Un fantasma si aggira per l’Europa: il vecchio Marx

Uno spettro si aggira di nuovo per l’Europa: il vecchio Marx

Una biografia sugli ultimi anni del filosofo riapre il dibattito sulla sua eredità. E offre il sorprendente ritratto di un uomo iracondo, leonino e legato ossessivamente ai suoi studi.

 

Questo articolo di Alfonso Berardinelli è apparso nel “Venerdì” di “Repubblica” del 30 settembre 2016, alle pp. 106-107.

 

Chi è, dov’è finito Karl Marx? Un illustre defunto? Un autore ormai improponibile? Un grande classico da studiare meglio? Il teorico politicamente da riscoprire? Ha avuto torto fin dall’inizio? Ha avuto sempre ragione? E’ l’insuperabile critico del capitalismo? E’ un filosofo che i filosofi non possono più amare perché fu un “imperterrito demistificatore” di ogni filosofia? E soprattutto: dove sono finiti i supermarxisti degli anni Sessanta, quelli del ritorno al vero Marx? Prima sono passati a Nietzsche e a Heidegger. Poi, mai sazi, sono arrivati ai sapienti presocratici, ai teologi e ai mistici medievali, ai maghi rinascimentali.

E ora? Sembra che lo spettro di Marx si aggiri di nuovo in Europa e in America. Ma in che mani è finito? Il suo nome è stato già usato come garante di utopie coperte di muffa, riproposte come priorità dell’essere sull’avere, che qualche clown parafilosofico porta in giro da un’università all’altra cercando di trascinare studenti incazzati e disorientati in quel paese dei balocchi in cui il prefisso com fiorisce in comunanza, comune, comunità, comunione… in attesa di comunismo.

E’ probabile che per creare intorno a Marx un’atmosfera di onesta e sobria attenzione, più che i teorici e i filosofi, siano utili i biografi e gli storici, non proprio antimarxisti ma neppure marxisti. Il peggiore guaio che poteva capitare a Marx sono stati i marxisti, tanto gli ortodossi, perché ciechi, quanto gli eretici, perché visionari.

Ma quale autore di successo può controllare gli effetti provocati dal suo pensiero? Marx, esasperato, alla fine si sentì costretto a dire che lui non era marxista. Il suo successo è stato tale da aver creato una cultura marxista completa di tutto, teoria e prassi, idee e valori, scienza e utopia, sopracciglia alzate e spietata freddezza, una cultura che assunse presto caratteri di dottrina e di fede esclusive. Si può anche capire: le eccezionali capacità intellettuali di Marx nel fornire una solida base teorica alle lotte e alle organizzazioni del primo proletariato industriale non potevano che essere premiate con la gratitudine, l’ammirazione e una devozione a volte smodata.

Il libro appena uscito di Marcello Musto, “L’ultimo Marx, 1881-1883”, (Donzelli, pp. 148, € 24) non è per fortuna un testo di teoria o filosofia politica, si propone più modestamente come “saggio di biografia intellettuale”. Questa modestia contiene tuttavia un’ambizione: quella di correggere la convenzionale immagine di Marx rileggendo attentamente le pagine in cui, negli ultimi anni della sua vita, continuò a riflettere sulle proprie affermazioni, quando seguaci o critici mostravano di fraintendere il suo pensiero, estremizzando e generalizzando. Il libro non si presenta perciò come un nuovo, ennesimo “ritorno a Marx” (anche se nell’ultima pagina se ne sente il tono) ma come il sintomo di un clima politico diverso. “In seguito all’ultima crisi del capitalismo, scoppiata nel 2008”, scrive Musto nella prefazione, “Karl Marx è ritornato di moda. Contrariamente alle previsioni, che dopo la caduta del Muro di Berlino ne avevano decretato il definitivo oblio, negli ultimi anni le sue idee sono nuovamente oggetto di analisi, approfondimenti e dibattiti. In molti, infatti, hanno ripreso a interrogare quell’autore troppo spesso accomunato al “socialismo reale” e, poi, troppo frettolosamente messo da parte dopo il 1989”.

Non poteva che essere così. Se le rivoluzioni politiche compiute dai partiti comunisti in nome del proletariato sono fallite, non solo creando inefficienza economica e paralisi politica, ma veri inferni totalitari, con la distruzione di ogni possibilità di vita sociale, questo non significa che il capitalismo abbia smesso di esistere. Non ha realizzato il migliore dei mondi possibili e neanche ha smesso di patire e di creare gravissimi problemi: alienazione sociale e mentale, sfruttamento, disoccupazione, impoverimento. Si produce un’enorme ricchezza e poi la si brucia.

Ecco allora Marx. Musto lo fa entrare in scena ancora una volta. Ormai vecchio e malato, scarmigliato e leonino come sempre, pacatamente patriarcale e poi, all’improvviso, come sempre, iracondo e sprezzante. Più di dieci, anche sedici ore al giorno di lavoro. Brevi passeggiate serali, foruncoli tormentosi, tosse incessante, pleurite. E tutti gli altri che gli sembrano ancora così indietro, così inconsapevoli: quasi nessuno, salvo il fedele Engels, ha veramente capito che non basta usare parole rivoluzionarie, né sentirsi comunisti: la prima cosa è sapere e ricordare come funziona la grande macchina del Capitale, una forza titanica che in pochi decenni ha abbattuto le muraglie di un passato secolare, millenario, e ora invade e cambierà l’intero mondo in un futuro assi prossimo. Lui si informa, sa tutto di ogni nazione europea, e da lontano, grazie a discepoli, amici e ammiratori, scruta quello che succede nella Russia arretrata e negli Stati Uniti, dove ai capitani d’industria è concesso tutto lo spazio per le loro più spregiudicate imprese e avventure. Marx, sottolinea Musto, non ha mai smesso di studiare e alla fine legge e trascrive soprattutto i libri degli antropologi. Ma aspetta, non smette di aspettare una rivoluzione di cui è certo.

I problemi di chi legge o rilegge Marx restano comunque sempre gli stessi: quelli del rapporto fra scienza del Capitale, teoria della rivoluzione storicamente inevitabile e utopia sociale comunista. Problemi che Marx non poteva né voleva tentare di risolvere preliminarmente e in teoria. C’è però un altro problema, sempre sottovalutato, non teorico ma praticamente decisivo: il problema di chi fa la rivoluzione, di chi sono i rivoluzionari che la guidano. A più di un interlocutore risultò che sia Marx che Engels erano pessimi conoscitori di uomini. E nessuna teoria, per quanto buona, resta buona in mano a cattivi esecutori. Marx non era un moralista, purtroppo. La sete di potere, l’impostura, l’ottusità e la perversione dei capi rivoluzionari, non le ha studiate né previste.

 

                                                        Alfonso  Berardinelli