzione eminentemente formativa, orientata però secondo discipline caratterizzanti il piano di studi; mentre l’ultimo anno, in cui la differenziazione è accentuata, offre al giovane prossimo alla maturità una duplice possibilità, o di un ulteriore approfondimento culturale, o di una formazione pre-professionale, intesa in relazione ad una professionalità di base polivalente.

C) Validità della ricerca interdisciplinare di storia e sua funzione.

Realizzato nel Biennio un primo necessario approccio alla realtà contemporanea, il Triennio mira ad inquadrare i precedenti riferimenti storici al passato in una visione organico-problematica dello sviluppo storico della società, per fornire infine una comprensione più autentica dello stesso presente.

Anche nel Triennio abbiamo mantenuto il criterio seguito nel Biennio, e che nel Biennio si sta dimostrando valido a soddisfare due esigenze complementari: realizzare un insegnamento interdisciplinare e conseguire le finalità specifiche di ogni singola disciplina, senza correre il rischio di sacrificare l’una cosa all’altra. Tale criterio consiste nell’individuare un’area (e quindi un tempo-orario) specificamente dedicata alla ricerca interdisciplinare.

La struttura e le successive parziali modifiche, a partire dal progetto iniziale (nel 1977, nel 1980, nel 1982) sono documentate in Appendice. l problemi affrontati e discussi collegialmente, di volta in volta, riguardavano soprattutto: – la ricerca delle modalità più idonee a realizzare la funzione orientativa del Biennio, oltre che attraverso la stessa “area comune”, anche mediante la qualità e il tipo di scelta delle discipline opzionali; – una più semplice e lineare caratterizzazione degli indirizzi del Triennio; – le modalità attraverso cui esprimere, attraverso un modello di “scheda”, le valutazioni formulate dai docenti sui singoli alunni.

In una breve relazione “Bilancio e prospettive di una sperimentazione a quindici anni dalla Conferenza di Frascati” (relazione presentata al Convegno “La Storia insegnata“, svoltosi a Venezia nel 1985 a cura dell’”Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia“), si richiamavano le ragioni e i caratteri di fondo della sperimentazione in atto da un decennio allo “Stefanini”: “il progetto di sperimentazione di cui qui si parla, quanto alle sue linee fondamentali, muoveva dalla fiducia nelle iniziative della base docente, purché sostenute e coordinate e, innanzi tutto, rese attuabili da un’autorizzazione a procedere (come auspicava il”’Progetto 80”). Muoveva inoltre da un concetto di sperimentazione – innovazione, quale processo intenzionale da realizzare per tappe successive rivolto a provocare mutamenti nel sistema formativo, debitamente distinto dalla vera e propria

Coerente in genere con le conclusioni formulate a Frascati, la sperimentazione dello “Stefanini” non condivideva, invece, i cosiddetti “presupposti” indicati da uno dei gruppi di lavoro della suddetta Conferenza. Tali presupposti erano orientati in un’unica direzione: “costituire grossi plessi scolastici onni-comprensivi, le cui articolazioni interne permettano scelte individuali libere e disarticolate, lungo curricoli separati per ogni disciplina, da percorrere più o meno approfonditamente o rapidamente a seconda delle attitudini e delle capacità degli alunni, sul modello della “non graded school”.

“Il progetto da noi sperimentato presuppone, invece, istituti di dimensioni medio-piccole, poli- e non onni- comprensivi, per un ammontare ideale complessivo di cinquecento alunni, e tale da poter costituire nell’insieme una comunità educante, attraverso un clima educativo che può instaurarsi solo con il coinvolgimento di tutti gli operatori e gli utenti della scuola in rapporti interpersonali, irriducibili ad un’organizzazione di tipo manageriale. Esso presuppone inoltre che l’individualizzazione delle scelte e dell’insegnamento/apprendimento si associ sia al progressivo costruirsi di un tessuto sociale di rapporti  in classi e gruppi, intesi come comunità flessibili e non rigide, ma tuttavia significative, sia ad un’organizzazione articolata e coerente di discipline, contenuti e metodi, visti nei reciproci nessi interdisciplinari e in una prospettiva culturale unitaria” (id., p. 238).

Possiamo affermare anche oggi che le sperimentazioni, conformi per alcuni aspetti fondamentali alle indicazioni elaborate a Frascati, hanno contribuito “a dimostrare che quelle linee generali non erano formulazioni astratte e irrealizzabili ma aprivano una strada suscettibile, proprio attraverso la sperimentazione, di approfondimenti e di verifiche”. Ma la Conferenza di Frascati metteva anche in evidenza “che le difficoltà operative nascono prevalentemente dalla rigidità delle strutture giuridiche e amministrative del Paese”. A tale proposito però nulla è stato fatto “per modificare queste strutture e sottrarre la sperimentazione alle strettoie burocratiche”; ordinanze e circolari ministeriali invece “hanno reso col passar degli anni sempre più difficile lo sviluppo e la stessa sopravvivenza della sperimentazione. Ciò è avvenuto non certo a caso, mentre, nell’indifferenza quasi generale e spesso con malcelato compiacimento, i progetti parlamentari di riforma della scuola superiore sono andati regredendo verso formule sempre più anodine, estranee all’ipotesi tracciata a Frascati, e idonee solo a mutare la facciata senza toccare la sostanza dell’ordinamento attuale” (id., id., pp. 245 – 46). Da allora sono passati altri dieci anni, e le vicende forzatamente involutive delle sperimentazioni autonome dimostrano quanto fossero realistiche le precedenti considerazioni.

                                                           prof.  Pasquale Palmeri

 Il processo sperimentale.

Come si è già sottolineato, negli anni ’80, nel campo della politica scolastica, si è realizzata una strana simbiosi: da un lato sono cresciute le sperimentazioni (domanda anche confusa di cambiamento e di qualificazione) che però -senza coordinamento culturale e politico e una direzione amministrativa unitaria- sono vissute in isolamento, incapaci di esprimere a livello nazionale significativi impulsi di orientamento; dall’altro abbiamo verificato l’impotenza riformatrice del Parlamento e la sclerosi culturale delle Università e dei centri di ricerca. La conclusione è stata l’incapacità comune di definire con compiutezza e convinzione gli “assi culturali” della nuova Secondaria Superiore.

La riforma crocio-gentiliana degli anni Venti aveva interpretato al meglio alcune fra le più importanti tendenze dei primi del ’900: la crisi dei canoni positivisti, l’aprirsi d’una società rurale e conservatrice ad una disomogenea industrializzazione, la necessità d’una modernizzazione di massa gestita autoritariamente e strutturata gerarchicamente, un diffuso orientamento anti-socialista e antiegualitario. Oggi invece, in una realtà così profondamente mutata, non si è ancora seriamente in grado di precisare -nel punto delicato della trasmissione dei saperi e della loro codificazione didattica- i nuovi baricentri culturali e formativi. Eppure le maxi-sperimentazioni hanno posto e verificato alcune serie basi d’una elaborazione riformatrice: un’attenzione accentuata per la comunicazione linguistica e la produzione di linguaggi anche non verbali, una rivalutazione della formazione scientifica senza cadere nel tecnicismo, un forte cemento storico e filosofico finalizzato alla conoscenza delle radici storiche e dei processi trasformativi del sapere e delle professioni, il recupero degli strumenti dell’apprendimento (l’imparare ad apprendere, l’apprendere un metodo di studio), l’equilibrio tra la formazione generale e gli orientamenti pre-professionali.

Linee essenziali del progetto di sperimentazione.

Per quasi vent’anni, dal 1975 al 1994 -pur con graduali modifiche sia dettate dalla nostra riflessione sia imposte dai diktat ministeriali-, siamo rimasti fedeli ai fondamentali principi ispiratori della nostra elaborazione.

Il Biennio, come abbiamo già accennato, è stato rigorosamente unitario ed ha avuto per obiettivo principale l’acquisizione da parte degli studenti delle metodologie e conoscenze necessarie per avvicinarsi alla realtà, interpretarla e prepararsi a trasformarla: le abilità linguistico-espressive, lo sviluppo del pensiero logico-matematico, l’operatività del lavoro storico e dell’indagine sperimentale, l’acquisizione di capacità di progettazione- programmazione-esecuzione.

Uno dei baricentri del Biennio è stato -fino al 1988- la ricerca socio-ambientale alla quale collaboravano almeno 6 – 8 docenti per 75 – 80 studenti articolati in gruppi. La ricerca voleva completare la preparazione di base degli studenti facendo loro apprendere e praticare un metodo sistematico di lavoro pluri-disciplinare, stabilendo inoltre un rapporto il più possibile diretto tra scuola, ambiente naturale e sociale, organizzazione spaziale-culturale-istituzionale-economica della città e del suo hinterland.

Il Triennio è stato strutturato in modo da approfondire la preparazione generale con una forte Area Comune, e le necessarie competenze pre-professionali con le Aree di Indirizzo (quattro indirizzi, tutti di matrice “liceale”: linguistico-letterario, con due opzioni (tre lingue straniere, oppure latino e due lingue straniere; linguistico-economico-giuridico; Scientifico; Socio-psico-pedagogico. Per garantire una formazione il più possibile unitaria, le classi si costituivano sulla base dell’Area Comune e contenevano, al loro interno, studenti dei quattro Indirizzi che lavoravano insieme per almeno il 50% del curriculum: un’esperienza stimolante di confronto cui ogni studente apportava contributi interessanti proprio perché diversamente motivati e coltivati.

Uno dei cardini del Triennio è stato -fino al l988- la Ricerca Storica inter-disciplinare alla quale collaboravano 7-8 docenti di materie umanistiche e scientifiche. La Ricerca, fulcro essenziale dell’A. C. e ponte fra A. C. e Indirizzi, voleva dare un contributo importante per costruire un nuovo asse culturale, alternativo al paradigma umanistico-retorico della scuola gentiliana. La collaborazione fra discipline diverse poteva far tentare la costruzione di un modello di comprensione della totalità della storia della società in un’epoca determinata, sviluppando le relazioni fra vita economica e rapporti sociali, forme istituzionali, norme giuridiche, opinioni filosofiche, creazioni artistiche, scienza, tecnologia e lavoro, invenzioni letterarie, costume, riti religiosi. Gli studenti perfezionavano quei rudimenti di un lavoro di ricerca già appresi nel biennio: individuare le fonti d’informazione, costruire una bibliografia, interpretare i testi. confrontarli tra loro, organizzare il lavoro, procedere agli opportuni tagli e rielaborazioni, affinare le tecniche della relazione scritta e dell’esposizione orale, sviluppare la collaborazione di gruppo e l’intreccio tra indagini di discipline diverse, avviare analisi e riproduzioni iconografiche, musicali, cinematografiche etc. Nell’Archivio dello “Stefanini” sono consultabili tutti i fascicoli ciclostilati del periodo 1975-1988, anno in cui -con inopinata procedura- il Ministero decise di abolire la duplice esperienza della “ricerca storica e di quella “socio-ambientale”.

La “produttività” culturale e scolastica.

La nostra sperimentazione era nata anche per verificare la praticabilità d’un obiettivo delicato: “fare scuola” in modo tale da coniugare qualificati modelli formativi con  la capacità di innescare processi reali di apprendimento nella quasi totalità degli studenti, partendo da livelli d’ingresso molto disomogenei e con un ricorso molto contenuto alla selezione. La “produttività” perciò –intesa come la capacità della scuola di permettere al maggior numero possibile di alunni di raggiungere buoni risultati, in rapporto agli obiettivi prefigurati, recuperando i più deboli e innalzando i più dotati- è stata da noi sempre ritenuta uno dei criteri fondamentali di verifica della validità delle innovazioni apportate. I risultati conseguiti in 19 anni di esperienza ne sono inequivocabile conferma. In dodici cicli di biennio, dal 1975 al 1988, sono stati bocciati 105 studenti su 1853 frequentanti (il 5,66%). Dal 1989 al 1994, col

Ministero che d’autorità ha stravolto il progetto autonomo dell’Istituto e ha raddoppiato le sezioni sperimentali portandole da tre a sei, su 1771 frequentanti i bocciati sono stati 195 (l’11,1%). La percentuale di selezione è nettamente cresciuta, ma al confronto si valuti che gli ultimi dati del Censis ci danno un tasso nazionale di selezione, dopo il biennio, del 47% circa. I risultati dei 15 esami di maturità rivelano un voto medio di 45,2 su un totale di 1124 studenti diplomati: un elemento incontrovertibile di crescita omogenea di tutti gli Indirizzi, soprattutto valutando comparativamente i tre dati (livello di ingresso mediocre, tasso basso di selezione, livello d’uscita mediamente alto. Saremmo, dunque, riusciti a coniugare ”prodotti”’ finali di buona e anche ottima qualità con una selezione sicuramente bassa, in rapporto dunque alla

generalità degli studenti. Alla base del processo che ha condotto a questi risultati, è da considerare certamente la strategia di ”recupero-orientamento” nel biennio, strategia che riteniamo valida anche per un biennio unitario generalizzato entro il sistema scolastico nazionale, sfatando il pregiudizio tenacemente diffuso dell’indispensabilità d’una precoce canalizzazione nella scelta dell’indirizzo pre-professionale.

”Clima educativo” e strumenti messi in campo.

Abbiamo cercato di creare una comunità scolastica unita e consapevole, capace di produzione culturale e di innovazione educativa: una scuola in grado di produrre, organizzare, conservare e comunicare conoscenze. Tutti sappiamo che un sistema scolastico impone criteri di riferimento che stabiliscono gerarchie di competenze, detta codici di comportamento visibili e invisibili, organizza i modi dell’apprendimento, impone linguaggi standard e regole proprie di comunicazione. Sappiamo che l’uniformità e la routine generano un sentimento di espropriazione, alimentano il disinteresse. La diversità e la flessibilità, invece, sono favorevoli allo spirito d’iniziativa. Ci si sente coinvolti se il progetto educativo può essere modificato, se esiste la possibilità di innovare, di confrontare i risultati che si ottengono cambiando i metodi di lavoro. Il clima psicologico, sociale, culturale d’una scuola dipende da una serie di fattori variamente identificabili: lo stile educativo, la personalità dei dirigenti e dei coordinatori, le relazioni fra i docenti, la logistica e i suoi spazi, la didattica e i suoi tempi, l’organizzazione del lavoro, il numero e le richieste degli studenti. Tutto ciò costituisce un vero ”programma-ombra” di educazione sociale, dai confini imprecisati, sia implicito che esplicito, ma anche più influente e condizionante a volte di tante istruzioni formali impartite nelle lezioni. Abbiamo provato a costruire un ambiente educativo fondato sulla graduale e cosciente responsabilizzazione dello studente, sul suo sentirsi liberamente attivo ed insieme soggetto a norme, responsabile ma non intimorito, capace di affermarsi nella sua individualità e di essere tenuto alla buona convivenza della comunità. Abbiamo cercato di strutturare una vita ordinata in cui l’autorità si regga sul consenso e non escluda la discussione e la critica, favorendo l’eguale rispetto di ognuno per tutti con la progressiva acquisizione di forme di autodisciplina. Alcuni strumenti di questo tentativo sono stati: l’auto-giustificazione, la valutazione “in itinere” e l’autovalutazione, le ricerche interdisciplinari, la dialettica tra la classe e gruppi interclasse, la disponibilità dei locali scolastici al pomeriggio per gli studenti oltre che per gli insegnanti, la possibilità di svolgere “attività libere elettive”, la sollecitazione dell’iniziativa degli studenti organica alla vita scolastica.

Un cenno esplicativo merita l’auto-giustificazione: su assenso esplicito delle famiglie dato all’inizio dell’anno scolastico, lo studente scriveva le motivazioni delle sue assenze e dei suoi ritardi su un quaderno di classe, controllato dal docente coordinatore, e sempre a disposizione dei genitori. Sperimentalmente abbiamo ideato una via nuova per risolvere un problema vecchio. La via antica, al proposito, è quella del “libretto delle giustificazioni” che non dà risultati di maturazione e di coinvolgimento dei ragazzi nella vita dell’istituto. La nostra pratica, invece, ha dato frutti molto positivi, confermati dalle famiglie; soprattutto ha rivelato agli studenti che il mondo degli adulti crede in loro, dà loro fiducia e spazi di auto-determinazione. L’esperienza ha dimostrato che la via da noi tracciata è positiva e che potrebbe essere generalizzata (Gli ispettori ministeriali -dopo 14 anni!- hanno definito questa prassi “illegale” e ne hanno imposto l’abolizione).

In un ambiente finalizzato a persuadere e a convincere piuttosto che ad imporre e comandare, diventa strategico l’esempio positivo del rispetto delle regole da parte di tutti. Il formarsi poi di gruppi interclasse nelle “ricerche”, per le discipline opzionali e di Indirizzo, di gruppi liberi per le ”attività elettive” rafforzava la possibilità di incontro, conoscenza, arricchimento, degli studenti fra di loro e con docenti diversi. La pratica del lavoro di gruppo, l’abitudine a lavorare per progetti allenava all’iniziativa, alla creatività, al “problem solving”, favoriva la partecipazione e il dialogo senza che questo attentasse o insidiasse la costruzione metodica del sapere o impedisse lo sviluppo del pensiero razionale e anche divergente a volte.

L’ora settimanale di “Attività sociali“, dedicata alla discussione fra gli studenti, in classe, di argomenti interni alla scuola o esterni, da loro stessi posti all’ordine del giorno, li impegnava o li invogliava ad un impegno autonomo e non etero diretto. E’ cosi che gli alunni riescono a sentire la scuola come propria, vedono nei docenti degli adulti rispettosi della loro autonomia e capaci di dare e garantire fiducia, si sentono protagonisti d’un processo di apprendimento culturale.

 Il “recupero”, o meglio la funzione promozionale delle attività scolastiche, è stato curato,  più che attraverso iniziative specifiche, mediante l’impostazione generale della sperimentazione: clima educativo, stimoli motivazionali, struttura del Biennio, attività di ricerca, lavori di gruppo, valorizzazione dei linguaggi anche non verbali, verifica delle condizioni di partenza e avvio – a partire da queste- di un lavoro didattico mirato soprattutto a far apprendere un metodo di lavoro e di studio e l’uso degli strumenti necessari.

In sostituzione degli esami di riparazione, era stato introdotto all’inizio dell’anno scolastico un  periodo finalizzato a integrare la preparazione degli studenti promossi “con riserva”.

Avevamo cominciato a perseguire “obiettivi trasversali” alle tre aree culturali, individuando alcune “zone-chiave” dell’apprendimento (capacità espressive, capacità di interpretazione dei testi e di organizzazione dei dati, metodo di studio) da sviluppare omogeneamente in tutte le discipline, con attenzione scrupolosa alle metodiche, circostanziati suggerimenti sui modelli di operatività, rifiutando -per quello che riguarda i contenuti- una prospettiva enciclopedica tendenzialmente esaustiva dei vari ambiti disciplinari, cercando infine di sviluppare nello studente capacità meta-cognitive: il controllo, cioé, del proprio processo di apprendimento (l’imparare ad imparare).

I docenti e la collegialità del lavoro.

Eravamo e siamo convinti che senza insegnanti motivati nessuna sperimentazione sia possibile. Anche da questa angolazione si ha una lampante riprova del fatto che le forze politiche non hanno mai posto seriamente il problema né del nesso sperimentazione – riforma, né dell’utilità intrinseca della sperimentazione in una società che muta cosi rapidamente e che deve prepararsi nei prossimi anni a due appuntamenti ineludibili ma non facili: -una sperimentazione “parziale” in tutta la scuola italiana (vedi i problemi da tempo sul tappeto dell’autonomia d’Istituto, dell’organizzazione della scuola, del termine dell’obbligo scolastico spostato a 16 anni mediante un biennio unitario, della ristrutturazione degli Indirizzi, della formazione professionale); -la definizione d’una riforma-quadro, elastica e flessibile, che riconsideri l’intero “sistema scolastico” in tutti i suoi gradi e soprattutto nel suo impianto culturale complessivo.

La professionalità dei docenti esige, sempre di più, un impegno approfondito, complesso e variamente articolato su diversi piani, che, senza romperne l’unicità, implichino -a supporto dell’insegnamento- attività di progettazione e programmazione, di verifica e di valutazione dei processi e dei risultati e, pertanto, presuppongano la capacità di coniugare il criterio della libertà d’insegnamento con il metodo della collegialità.

Distribuire i compiti e coordinare le funzioni, all’interno di ciascun gruppo di lavoro (per classe, classi parallele, indirizzo, disciplina o area disciplinare, ecc.), e fra i diversi gruppi, elaborando e sperimentando forme diverse di un vero e proprio organigramma di coordinamento, è stata una delle preoccupazioni più sentite, al termine del primo decennio di attività sperimentale, con l’intento di rafforzare la progettualità del ruolo docente e di renderla più efficace.

l docenti dei corsi sperimentali dello “Stefanini” gradualmente si erano impegnati – nella collaborazione comune e pur fra molte contraddizioni- a rivedere i propri atteggiamenti educativi: si tratta di un processo faticoso e non pacifico, che costa molte energie ma che sarà impossibile eludere se nel futuro si vorrà superare il tradizionale individualismo del lavoro docente. Certo, programmare un lavoro, discuterlo, prepararlo reperendo e costruendo il materiale didattico idoneo, verificarne via via la riuscita sottoponendolo all’esame critico proprio, dei colleghi, degli alunni, in classe e nelle riunioni, impone una disciplina di lavoro, uno sforzo, un impegno fuori del comune. Essi però si rivelano di grande fecondità e costituiscono la forma più concreta e funzionale di aggiornamento didattico (lavoro di gruppo, allenamento al “problem solving”, verifiche, valutazione), culturale (allargamento dei propri interessi, qualificazione delle conoscenze), scientifico professionale (continua ristrutturazione dello statuto della propria disciplina).

Epilogo

Nel luglio del 1988 il Ministro della P. I. non autorizzò la sperimentazione delle “ricerche pluri- disciplinari” e impose d’autorità altre correzioni al nostro progetto autonomo. Sulle dinamiche culturali degli anni 1988-1993, periodo in cui sono state riscritte tutte le linee programmatiche, seri e articolati elementi di analisi si trovano in tutte le relazioni disciplinari e anche nell’indagine su “Selezione e Produttività” della nostra esperienza (e tutto il materiale è contenuto nel volume da noi prodotto, aperto proprio da questo nostro articolo).

Abbiamo tentato di fornire ai lettori un quadro essenziale dell’impostazione e dei risultati dell’esperienza sperimentale dello “Stefanini”, fondata il più possibile sulla documentazione diretta della sua storia. Non era nostra intenzione offrire quadri idillici: c’e stata fatica nel lavoro che abbiamo fatto e facciamo, una discussione serrata e a volte anche non omogenea, uno scarto ancora notevole tra l’enunciazione e le realizzazioni, incomprensioni e tante altre storture che si sono aggiunte lavor facendo: per non parlare delle difficoltà e carenze strutturali.

La brutale e irrazionale manomissione ad opera del Ministero, del progetto sperimentale elaborato nel corso dei primi dieci anni, e infine -per quanto riguarda i docenti- l’abolizione dei “comandi” avvenuta nel 1985, il radicale turn-over degli insegnanti (che ha quasi del tutto sostituito il primo gruppo che aveva elaborato e avviato il progetto stesso), e infine il loro aumento improvviso e consistente (dovuto al raddoppio non richiesto dei corsi), hanno sicuramente complicato il dibattito sul rapporto “passato-presente” nella definizione di “che cosa è sperimentazione”. La soppressione del “comando” in particolare ha favorito scelte utilitaristiche di richieste di nomina per insegnare nei nostri corsi sperimentali e l’incomprensione da parte di alcuni docenti di un progetto complesso e non ancora studiato a fondo più che non condiviso. Per quanto riguarda gli studenti, si avverte nettamente la modifica delle richieste che i giovani e le loro famiglie fanno alla scuola. Si è passati da una partecipazione consapevole ad un processo di innovazione culturale razionale e coinvolgente alla riproposizione di esigenze frammentarie e contraddittorie: si vuole il rispetto della “pelle culturale” dell’adolescente, formatasi in famiglie e in contrade socio-antropologiche a volte del tutto estranee alla scuola; si vuole contemporaneamente il conforto di “garanzie professionali” che assicurino formazione specializzata e/o lavoro in un quadro politico ed economico difficile, con pericoli gravi di svolta autoritaria, in un contesto di liberismo senza regole, di duro darwinismo sociale intrecciato ad egoismi di gruppo -di ceto-di regione, di una pericolosa manipolazione dell’informazione e della formazione dei cittadini tutti.

Nel novembre 1993, constatando l’assoluta impossibilità di poter continuare l’esperienza di sperimentazione autonoma, il Collegio dei docenti dello “Stefanini” ha , all’unanimità, votato l’accettazione dei “Progetti Brocca” (piani nazionali di razionalizzazione dei curricoli).

 

                                               prof.  Gennaro Cucciniello

 

Mestre-Venezia,  gennaio 1996