Belli. Sonetti. “La benedizione del sabato santo”

“La benedizione der zabbito santo”, 2 aprile 1836

 

Belli, bacchettone impiegato del catasto pontificio, conosceva bene la situazione europea contemporanea e, pur parlandone sempre dall’ottica deformata e stravolta del suo popolano ribelle e biecamente reazionario, prende posizione e giudica (ma col Comico che sta sempre lì, presente e in agguato, a ribaltare ogni giudizio e ogni prospettiva). Il suo nome, inedito e clandestino a Roma e in Italia, una maschera di carnevale e di penombra, è per primo riconosciuto da Sainte-Beuve il quale, a sua volta, lo aveva conosciuto grazie a Gogol: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso più serio del termine (…) Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso”. Quindi, un poeta malinconico e comico, introverso e osceno, che usa il più nobile dei generi poetici, il sonetto, per una materia greve e con una lingua “abietta e buffona”. Nell’Introduzione alla sua Commedia romana Belli aveva scritto che sbaglierebbe chi pensasse che “nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principi miei. Invece io ho ritratto la verità”.

Muscetta sostiene, riprendendo Bachtin e a ragione, che il nostro poeta sia stato un grande autore di “letteratura carnevalizzata”. Nella sua biblioteca trovavano posto quattro autori: Boccaccio, Rabelais, Voltaire, Hoffmann. A Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore nello stesso tempo: in quello Stato pontificio, compagine politica e umana al tramonto, l’allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l’una accanto all’altra, la buffoneria si sposava al tragico. Ne voglio dare due esempi. Il primo è un crescendo rossiniano. Si legga questa terzina del sonetto “Er zucchetto der decan de Rota”, che dice: “Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo”./ E cquello arisponneva: “Indeggno, indeggno” / e cquell’antri: “Dignissimo, degnissimo”. Nel secondo il poeta mette in scena un cardinalaccio in una casa di tolleranza; scoperto, questi proclama: “Io so io e voi nun sète un cazzo”; non è escluso che l’energumeno l’affascinasse più che non suscitasse la sua indignazione.

“Uno dei centri del suo interesse è la presenza ossessiva nella società romana del clero. I preti vivono a diretto contatto con le masse popolari, a volte ne condividono anche le misere condizioni di vita, eppure appartengono comunque ad una specie diversa, a quella società nella società che gestisce il potere, che può aprire o chiudere le porta del Paradiso e che, quindi, ha in mano la sorte degli individui e delle famiglie. Al di sopra di tutti ci sono i vescovi e i cardinali; più in alto ancora il papa”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

La benedizione der Zabbito Santo.  2 aprile 1836

 

E’ venuto, è venuto er zor Curato

A benedì la casa; e de raggione

Me s’è ppreso er papetto che j’ho dato,

Come fussi un acconto de piggione.                                 4

 

Nun zo, pare che un prete conzagrato

A quer papetto o ppavolo o ttestone

Avessi da strillà: “Lei s’è sbajato:

Noi nun vennémo le benedizzione”.                                 8

 

La cosa annerìa bene si noi fossimo

L’acquasantàri; ma li preti, Aggnesa,

Nun zò capaci a ffà un inzurto ar prossimo.                  11

 

Pe quello che sso io, nun c’è memoria

De ste risposte agre; e ppe la Chiesa

Tutti li sarmi finischeno in groria.                                  14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

 

La benedizione del Sabato Santo

 

E’ venuto, è venuto il signor curato a benedire la casa; e ragionevolmente ha preso da me i due paoli che gli ho dato, come se fosse un acconto dell’affitto. Non so, a me sembra che un prete consacrato, ricevendo quei due paoli o un paolo o tre paoli, dovrebbe strillare: “Lei si è sbagliato: noi preti non vendiamo le benedizioni”. La cosa potrebbe andare bene se noi fossimo commercianti di acqua santa; ma i preti, Agnese, non sono capaci di fare un insulto al prossimo. Per quello che so io, non c’è alcuna memoria di queste risposte dure; e per la Chiesa, si sa, tutti i salmi finiscono in gloria, per i preti tutte le operazioni che fanno si concludono con lo spillar denari (il proverbio era nato dall’uso di terminare ogni salmo con la preghiera “Gloria Patri…”).

 

Le quartine.

Nella mia adolescenza facevo il chierichetto e più volte mi è capitato di accompagnare il parroco a benedire le case durante il tempo pasquale. Il mio era un piccolo paese dell’Appennino irpino, le famiglie non erano ricche e ricordo che la ricompensa consisteva soprattutto in uova e qualche spicciolo. Belli scriveva di funzioni liturgiche in una grande città e –da quel che si annota- sembra che il donativo non fosse lieve (come fussi un acconto de piggione, v. 4) e soprattutto fosse obbligatorio. Ma il popolano non ci sta e quasi invoca una ribellione sacerdotale: “Noi nun vennémo le benedizzione” (v. 8), un’eco di impronta luterana.

Le terzine.

Tutto si acqueta nella seconda parte del sonetto. Prima, una notazione sarcastica, (“li preti / nun zò capaci a ffà un inzurto ar prossimo”, vv. 10-11); in ultimo, una conclusione proverbiale sconsolata e liquidatrice.

Il nostro poeta dimostra di possedere quella lieve e autentica capacità di trasformare il comico e il tragico in una forma di verità accettabile, umana, dissacrante, umile e nobile al tempo stesso. Una vena di ironia e un velo di malinconia.

Il 3 aprile, Belli scrive questo sonetto:

 

                                               Er prete

 

Ar momento c’un omo se fa pprete

Sto prete è un omo già santificato;

E quantunque peccassi, er zu’ peccato

Vola via com’un grillo da una rete.                                 4

 

Er dì “ssanto” a chi pporta le pianete

E’ come er carcerà chi è carcerato,

Come scummunicà un scummunicato,

Com’er dì a quattro ladri: in quanti sete?                      8

 

Certe cose la gente ricamata

Nu le capisce, e ffra noantri soli

Se po’ ttrovà la verità sfacciata.                                      11

 

Sortanto da noantri stracciaroli

Se sa chi è un prete. La crasse allevata

Pija sempre li ceci pe ffacioli.                                           14

 

Nel momento nel quale un uomo si fa prete questo prete è un uomo già santificato; e anche se peccasse, il suo peccato vola via come un grillo da una rete. Chiamare santo chi indossa una pianeta è come mettere in carcere uno che è già carcerato, come scomunicare uno già scomunicato, come dire a quattro ladri: in quanti siete? Certe cose la gente altolocata non le capisce, e solo fra noi altri si può trovare la verità aperta, limpida, vera. Soltanto da noi altri stracciaroli si sa chi è un prete. La classe elevata scambia sempre i ceci per fagioli.

 

Nasce così il grande affresco scritto dai popolani di Roma.

                                                                  Gennaro Cucciniello