Amleto, l’uomo che sa ma non sa agire

Amleto, l’uomo che sa ma non sa agire

 

Se l’Antigone di Sofocle è il modello più puro e più estremo della forza della decisione –l’eroina tragica preferisce morire piuttosto di cedere sul suo desiderio di dare sepoltura al proprio fratello morto-, l’Amleto di Shakespeare è quello, altrettanto puro ed estremo, della difficoltà ad assumere una decisione con la determinazione necessaria del proprio desiderio. Diversamente da Antigone, infatti, Amleto, di fronte al proprio desiderio, tentenna, esita, non riesce, se non alla fine del dramma, a realizzare il suo atto. Conosciamo la sua storia: lo spettro del padre –ucciso nel sonno dal fratello Claudio che, con questo atto spietato, si impossesserà del trono e della sua sposa- ritorna per comunicare la sua orribile verità al figlio Amleto chiedendogli di fare giustizia. Ma il figlio, anziché agire, sprofonda nel dubbio differendo il tempo della decisione che solo alla fine del dramma, in modi rocamboleschi, potrà realizzarsi togliendo la vita a sua madre, all’amico-rivale Laerte, allo zio usurpatore e a se stesso.

Freud ne L’interpretazione dei sogni si è soffermato sulla figura del figlio Amleto presentandola come il rovescio di quella di Edipo, sebbene animato –per così dire- dallo stesso complesso. Perché Amleto non agisce? Che cosa lo trattiene, che cosa lo inibisce rendendogli impossibile l’atto? Risposta di Freud: Amleto non compie l’atto che vendicherebbe suo padre perché inconsciamente vede in Claudio la realizzazione dei propri desideri incestuosi (eliminare il padre, diventare Re e possedere sua madre). Colui che dovrebbe compiere giustizia “non è, dunque, migliore del peccatore che dovrebbe punire”, conclude Freud.

Lacan si è interessato ad Amleto –come altri psicoanalisti dopo Freud e prima di lui- in una parte centrale del Seminario VI, titolato Il desiderio e la sua interpretazione, appena tradotto in italiano per Einaudi. Si tratta di una straordinaria lettura di Amleto che ha come punto di partenza la constatazione che il giovane principe di Danimarca –come accade, in realtà, ad ogni comune nevrotico, non è in grado di far convergere il sapere e l’azione. Amleto sa la verità –che invece sfugge ad Edipo- ma la sua azione è paralizzata; l’essere e il fare si disgiungono; l’accesso all’atto gli è interdetto dalla ruminazione dubbiosa che lo getta in uno stato di impotenza depressiva. Edipo ricerca affannosamente la verità che riguarda la propria identità e quella di suo padre (“di chi sono figlio?”) senza sapere quello che fa –la sua tragedia è una tragedia della conoscenza-, mentre Amleto sa già tutto –è lo spettro del padre che gli rivela una verità che in realtà lui stesso sospettava-, ma resta bloccato e paralizzato nell’azione. Mentre Edipo agisce senza sapere, Amleto sa senza agire.

E’ lo spostamento sensibile d’accento che caratterizza il passaggio dalla tragedia antica, che confronta il soggetto con il suo destino, al dramma della modernità che mostra invece quanto il sapere possa essere d’intralcio alla decisione. Più precisamente Lacan sposta l’accento dal desiderio edipico (incestuoso) del figlio rivolto verso la madre e che incontra il padre come ostacolo (Edipo), al desiderio della madre, della regina, che si rivela, al figlio, al di là della Legge del padre, come insaziabile e osceno (Amleto). Questo desiderio –il desiderio di Gertrude- non si esaurisce nella fedeltà al marito morto ma si mostra abitato da un eccesso che disturba il figlio. La donna eccede la madre esibendo un desiderio che reclama oscenamente il suo diritto. E’ il tabù del sesso della madre che esiste anche come donna che viene qui in primo piano. Amleto non sopporta l’incontro con questo eccesso perché vorrebbe essere lui il solo oggetto della madre in grado di colmarne la mancanza. Solo se egli si impegnerà a fare il lutto della sua condizione di figlio –che colma il desiderio della madre- potrà accedere al proprio desiderio e, di conseguenza, compiere l’atto al quale il padre lo ha contraddittoriamente chiamato: “Lo spettro reclama la decisione pura, ma che decisione sarebbe mai una decisione imposta?”, ha precisato giustamente Massimo Cacciari in “Hamletica” (Adelphi, 2009). Di qui l’importanza che Lacan assegna alla scena dove Amleto scende nella fossa nella quale Laerte si dispera per la povera sorella Ofelia morta suicida. Solo questa discesa di Amleto nella fossa può liberarlo dalla sua indecisione, dunque anche dallo spettro paterno che esige la vendetta. E’ solo attraverso il lutto che Amleto può ritrovarsi uomo e non più figlio, ovvero può, spiega Lacan, smettere di sintonizzare il suo desiderio su quello dell’Altro. E’ il punto veramente cruciale della sua lettura: solo se il figlio rinuncia ad essere il fallo della madre e a “dimenticare” il padre può diventare davvero un uomo. La discesa nella fossa –per Lacan il “lutto del fallo” e il “lutto del padre”- è un’esperienza che l’essere umano deve fare per assumere la verità singolare e incomparabile del proprio desiderio. Heidegger aveva chiamato questa discesa “essere-per-la-morte”: solo attraverso la rinuncia al fantasma di essere padroni del nostro desiderio ci si può rendere soggetti attivi di desiderio. Solo se l’immagine del figlio viene liberata dall’illusione narcisistica di “essere il fallo” che colma la mancanza della madre e dallo spettro del padre che esige una fedeltà senza libertà al passato, egli può accedere all’atto. E’ un insegnamento che trascende il dramma di Amleto per toccare nel più intimo la vita di ciascuno.

 

                                                                       Massimo  Recalcati

 

Articolo pubblicato in “Repubblica”, domenica 20 marzo 2016, p. 56