Belli. Sonetti. Il catechismo all’amatriciana.

Giuseppe Gioacchino Belli blasfemo: “Er catachisimo all’amatraciana”

Un’antologia ragionata dei sonetti del grande poeta romano dedicati alla religione. Un pensatore credente ma perplesso. Dubbioso e fustigatore.

 

Con questo articolo, pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 6 febbraio 2015, il poeta Valerio Magrelli commentava la pubblicazione del saggio di Marcello Teodonio, “Er catachisimo. La riliggione spiegata e indifesa nei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli”, Elliot, pp. 729.

                                                        Gennaro Cucciniello

 

Ormai da tempo la poesia dialettale ottocentesca ha ricevuto il riconoscimento che merita, e nessuno mette in dubbio il valore assoluto del milanese Carlo Porta e del romano Giuseppe Gioacchino Belli. Ciò spiega come collocare un libro come “Er catachisimo. La riliggione spiegata e indifesa nei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli”, a cura di Marcello Teodonio (Elliot, pp. 729, euro 27). Siamo di fronte a un’antologia ragionata e commentata di alcune poesie sul tema della religione. Belli scrisse ben 2279 sonetti, per un totale di 32mila versi, vale a dire più del doppio della “Divina Commedia”. E il paragone non è casuale, visto che il poeta romano fu quasi contemporaneo di Balzac. Ora, se il romanziere francese intitolò l’insieme della sua opera “Commedia umana” (in riferimento a quella dantesca), nessuno come Belli avrebbe avuto diritto a designare così il proprio canzoniere, da cui Teodonio ha estratto molti fra i passi dedicati al cristianesimo.

Belli ci appare subito come un pensatore credente, ma perplesso e dubbioso, “che si muove sul crinale della blasfemia, portavoce di una critica mascherata da umorismo e turpiloquio”. La sua riscrittura del Sacro sale dal basso, rivelando “la denuncia della Chiesa come apparato di potere, la rabbia nei confronti del tradimento dell’imperativo della charitas cristiana, la necessità di recuperare la fede come consolazione grazie alla voce popolare, alle pratiche genuine del sentimento religioso esenti dall’ipocrisia della dottrina strumentalizzata”. Praticando una “verità sfacciata”, i suoi versi suonano implacabili e attuali.

Ostaggio di una nobiltà arrogante e gretta, divisa fra una casta di intoccabili e un popolino condannato a condizioni di vita inaudite, schiacciato da una tirannia senza speranza (“C’era una vorta un Re cche ddar palazzo / mannò fora a li popoli st’editto:/ “Io so io, e vvoi nun zete un cazzo…”), la Roma papalina di inizio Ottocento era infatti preda di una teocrazia che si poggiava su tortura e pena di morte. In una situazione simile, cosa poteva mai pensare di Dio, il nostro poeta? Spiega Teodonio: “Belli credeva e basta”, e tale scelta, allontanandolo dalle conclusioni atee e materialistiche di Leopardi, lo proiettava nel dramma tragicomico della vita e della morte.

Quanto al titolo scelto, il termine “catachisimo” appare volgare, storpiato e difettoso al pari del popolino che l’autore descrisse: “Io ho deliberato di lasciare un monumento a quella che è oggi la plebe di Roma”. Ma l’importanza del vocabolo dipende anche dalla sua assonanza con un altro sostantivo, ossia “cataclisma”, che evoca il caos dell’universo antropologico e teologico in Belli. Insomma, il Catechismo-Cataclisma sta a indicare tutte la stazioni della via crucis che i poveri sudditi del Papa Re erano obbligati a passare: le preghiere, i Dieci Comandamenti, i sette sacramenti, i vizi capitali, le opere di misericordia, le indulgenze. Ma al cuore di questa poetica sta una lacerazione straziante: quella che divide la liturgia esteriore dalla vera fede, l’apparire sociale dall’essere spirituale.

E’ questo, precisa ancora Teodonio, a motivare il cristianesimo rigoroso, intransigente ed inflessibile del poeta romano, con qualche simpatia, più ancora che calvinista, giansenista, sul modello di uno fra i suoi più importanti punti di riferimento, e cioè Alessandro Manzoni. “Comune ai due grandi autori della nostra letteratura è proprio l’affermazione esplicita di come il lato positivo della fede sia rappresentato dalla dimensione umana e popolare della religione, quando cioè la fede si fa consolazione, forza per resistere, presenza quotidiana”. Da qui le violentissime invettive anticlericali di Belli, come quelle che aprono un sonetto datato 1835, “La riliggione der tempo nostro”: “Che rriliggione! È rriliggione questa?/ Tutta quanta oramai la riliggione / conziste in zinfonie, ggenufressione,/ seggni de crosce, fettucce alla vesta”. In tal modo, l’ossessiva (e comodissima) attenzione per le forme serve a dimenticare la vera essenza della parola divina. L’indignazione diventa parossistica, finché, nella terzina conclusiva, la lunga e vuota lista di precetti dà vita a un’autentica bestemmia, sebbene frutto di purissimo amore cristiano. Si tratta di un atto blasfemo, non c’è dubbio, ma non tanto contro la Chiesa, si badi bene, quanto contro coloro che, come accusava Dante, usano la Chiesa per i propri comodi: “E ttratanto er Vangelo, fratel caro,/ tra un diluvio de smorfie e bbell’inchini,/ è un libbro da dà a ppeso ar zalumaro”. Morale della favola: mentre il Papato romano somiglia alla Puttana maledetta da Lutero, i sacri testi vengono usati per incartare prosciutti e mortadelle… Sì, decisamente Belli avrebbe avuto molto da insegnare ai pontefici sotto cui visse.

 

                                                        Valerio Magrelli