Ugo Foscolo, “Alla sera”. Una lettura.

 

Ugo Foscolo (1778-1827), “Alla sera” (1803). Una lettura.

Questo è un lavoro scritto nel novembre 1988 da una studentessa del quinto anno, Corso propedeutico all’università, dell’Ist. Magistrale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, anche se vagliate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica), inevitabilmente ricavate dai manuali scolastici e da alcune pagine saggistiche studiate in precedenza. Mi ha interessato, invece, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture, il non rinunciare al piacere delle idee e dei pensieri pazienti e curiosi. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero.

Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. E credo anche che la scuola dovrebbe essere un vivaio di menti indagatrici, quelle persone curiose che Francesco Bacone, nel ‘500, definiva “mercanti di luce”. Con il tempo ho imparato che l’apprendere è una grande fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla.

Non voglio, perciò, che questi micro-testi siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi. Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.

prof.  Gennaro  Cucciniello

 

Forse perché della fatal quiete

tu sei l’immago a me sì cara vieni

o sera! E quando ti corteggian liete

le nubi estive e i zeffiri sereni,                                                4

 

e quando dal nevoso aere inquiete

tenebre e lunghe all’universo meni

sempre scendi invocata, e le secrete

vie del mio cor soavemente tieni.                                         8

 

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme

che vanno al nulla eterno; e intanto fugge

questo reo tempo, e van con lui le torme                           11

 

delle cure onde meco egli si strugge;

e mentre io guardo la tua pace, dorme

quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.                          14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).

Forse perché tu sei l’immagine della pace destinata dal fato a tutti gli esseri viventi (cioè della morte) a me arrivi così cara, o sera! Sia quando ti accompagnano festosamente le nuvole estive e i venticelli di una giornata serena di primavera, sia quando porti dal cielo nevoso dell’inverno sopra tutto il mondo tenebre inquietanti e durature (sono le lunghe interminabili notti invernali), sempre arrivi da me invocata e occupi con dolcezza il profondo del mio cuore. Mi induci a fantasticare con i miei pensieri sulle vie che portano all’annullamento eterno della vita; e intanto si allontana dai miei pensieri e scorre a precipizio questo tempo malvagio, doloroso, in cui  vivo, e vanno via con lui le tante preoccupazioni con le quali mi affligge mentre, consumandosi, consuma la mia vita. E mentre io guardo la tua pace dorme quello spirito combattivo che mi tiene in agitazione, che mi ruggisce dentro.

Periodi sintattici e schema metrico si accompagnano e si fondono e si dividono in modo netto: il primo è il blocco delle due quartine in cui il tema è l’immagine della sera e della quiete, il secondo è quello delle terzine in cui predomina la riflessione soggettiva e la tensione.

  1. 1-3: O sera, forse giungi a me così cara perché rassomigli e sei l’immagine della pace eterna! L’invocazione iniziale sintetizza il tema di fondo del sonetto, la notte come preannuncio della morte e il pronome “a me”, subito dopo l’immenso quadro iniziale, sembra quasi stabilire una particolare relazione tra il poeta-spettatore e la cosmica vita dell’universo. Già nei primi versi i due enjambement anticipano l’inarcamento di tutta la lunga descrizione dei fenomeni atmosferici e la posposizione del predicato + soggetto rispetto al predicato nominale sembra creare nel lettore una sorta di aspettativa allusiva. Il Forse dell’apertura è segno del pensiero ma soprattutto, mi sembra, di un tentativo di capire, un momento di smarrimento concettuale (il poeta non sa né vorrebbe chiarire?). Quanto alla fatal quiete è la morte, assegnata dal fato a tutti gli esseri viventi, portatrice di riposo e di pace (richiama il quies latino di Virgilio e Properzio e ricalca l’inizio di un sonetto di Della Casa, autore del ‘500: “O sonno, o della quieta umida ombrosa / notte placido figlio”).
  2. 3-4: Sia quando ti accompagnano, quasi in un corteo festoso, liete le nubi estive e le brezze primaverili che rasserenano il cielo. Si chiude la prima quartina e, anche se la descrizione è ancora incompleta, già il ripetersi dell’enjambement e le rime (quiete/liete, sì cara vieni/zeffiri sereni) denotano l’omogeneità di un campo semantico positivo, improntato a sensazioni di dolcezza, segnato dalla prevalenza delle vocali a/e (perché, fatal, quiete, cara, liete, sereni). Il parallelismo “e quando… e quando” non è solo un gioco di echi ma evoca come per incanto –attraverso l’alterno variare delle stagioni- il senso dell’eterno e del continuo ciclico fuggire del tempo.
  3. 5-6: Sia quando dall’aria invernale nevosa e gelida conduci al mondo intero tenebre lunghe e inquietanti. E’ il calare della notte buia in una fosca sera invernale. Si chiude la parte descrittiva: la sera è stata colta in momenti diversi ma con intense risonanze sentimentali nello stato d’animo dell’io lirico, l’imbrunire di una bella giornata estiva e la sera invernale che minaccia neve. Ancora ci sono lo scorrimento veloce dell’enjambement (vv. 4-5) e la prevalenza insistita della vocale “e” (aere, inquiete, tenebre), elementi già notati nel periodo precedente. Il termine inquiete (v. 5) riprende e ingloba la quiete (v. 1): non è un gioco, l’aggettivo indica in una specie di correlativo oggettivo la minaccia della bufera di neve ma allude anche all’inquietudine che prende l’animo di chi osserva scendere una cupa e lunga notte d’inverno, quasi un’anticipazione del riposo eterno. L’anastrofe del tipo “inquiete tenebre e lunghe”, per cui due aggettivi sono collocati uno prima del sostantivo, l’altro dopo, serve –insieme alla dieresi su inquiete e all’enjambement tra i versi 5 e 6- a suggerire anche mediante i suoni l’impressione della durata del buio. Appunto, i suoni: ho già notato come la soavità della sera è esaltata dalla particolare omogeneità fonetica delle quartine, dove spiccano le vocali “chiare” (a, e, i). Nelle terzine ci sarà una maggiore varietà. Infine, una nota sull’opposizione estate/inverno: è la dinamica delle forze atmosferiche contrarie che sviluppa il senso complessivo dell’irrilevanza dei dati stagionali. La quiete serale è minacciata nelle quartine dalla diversa condizione naturale; nelle terzine sarà insidiata dal conflitto dei sentimenti e degli stati d’animo.
  4. 7-8: Tu scendi sempre da me invocata, a me gradita, e raggiungi e occupi dolcemente le zone più intime del mio cuore. “Sempre” corrisponde a “e quando… e quando”. La parola acquista un particolare risalto proprio perché è posta all’inizio della proposizione principale: lega le due rappresentazioni precedenti –così contrastanti tra loro- e le avvia a un risultato psicologico unitario. Una riflessione sulle rime in B (vieni, sereni, meni, tieni) mi porta a notare una netta prevalenza di verbi nei quali il movimento dinamico del buio che arriva (sera, tenebre) si placa dolcemente nella pace conquistata. Si riconferma la continuità della presenza rassicurante della “e” (sempre, secrete, vie, soavemente). Già nelle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” Foscolo aveva scritto: “Mi affaccio al balcone ora che l’immensa luce del sole si va spegnendo, e le tenebre rapiscono all’universo que’ raggi languidi che balenano su l’orizzonte; e nella opacità del mondo malinconico e taciturno contemplo l’immagine della distruzione divoratrice di tutte le cose” (25 maggio 1798).
  5. 9-10: I miei pensieri si aggirano intorno alla tua immagine e giungono, passo dopo passo, all’idea e alla coscienza della morte, intesa come annullamento definitivo e totale della vita. Ora il ritmo si fa più serrato e concitato, i periodi diventano più brevi e nervosi, si profila una presenza evidente della consonante “r” (vagar, pensier, orme, eterno). Il Vagar iniziale, come il Forse del v. 1 si riferisce strettamente all’animo del poeta, travagliato dagli affanni e dalle contraddizioni del tempo storico, il reo tempo, ed è enfatizzato dalle allitterazioni parallele, “vanno… van…” dei vv. 10 e 11. La critica è concorde sull’ipotesi che il nulla eterno può essere inteso, secondo il suggerimento di Lucrezio, come l’immensa estensione del tempo che precede l’origine e segue la fine della vita, una fine dove sono destinati a estinguersi per sempre gli individui, la storia, il tempo; e nel pensiero di questa immensa pace cosmica l’animo, fattosi più chiaro e più puro, riposa.
  6. 10-12: E mentre io mi abbandono al pensiero della morte scorre veloce questo tempo presente, malvagio sia perché porta delusioni e sofferenze sia perché è in sé un’epoca negativa, e fuggendo questo tempo porta con sé e allontana dalla mia coscienza la folla degli affanni per cui ci consumiamo sia io sia l’età presente. Siamo arrivati al nucleo centrale del sonetto, all’idea del  “nulla eterno” che spinge a guardare da una distanza infinita e quindi quasi a commiserare i conflitti e le sofferenze che nel presente tormentano e affannano, per questo il pensiero della morte ha un’efficacia liberatrice. Ma come è espresso poeticamente questo concetto? Intanto c’è l’opposizione tra il “nulla eterno” del v. 10 e il “reo tempo” del v. 11, non a caso posti entrambi a inizio di verso –quasi in lettura verticale- e in struttura a chiasmo (sostantivo+aggettivo, aggettivo+sostantivo). E’ un’opposizione totale: cosa può contare il tempo (il mondo privato e quello storico) di fronte all’immane presenza del nulla? Infatti il tempo “fugge” e la rima che gli si lega è “strugge”, rime poste a fine verso, e la posizione enfatica è accentuata dal netto enjambement che separa il verbo dal suo soggetto (fugge / questo reo tempo), cosa che si ripete anche nel verso successivo (le torme / delle cure), in questo caso: soggetto e complemento di specificazione. Interessante ancora è il gioco delle allitterazioni: il suono stridulo delle “r” (vuole riprodurre il tumulto, la musica aspra delle passioni?) persiste e si accentua (reo, torme, cure, strugge) fino a dominare interamente l’ultimo verso, si evidenziano numerose vocali “scure”, in particolare la cupezza della “u” (su, nulla, fugge, lui, cure, strugge).
  7. 13-14: E nella contemplazione della tua pace trova pace anche il mio animo, un animo ribelle, pieno di passione, insofferente delle costrizioni e delle miserie di questo mio tempo. L’opposizione continua e questa volta è tra la pace della sera e lo “spirto guerrier”, cuore ribelle al “reo tempo”, al negativo momento storico. Il legame evidente è dimostrato proprio dalla struttura: al fugge / questo reo tempo (vv. 10-11) corrisponde in bella evidenza il dorme / quello spirto guerrier (vv. 13-14), con la posposizione già prima notata, l’alternanza degli aggettivi dimostrativi questo-quello, e ancora il chiasmo (reo tempo / spirto guerrier), a riprova di un controllo formale ferreo. La critica ha notato il parallelismo dei due momenti, il tempo che fugge e l’inquietudine che si placa nel fascino di una pace malinconica, e ha sottolineato il rigore delle simmetrie sintattiche e delle risonanze foniche: i verbi positivi, che indicano la liberazione (fugge, dorme) rimano con verbi o sostantivi che indicano negatività (strugge, rugge, torme). Si legge nelle antologie che dal materialismo settecentesco, da questa idea della morte come annullamento totale, “distruzione divoratrice di tutte le cose”, dalla cultura illuministica nella quale il nostro poeta si era formato, Foscolo ereditava un senso di smarrimento e di inquietudine dinanzi alle contraddizioni del secolo e alla precarietà della vita umana. Bisognava rassegnarsi o reagire all’opaca, complessa densità della vita umana? Nei “Sepolcri” si troveranno le prime risposte.

                                                           Alessandra  V.