Belli. Sonetti. La Bibbia romanesca. “Giusepp’abbreo”

Belli. La Bibbia romanesca. “Giusepp’abbreo”.

 

Le poesie di Belli sono quadretti di genere, bozzetti naturalistici, un’infilata di macchiette popolane o sono costruite su una matrice molto più complessa e profonda? In un sonetto il suo popolano è definito “un dottoretto plebeo”: attraverso l’inusuale interprete il poeta rilegge anche le Sacre Scritture, unificando comico e tragico. L’illustrazione colorita e ingenua della Genesi biblica ha tutte le tonalità del comico ma nasce da un sentimento tragico della vita: la comparsa dell’uomo sulla terra sembra un fatto del tutto fortuito e da subito si accompagna a severe proibizioni la cui violazione suona sinistramente fatale. Il realismo è demitizzante e perfino blasfemo. Quella Bibbia tanto raccomandata e idoleggiata dai romantici è letta dal Belli con la spregiudicatezza di Voltaire. Anche se rilegge la Bibbia, il nostro poeta è tutto al di qua, nel mondo dei vivi e del grande apparato ecclesiastico, la monarchia assoluta e per diritto divino con cui ai romani (e oggi agli italiani) tocca convivere, ne scopre anzitutto le umane debolezze, mimetizzate appena dal rosso cardinalizio. Tanti sonetti, che insistono sull’effetto comico del linguaggio plebeo e sull’ingenuità oggettiva del popolano che parla, dissimulano sempre un’ironia di tipo illuministico e approdano ovviamente a risultati sconsacratori.

Momenti ed episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento sono presi come spunto per un gruppo di sonetti nei quali il poeta rappresenta l’interpretazione, da parte dei popolani romani di ciò che si sentiva in chiesa nelle prediche e nelle letture e di quello che ci si raccontava nelle osterie e nelle case: se ne ricava una geniale mescolanza di “alto” e di “basso”, di verità rivelata, di prosopopea pedagogica clericale e d’immediatezza d’immagine del parlare quotidiano.

“C’è un dato stilistico ma anche ideologico: il poeta Belli, il letterato, nel momento in cui descrive la realtà popolare della sua Roma scompare, cede completamente la parola al personaggio che racconta, che descrive, che impreca, dice arguzie o protesta. Non solo i testi sono scritti nella lingua di questi personaggi ma ne riportano in maniera diretta le idee e i sentimenti. Ma rimane un dubbio. In quale misura il poeta mescola la sua voce a quella del personaggio? La rappresentazione è strumento di denuncia d’una realtà degradata o si ferma alle soglie della descrizione realistica di un mondo da cui il poeta si sente comunque estraneo? La risposta a queste domande impegna ancora la critica”.

La tensione verso la rappresentazione realistica spiega anche la sua puntigliosità filologica; l’adesione completa tra poesia e oggetto descritto si concretizza proprio nella lingua che assume caratteri assai vicini a quelli del parlato. “D’altra parte proprio la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che il poeta rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative ma nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona. E la parola esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con cui il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

Giusepp’abbreo           7 settembre 1831

 

In capo a una man-d’anni er zor Peppetto

Addiventato bello granne e grosso,

La su’ padrona, jotta de guazzetto,

J’incominciò a mettéje l’occhi addosso.                           4

 

Ce partiva cor lanzo de l’occhietto,

Sfoderava sospiri cor palosso:

Inzomma, a ffàlla curta, dar giacchetto

Lei voleva la carne senza l’osso.                                      8

 

Ecchete ‘na matina che a sta cicia

Lui j’ebbe da portà cert’acqua calla,

La trova sur zofà ssenza camicia.                                    11

 

Che ffa er cazzaccio! Butta lì la pila;

E a lei che tte l’aggranfia pe ‘na spalla

Lassa in mano la scorza, e marco-sfila!                          14

 

                                               Giuseppe ebreo

Dopo un po’ d’anni il signorino Giuseppe era diventato bello, grande e grosso. La sua padrona, ghiotta del brodo, incominciò a mettergli gli occhi addosso. Cominciava col vezzo dell’occhiolino, sfoderava sospironi: insomma, a farla corta, dal ragazzo lei voleva la carne senza l’osso (metafora del pene). Ecco che una mattina lui ebbe da portare a questa bella donna dell’acqua calda e la trova sul sofà nuda. Che fa il cazzaccio! Butta lì la pentola; e a lei che l’afferra per una spalla lascia in mano la livrea, e fugge!

 

Metro: sonetto (ABAB ABBA, CDC EFE).

 

Le quartine.

Partiamo dalla fonte biblica. E’ Genesi (39, 1-12): “Giuseppe fu menato in Egitto; e Potifar, ufficiale di Faraone, capitano delle guardie, un Egiziano, lo comprò da quegl’Ismaeliti che l’aveano menato quivi. E l’Eterno fu con Giuseppe, il quale prosperava e stava in casa del suo signore, l’Egiziano (…) Giuseppe entrò nelle grazie di lui, e attendeva al servizio personale di Potifar, il quale lo fece maggiordomo della sua casa, e gli mise nelle mani tutto quello che possedeva (…) Or Giuseppe era di presenza avvenente e di bell’aspetto. Dopo queste cose, avvenne che la moglie del signore di Giuseppe gli mise gli occhi addosso, e gli disse: “Giàciti meco”. Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo signore: “Ecco, il mio signore non s’informa da me di nulla ch’è nella casa, e ha messo nelle mie mani tutto quello che ha; egli stesso non è più grande di me in questa casa; e nulla mi ha divietato, tranne che te, perché sei sua moglie. Come dunque potrei io fare questo gran male e peccare contro Dio?”. E bench’ella gliene parlasse ogni giorno, Giuseppe non acconsentì, né a giacersi né a stare con lei. Or avvenne che un giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro; e non c’era quivi alcuno della gente di casa; ed essa lo afferrò per la veste, e gli disse: “Giàciti meco”. Ma egli le lasciò in mano la veste, e fuggì fuori”.

Siamo alle solite. Il nostro poeta si è trasformato in un raccontatore di storie bibliche alle quali dà, se necessario, un tocco di realismo pruriginoso. Il popolano romano non capisce la casta ritrosia di Giuseppe. Infatti, notate la rima in A: “er zor Peppetto; è un bel giacchetto; la su’ padrona è jotta de guazzetto e ce partiva cor lanzo de l’occhietto”. E di rincalzo segue la rima in B: da Giuseppe “addiventato bello granne e grosso” la padrona “voleva la carne senza l’osso”; quindi “j’incominciò a mettéje l’occhi addosso e sfoderava sospiri cor palosso”. I fatti sono serrati in uno stampo narrativo moderno, laconico e incalzante, con un gusto cinematografico dei particolari.

Le terzine.

Ora si avvia l’azione decisiva, e l’Ecchete dà l’intrigante incipit. Nelle strofe è squadernata la scena. Il tempo: ‘na matina; la protagonista: sta cicia si fa trovare sur zofà ssenza camicia, e tte l’aggranfia pe ‘na spalla; il renitente: “j’ebbe da portà cert’acqua calla; che ffa er cazzaccio! Butta lì la pila, lassa in mano la scorza, e marco-sfila!”. D’un botto l’ingenuo, castissimo e religiosissimo giovinetto biblico è trasformato in uno stupido impotente. Il racconto della “Genesi” è sintetico e impersonale; i versi del Belli, soprattutto quel “la trova sur zofà senza camicia”, danno con immediatezza forte evidenza alla narrazione che acquista così grande vigore teatrale. Roma, città plebea, è fatta di gente comune che non ha soldi e ne cerca, che è subalterna e insieme violenta, che non ha il privilegio immateriale della buona cultura(come si direbbe oggi), e che vuole sghignazzare anche con le letture della Bibbia.

 

Nello stesso giorno, sempre a Morrovalle, Belli aveva scritto la prima parte della storia di Giuseppe, quella del tradimento dei fratelli.

 

Certi mercanti, doppo ditto: aèo,

Se sentinno chiamà drento d’un pozzo.

Uno ce curze all’orlo cor barbozzo,

E vedde move, e intese un piagnisteo.                             4

 

“Cazzo! qui c’è un pivetto, pe ssan Gneo,

Come un merluzzo a mollo inzino ar gozzo!”

Caleno un zecchio: e ssù, fracico e zozzo,

Azzéchece chi viè? Giusepp’abbreo.                                 8

 

L’asciutteno a la mejo cor un panno,

Je muteno carzoni e camiciola,

E ppoi je danno da spanà, je danno.                                11

 

E doppo, in cammio de portallo a scòla,

Lo vennérno in Egitto in contrabbando

Per quattro stracci e un rotolo de sòla.                          14

 

Alcuni mercanti, dopo aver detto: aèo (era il grido a Roma degli ebrei che compravano robe vecchie), si sentirono chiamare da dentro un pozzo. Uno di loro ci corse, si affacciò sull’orlo con il mento, vide muoversi qualcosa e sentì un piagnisteo. “Cazzo! qui c’è un ragazzetto, per san Gneo (a Roma era un santo inesistente, come Santa Pupa: quindi si potevano bestemmiare impunemente). Calano un secchio: e su, fradicio e sporco, indovina chi viene? Giuseppe ebreo. L’asciugano alla meglio con un panno, gli cambiano i calzoni e la camiciola, e poi gli danno da mangiare, gli danno. E dopo, invece di portarlo a scuola, lo vendettero in terra d’Egitto, di contrabbando, per quattro stracci e un rotolo di cuoio (come a dire: per un pezzo di pane).

 

                                                                  Gennaro  Cucciniello