Street Food nella Pompei del 79 d.C.

Street Food nella Pompei del 79 d.C.

Dagli scavi emerge un antico Termopolio: “Aprendo una delle giare, gli archeologi hanno sentito un fortissimo odore di vino”

 

Un fast food di duemila anni fa. Pompei continua a regalare spettacolari scoperte, stavolta persino l’odore del vino. E’ stato ritrovato un Termopolio (“Thermopolium”, avrebbero detto i Romani) nel cuore della Regio V, area al centro di un vasto progetto di manutenzione e restauro. Il termopolio era la tipica locanda romana con affaccio esterno che vendeva cibi e bevande calde da consumare su strada: si acquistava lì, vero e proprio cibo di strada, insomma.

Gli scavi hanno restituito un bancone a forma di “elle” (L) con ricche e multicromatiche decorazioni: una ninfa marina a cavallo, una coppia di oche germane (che riportano alla mente tante nature morte rinascimentali), un fantastico gallo, un cane al guinzaglio, fasci di rami verdi. Degli ottanta Termopoli ritrovati a Pompei, questo è l’unico con il bancone interamente dipinto. Sono emerse anche alcune ossa di due uomini, purtroppo non facilmente leggibili: appaiono in disordine, sconvolte dai cunicoli sotterranei realizzati da scavatori clandestini alla ricerca di oggetti preziosi. Uno dei due uomini potrebbe essere il proprietario del locale morto subito, l’altro forse un ladro alla ricerca di cibo, ucciso a sua volta poco dopo dal calore insopportabile e dai lapilli. Solo prime ipotesi.

Per fortuna è rimasto intatto molto materiale da dispensa: nove anfore, una patera di bronzo, due fiasche, un’olla di ceramica da mensa. Strumenti straordinari per capire come e cosa mangiassero gli abitanti di Pompei al momento della grande eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo. Ed eccoci all’odore del vino. Numerosi dettagli dello scavo sono stati raccontati da Massimo Osanna, direttore del Parco archeologico di Pompei: “Aprendo una delle giare, gli archeologi impegnati nello scavo hanno sentito un fortissimo odore di vino. Possiamo parlare di archeologia dell’olfatto”. Conferma l’archeologa Teresa Virtuoso: “E’ stata un’esperienza veramente rara”.

L’archeozoologa Chiara Corbino descrive le abitudini alimentari dei romani, così diverse dalle nostre: mischiavano nello stesso piatto pesce, lumache di terra, pezzi di anatra o di capretto. Osanna definisce la scoperta “una fotografia di quel giorno nefasto”: un’immagine che ci riporta colori, abitudini, e persino odori intatti fino a oggi. Quanto al vino dei romani, come spiega l’archeobotanica Chiara Comegna, era corretto nel gusto con le fave (tenute sul fondo del contenitore con un coppo) che contemporaneamente contribuivano a sbiancarlo. La conferma arriva da Marco Gavio Apicio, nel “De re coquinaria”, citato dall’antropologa Valeria Amoretti per contestualizzare le prime analisi di laboratorio anche con l’aiuto del costume gastronomico romano.

E’ stato poi decifrato, nella cornice del cane al guinzaglio, un graffito dal tono omofobo, “Nicia cinede cacator”, ovvero “Nicia, cacatore, invertito!”. Nicia, forse un liberto greco, era il proprietario o un dipendente del termopolio.

Molto soddisfatto dei nuovi risultati il ministro Dario Franceschini: “Con un lavoro di squadra, che ha richiesto norme legislative e qualità delle persone, oggi Pompei è indicata nel mondo come un esempio di tutela e di gestione, uno dei luoghi più visitati in Italia in cui si fa ricerca, si continua a scavare e si fanno straordinarie scoperte come questa”.

 

                                                                  Paolo Conti

 

Questo articolo è stato pubblicato nel “Corriere della Sera” di Domenica, 27 dicembre 2020, a pag. 37.