Al Pdup di Venezia, 1976. Non c’è più spazio per un’indispettita sovrabbondanza di velleitaria pedagogia politica.

Questo è il testo del documento politico con il quale motivo le mie dimissioni dal partito di unità proletaria per il comunismo, federazione di Venezia.

Al Direttivo del PDUP di Venezia

Mi sforzerò, cari compagni, di sintetizzare i temi di riflessione che mi hanno convinto a dimettermi dal partito; ritengo utile definire un terreno di dibattito fruttuoso per noi tutti, nella ricerca di un incisivo rilancio del movimento di lotta con le sue necessarie e giuste proiezioni politiche.

Lo stato del partito. L’esperienza del dibattito pre-elettorale, negativa per tutti anche se dettata dalla necessità, ha confermato le risultanze già emerse in tutta la vicenda congressuale e riflesse nella vita quotidiana del partito. Prima, la paralisi delle strutture di lavoro ad ogni livello (ne è stato esempio, chiaro e non unico, la Commissione Scuola Nazionale); poi, i gravi atti frazionistici ed elettoralistici, le violazioni dei deliberati congressuali e del Comitato Centrale, il mancato rispetto delle decisioni della maggioranza dei compagni; infine, il riemergere della logica delle componenti organizzate e la definitiva loro stabilizzazione in atteggiamenti frazionistici precostituiti e in decisioni ricattatorie: sono state queste le tappe graduali del corrompimento che ha subito l’organizzazione.

Le difficoltà politiche dell’unificazione “Manifesto-Pdup”, che potevano essere assunte come il riflesso d’una operazione complessa ma necessaria di riunificazione delle forze alla sinistra del PCI, sono approdate ad un dibattito sterile e confuso, aggravato su scala provinciale dai giochi di potere di clan faziosi e contrapposti. E’ già stato denunciato quanto questo stile di lavoro sia deleterio e pericoloso, ma vale la pena di sottolineare come e quanto esso contrasti con alcune delle esigenze –politiche e non metodologiche- che erano state alla base nel 1969 dell’elaborazione de “Il Manifesto” e della decisione di molti compagni di uscire allora dal PCI: il superamento dello schema organizzativo di un partito terzinternazionalista, il tentativo di una pratica comunista nella vita interna, il realistico costruire le premesse di un approdo non velleitario né intellettualistico al tema del rapporto personale-politico su cui non pochi compagni dirigenti scrivono e stampano ponderosi articoli. A tutti è evidente questo stato di degenerazione, nei compagni c’è sfiducia mista a frustrazione, il dibattito misura un impaccio e difficoltà gravi: un dato che non è il riflesso, secondo me, d’una incapacità soggettiva degli iscritti a praticare un rinnovato e corretto costume di confronto all’interno del partito ma che fotografa invece l’impotenza politica e l’attuale impasse strategica del Pdup.

Il dibattito post-elettorale. La discussione che abbiamo sviluppato dopo il 20 giugno non è stata finora né adeguata né coraggiosa; ha presentato, anzi, nuovi elementi di contraddizione. Probabilmente tutto il partito è caduto nello scoramento quando ci si è accorti che il subordinare ad un’azione spregiudicatamente elettoralistica ogni chiarezza sulla strategia e sulla tattica non ha premiato, anzi è stata non capita e punita dagli elettori (con involontaria ironia nei confronti di organizzazioni extra-parlamentari). Però concordiamo sul fatto che questo non basta per la comprensione della dinamica degli importanti processi sociali che il voto ha rivelato. Stiamo ripetendo, anche nella distinzione delle componenti, gli schemi analitici del pre-20 giugno. La minoranza, lucida quando insiste sulle approssimazioni di alcune delle Tesi Congressuali (di cui pure è responsabile) e sull’astrattezza dottrinaria con cui sono state portate avanti, appiattisce nella sua analisi il quadro politico, dà per risolta la crisi della DC e il cedimento riformista del PCI, approdando ad una generica esaltazione del movimentismo. Si invocano nuove, dure e generalizzate lotte di massa: bene. Ma con quale rispondenza al livello della crisi? E quale schieramento “rivoluzionario” le promuoverà? Non è un caso che emerga, con più nettezza su questo versante, la disponibilità alla Costituente dei gruppi cosiddetti rivoluzionari, all’intergruppi del rifiuto e del massimalismo protestatario. Ma anche la maggioranza poco si discosta dalla sostanza di questa posizione, pur nella più precisa articolazione dell’analisi: i compagni –oltre agli appelli idealistici per un rilancio soggettivo del modo d’essere del partito- certo sottolineano con maggiore forza la complessità della situazione sociale e politica, l’insussistenza d’una possibilità reale di stabilizzazione, rilevano al contrario la conflittualità crescente e l’ingovernabilità del paese, la situazione di instabilità repressiva e ricattatoria e –nello stesso tempo- le potenzialità intatte del movimento e la sua capacità nel determinare un più avanzato quadro politico. Ma quasi a voler dare maggiore incisività al proprio ruolo di condizionatori della politica altrui (i partiti tradizionali della sinistra) e non di soggetti capaci di protagonismo sociale e politico, si rimedia alla propria miseria ed impotenza con una indispettita sovrabbondanza di pedagogia politica. Sul nostro giornale all’invettiva, al sarcasmo sulle decisioni degli altri (soprattutto del PCI) sempre più si intrecciano le lezioni e i lamenti sul cosa si dovrebbe e sul come si potrebbe fare. All’accresciuta difficoltà dei processi politici del dopo-elezioni il partito oppone quindi uno stato interno confusionario e paralizzante, con la ripresa della tendenza centrifuga, con gli equivoci sui collettivi intergruppi di DP nelle fabbriche, con il neo-autonomismo dei sindacalisti, con un dissenso tra le componenti originarie che investe problemi di prospettiva, di analisi di fase e dei compiti del partito.

Certo, c’è il progetto di unificazione con Avanguardia Operaia, che –scrive Notarianni sul “Manifesto” del 22 luglio- “deve essere frutto d’un dibattito aperto, d’una riflessione nuova, d’una ricerca modesta ma seria anche sul modo nuovo di far politica di cui si parla spesso ma che si pratica per niente”; e per il quale occorrono –aggiunge Indovina (ibidem, 26 agosto)- volontà e modestia, chiarezza e ragionevolezza, rispetto reciproco ed assenza di furbizia”. Avvertenze di metodo sospette per la loro insistenza ma forse –conoscendo gli interlocutori- non inutili. Eppure tutti i dati di cui si è in possesso documentano che quanto è auspicato proprio non si verifica, negano tensione morale e politica, sacrificano il coinvolgimento e la valorizzazione dell’apporto dei compagni e –quel che più importa- aggravano la confusione sugli obiettivi strategici e sulle scelte tattiche, equivocano sul modello d’organizzazione. Nei fatti sembra ragionevole concludere che l’operazione, se si farà, sarà stata determinata essenzialmente dalla volontà di mettersi insieme e di resistere, ripetendo –in peggio- l’esperienza dell’unificazione tra il Manifesto e il Pdup.

La collocazione politica del Pdup. Il voto di giugno è stato duramente negativo, è stato la riprova del nostro sostanziale isolamento all’interno del movimento di lotta, soprattutto operaio e meridionale, del nostro minoritarismo: chiarendo, una volta per tutte, quanto fosse presuntuosa l’identificazione tra i cosiddetti “gruppi rivoluzionari” e le avanguardie reali. In questo quadro il voto, se ha punito il rivendicazionismo economicista di AO e di LC, ha anche confermato la nostra subalternità intellettualistica e predicatoria. Ed è la conferma anche di un secondo dato. Un sistema di potere –quale quello democristiano- non può essere battuto da un’alternativa di sola confutazione ideologica: è nel paese reale che bisogna attaccare, a tutti i livelli, nelle sedi dove si forma l’orientamento politico delle grandi masse. E per far questo occorrono strumenti adeguati e collocazioni giuste.

E’ innegabile che in questi anni sono cresciute forze sociali, grandi in potenza quantitativa e in complessità qualitativa, aggregando strati, ceti e interessi anche distanti e imprimendo loro connotati di classe egemonici. Per esprimersi compiutamente questi schieramenti hanno bisogno di adeguati strumenti politici. Alcuni dicono di grandi partiti di massa, altri –riferendosi alla sinistra- sentono l’esigenza di uno schieramento articolato e dialettico, capace di aderire capillarmente alle diverse esigenze della nostra società. E’ un problema che resta aperto: è da escludere, comunque, che servano allo scopo organizzazioni asfittiche, litigiose e settarie. L’inadeguatezza di tali strumenti politici è evidente se li si confronta all’urgenza e all’importanza dei problemi attuali e di prospettiva. Sono convinto che la permanenza della lotta operaia ai livelli di questi anni sarà possibile solo grazie ad un suo approfondimento nei metodi, nelle forme, nei contenuti e in una sua compiuta socializzazione. Sarà necessario affrontare in termini politici e non moralistici, in un quadro di tal genere, l’analisi delle funzioni dello Stato e delle sue istituzioni, non individuando in esse una sfera separata, sovrapposta e corruttrice nei confronti di uno schieramento di classe puro e incontaminato, ma i concreti intrecci tra struttura e sovrastruttura in cui si scontano i rapporti di forza tra gli schieramenti sociali. Solo così si è in grado di cogliere tutt’intera la complessa trama dei rapporti tra capitale e lavoro e si ha la capacità di far politica introducendo elementi concreti di alternativa, di cambiamento, e incidendo nel vivo dello scontro di classe. E problema a questo strettamente collegato, c’è il saper inquadrare –nei suoi veri termini- la questione democristiana, spia della complessità della società italiana e dei suoi canali di rappresentanza politica. Infatti non ridurrei il tema d’analisi al “caso DC”: è, più in generale, la questione del moderatismo italiano, ideologico e di struttura, reso evidente nella sua acutezza dalla dinamica del voto giovanile che tanto ha inquietato e deluso la nuova sinistra. Abbiamo sottovalutato largamente, per il passato, il peso e le contraddizioni dello spessore moderato della società italiana, il ruolo e il comportamento politico dei ceti intermedi, da un lato fuorviati da una meccanicistica e indiscriminata assunzione del concetto di proletarizzazione, dall’altro attirati dallo schema radical-socialista d’una spaccatura rigeneratrice della società italiana, data già per compiuta, e tutta fondata su un’ipotesi di contrapposizione ideologica.

Come si intende rispondere in positivo a questi problemi? Se siamo d’accordo sul fatto che il problema dominante di questa fase è la gestione non della ripresa ma della crisi del nostro meccanismo di sviluppo, chi deve gestire questa crisi? Quali classi sociali? Attraverso quali forze politiche, con quale rete di alleanze, con quale macchina statale? Per non parlare dell’attenzione al quadro internazionale nel quale gli ancoraggi strategici del partito sono del tutto insufficienti e disorganici: non basta veramente più il “mitologizzare” sulla rivoluzione culturale cinese e il denunciare la crisi profonda delle società dell’Europa orientale, come pure l’auspicare l’unità di classe del proletariato europeo. Sono questi elementi di dibattito ideologico, punti di riferimento nelle scelte di campo, spunti stimolanti di rivisitazione critica, ma non nuclei di un programma politico credibile e praticabile. Si svela qui un limite profondo dell’elaborazione dei gruppi e dei partiti alla sinistra del PCI, rimasta tutta interna allo scontro di classe italiano, incapace di definire un convincente orizzonte di riferimento internazionale, soprattutto europeo e mediterraneo, limite che ora viene pagato con l’isolamento e la messa fuori gioco.

Confrontate, compagni, all’urgenza e importanza di questi temi lo stato presente e le prospettive del Pdup: è qui la chiarificazione del rapporto tra esistenza del partito e vitalità del movimento. In questa crescente divaricazione io ho individuato la sterilità e l’insufficienza dell’azione del Pdup, la conclusione oggettiva del nostro ruolo politico. Da qui nasce la mia decisione di verificare le possibilità di ritornare nel PCI per trovarvi la realizzabilità materiale, politica e ideale del progetto strategico di cambiamento della società italiana.

Questi temi di riflessione e di dibattito sono all’origine non solo delle decisioni dei compagni che in questi mesi hanno abbandonato il partito ma della crisi oggettiva del partito stesso. E’ perciò necessario denunciare prima di tutto il tono, lamentoso e spocchioso insieme, ma poi anche la sostanza del commento del giornale “il Manifesto” al caso dei ventiquattro compagni dimissionari di Bologna. Non possiamo dimenticare proprio noi che le scelte di una militanza sono politiche, razionali, non teologali né mistiche. Né varrebbe, io penso, l’insinuazione che a muovere tanta indignazione per i compagni che si dimettono sia la constatazione che diminuisce nel Pdup il peso della componente che ha attualmente la maggioranza. Non lo voglio credere. Sarebbe una conclusione misera d’una esperienza politica che ha avuto un peso importante nello svolgimento della lotta di classe di questi anni, che ha contribuito a sviluppare –insieme al policentrismo delle forme di azione politica- la coscienza della crisi acuta dei rapporti di potere fra le classi e una socializzazione senza precedenti dell’egemonia della classe operaia sulle masse popolari del nostro paese.

Gennaro Cucciniello

Mestre, 14 settembre 1976