Werther, il giovane che incendiò l’Europa

Werther, il giovane che incendiò l’Europa.

Scritto a soli 25 anni, il romanzo di Goethe ebbe un successo straordinario. E non solo perché narrava un amore infelice. C’è una bella, nuova traduzione.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 2 luglio 2021 è pubblicato questo interessante articolo di Marino Freschi alle pp. 100-101.

 

Il colpo di pistola di Sarajevo che alle 10 del 28 giugno 1914 uccise l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando cambiò la storia del mondo, ma anche la pistolettata con cui, la vigilia di natale del 1772, il giovane Werther pose fine alla sua vita cambiò forse non la storia, ma certo la cultura e la sensibilità del suo tempo. Quel colpo fece una vittima illustre: l’illuminismo, l’ottimismo dell’illuminismo.

Scritto in poche settimane da Goethe a 25 anni e pubblicato anonimo per la fiera di San Michele a Lipsia nell’autunno del 1774, “I dolori del giovane Werther” fu subito un successo enorme. Il romanzo, esile, aveva interpretato “il male che era nascosto nell’anima dei giovani”, ricordava Goethe nell’autobiografia scritta a 60 anni. E proseguiva con maggiore coinvolgimento: “L’effetto di questo piccolo libro fu grande, anzi enorme, perché apparve nel momento giusto. Come basta una piccola miccia, infatti, per far scoppiare una mina potente, così fu anche l’esplosione quale si dette nel pubblico”. Quasi con la medesima metafora si espresse nel 1939 Thomas Mann, nel suo breve (e sofferto) impegno come professore all’università di Princeton: “Il romanzo determinò un’ebbrezza, una febbre, un’estasi diffusa su tutta la terra abitata: ebbe l’effetto di una scintilla che cada nella polvere e liberi, allargandosi all’improvviso, una terribile massa di forze”.

Eppure non si capisce subito il perché di tanta esplosività a rileggere ora il “piccolo libro”, per esempio nella recente, impeccabile traduzione einaudiana di Enrico Ganni. Si tratta dell’ultima fatica di Ganni, sottolinea Luigi Forte nel commosso ricordo dell’amico traduttore, scomparso prematuramente nel 2020. L’eleganza della traduzione potrebbe sollecitarci a una rilettura e a riflettere intanto sulla superba, coinvolgente lingua sentimentale e mai sentimentalistica del romanzo. Il suo spessore culturale fu rapidamente inteso anche dagli intellettuali italiani. Una prima traduzione –probabilmente dal francese- ad opere del milanese Gaetano Grassi fu pubblicata in una tipografia di Poschiavo, nei Grigioni svizzeri, di cui era potestà il marchese Tommaso de Bassus, esponente di spicco dell’Ordine degli Illuminati, una formazione paramassonica che venne accusata di sovvertire l’ordine e preparare la rivoluzione. Nel 1785 gli atti dell’Ordine vennero confiscati, la società segreta proibita, alcuni membri perseguitati soprattutto nella cattolicissima Baviera, già allora arci-conservatrice. Le carte degli Illuminati vennero pubblicate a dimostrazione della loro estrema pericolosità, e tra queste si trovava un foglio con l’apologia del suicidio. I severi censori ne trassero la prova provata della perniciosa immoralità e grave minaccia della società segreta, ma non si accorsero che si trattava di un brano del Werther. Questo fu il motivo per cui, a scanso di equivoci, Goethe a Roma si protesse con uno pseudonimo, circolando come “Jean Philippe Moller, pittore”.

La storia della seconda edizione italiana –quella nota a Leopardi e a Foscolo- è ancora più inquietante: il traduttore era l’intellettuale padovano Michiel Salom, laureato in medicina (l’unica facoltà permessa agli ebrei). La prima parte venne pubblicata nel 1788, pur essendo stata completata già nel 1782 con il consenso di Goethe; la seconda solo nel 1796. Salom, che era legato a importanti famiglie di ebrei berlinesi, inviò il manoscritto a Goethe, ricorrendo sorprendentemente anche lui alla straordinaria metafora del fuoco: “Io sono volenteroso d’offrirglielo”, scriveva nella lettera del 1781, “giacché ne venni a capo, lusingandomi di non averlo reso sì fiacco e spossato, che non possa suscitare anche in Italia alcune scintille di quel foco, che appiccaste col vostro rapido dire ai cori Tedeschi”. Goethe seppe apprezzare la fatica di Salom, che nel frattempo ebbe seri problemi con la giustizia: la Serenissima Repubblica di San Marco l’aveva spedito al carcere duro in Dalmazia, per attività sovversiva. Solo con l’arrivo delle truppe napoleoniche l’ebreo massone Salom riacquistò con la libertà il coraggio di pubblicare il resto del romanzo.

Allora: il primo traduttore un Illuminato, il secondo un massone, cospiratore e giacobino. E lo stesso Jacopo Ortis, protagonista del successivo romanzo di Ugo Foscolo, non era certo un impolitico. Anche Foscolo bussò alla porta di Goethe, inviandogli il 16 gennaio 1802 la prima parte del suo Ortis: “Riceverete dal signor Grassi il primo volumetto di una mia operetta a cui forse diè origine il vostro “Werther”. E su quel forse stiamo ancora ragionando. Resta il fatto che il Werher, che oggi pare un innocuo romanzo d’amore, conteneva scintille di quel foco che avrebbero incendiato l’Europa, perché quando si racconta una storia d’amore in realtà si racconta la Storia (con la maiuscola).

Che cosa aveva questo romanzo per essere così attraente? Dove era l’esplosività? Nella disperata ricerca della libertà: era il primo gradino della filosofia della libertà dell’autore. “Il giovane Werther” incarna il percorso intellettuale e spirituale di Goethe: gli studi ermetici, le frequentazioni massoniche e le letture spinoziane lo avevano avvicinato a una concezione della natura che non aveva a che fare con la visione materialistica degli Illuministi –specie quelli francesi ostili a Rousseau- né con le comunità luterane dei pietisti. Il Werther è la prima grande proposta di una visione della natura non più ortodossamente cristiana, ma nemmeno razionalistica. Goethe cominciava, ancorché con passo ancora insicuro, a intuire una concezione che oltrepassava le due correnti predominanti nella scena intellettuale e spirituale del secolo.

Werther si spara la vigilia di Natale. Ma non muore del tutto: il suo spirito –Goethe avrebbe detto la sua entelechia- prosegue a vivere e a svilupparsi, perché proprio in quei mesi lo scrittore comincia la più grande avventura poetica, il Faust. Werther si reincarna in Faust, che (come il suo autore) non è solo amante della natura (e di donne), ma anche scienziato, naturalista, perfino benefattore della comunità, facendo i conti con il suo diavolo un po’ luciferino e un po’ aiutante inconsapevole della grande realizzazione del progetto faustiano, che è il lascito ancora aperto a costanti rivisitazioni e illuminazioni. Tutto partì da quel colpo di pistola, per alcuni più importante di quello di Sarajevo.

 

                                                        Marino Freschi