César Vallejo (1892-1938), “Pietra nera su una pietra bianca”, 1934-’36

César Vallejo (1892-1938), “Pietra nera su una pietra bianca”, 1934-36

 

Morirò a Parigi sotto un acquazzone,

in un giorno di cui già mi ricordo.

Morirò a Parigi –e non esagero-

forse un giovedì, com’è oggi, d’autunno.                                        4

 

Giovedì: perché oggi, giovedì, che butto giù

questi versi, le spalle han cominciato

a dolermi, e mai come oggi son tornato

con tutta la mia strada, a vedermi solo.                                           8

 

César Vallejo è morto, lo picchiavano

tutti senza che lui gli faccia niente;

lo menavano duro col bastone, e duro                                             11

 

anche con una corda; ne son testimoni

i giorni giovedì e le ossa delle spalle,

la solitudine, la pioggia, le strade…                                                   14

 

                                   Piedra negra sobre una piedra blanca

 

Me moriré en Paris con aguacero,

un dìa del qual tengo ya el recuerdo.

Me moriré en Paris –y no me corro-

tal vez un jueves, como es hoy, de otono.                                       4

 

Jueves serà, porque hoy, jueves, que proso

estos versos, los hùmeros me he puesto

a la mala y, jamàa como hoy, me he vuelto,

con todo mi camino, a verme solo.                                                    8

 

César Vallejo ha muerto, le pegaban

todos sin que él les haga nada;

le daban duro con un palo y duro                                                      11

 

también con una soga; son testigos

los dìas jueves y los huesos hùmeros,

la soledad, la lluvia, los caminos…                                                      14

 

E’ una delle poesie più tristi che mi sia mai capitato di leggere; soprattutto perché l’autocommiserazione non sembra particolarmente nevrotica. Vallejo era uno tosto e al tempo di questa poesia (passati i 40 anni) ne aveva veramente viste di tutti i colori. Nato in un paesino della cordigliera peruviana a più di tremila metri di altitudine, da una famiglia povera, aveva cercato di studiare medicina ma si era poi impiegato in una hacienda di canna da zucchero, dove i peones lavoravano in uno stato di semi-schiavitù. Ripresi gli studi e laureatosi in lettere, aveva conosciuto a Lima un po’ di bohème ed era diventato direttore di collegio; tornato al paese per una vacanza, s’era trovato a far da paciere in una lite e per un equivoco giudiziario s’era beccato 4 mesi di galera. Perso l’impiego, era vissuto di stenti finché a 31 anni s’era imbarcato per l’Europa. Parigi, quasi sempre: ma 3 viaggi in Unione Sovietica dopo l’adesione al marxismo e 2 soggiorni in Spagna –il secondo per partecipare direttamente alla guerra civile. Morirà a 46 anni, 3 o 4 dopo questa poesia, per un’antica malaria mai veramente curata –a Parigi, ma era un venerdì di primavera.

Quando scrive “con todo mi camino” (v. 8) si riferisce alle peripezie biografiche ma anche ai cambiamenti culturali:  suoi esordi poetici erano stati quelli di un provinciale che vuole stupire con l’aggiornamento, tra i letterati peruviani s’era segnalato per la sua adesione alle avanguardie europee, all’ultraismo spagnolo e più in generale al modernismo, con sfoggio di metafore audaci e di quello che più tardi chiamerà “il solletico verbale”. Qui invece, ed è la cosa che commuove di più, il sonetto si costruisce con un linguaggio semplice, parlato, perfino con qualche pesantezza ritmica e sintattica (e una bella zeppa al terzo verso, y no me corro). Gli endecasillabi sono del tipo che si chiama “rasoterra”, cioè vicinissimi alla prosa, quasi ritagliati casualmente dal discorso comune (César Vallejo ha muerto, le pegaban, v. 9); le partizioni classiche del sonetto rimangono ma le rime sono sparite. Lui stesso scrive (utilizzando un sud-americanismo ispirato al portoghese) “proso estos versos”, vv. 5-6: suggerendo con un ossimoro che i suoi versi sono più prosa che poesia.

E’ un atteggiamento autoironico che ricorda i crepuscolari, sia italiani che francesi; come pure è crepuscolare il vezzo di nominarsi con nome e cognome in terza persona, e l’attenzione piccina ai giorni della settimana come segno di monotonia malinconica. Ma in lui permane la serietà del montanaro e del comunista che ha sperimentato davvero nelle proprie ossa la fatica e l’ingiustizia; l’uomo che vedeva con sospetto il rivoluzionarismo clamoroso dei surrealisti, e per cui il marxismo ha sempre significato soddisfazione dei bisogni primari, condivisione materiale delle disgrazie, discesa dell’anima al piano inferiore del corpo. In quell’insistenza sul giovedì, come non leggere la solitudine dell’emigrato per cui i giorni non passano mai? Altrove scrive che gli “fanno male i capelli” pensando ai “siglos semanales”, le settimane che durano un secolo… Il dolore è corporeo, umile come possono essere i reumatismi: solitudine e umidità fanno una cosa sola, il risentimento alle spalle richiama le bastonate (simboliche ma anche reali) che ha preso nella vita. Rivendica la propria innocenza e piagnucola elencando le botte (con un bastone, ma anche con una corda…), come un bambino che si lamenti con la madre –la madre che per lui è sempre stata l’altare del natio villaggio inca, la religione della patria lontana. (E forse da un’abitudine funeraria andina, di mettere una pietra sul sepolcro, deriva il titolo misterioso, solenne e testamentario).

E’ una poesia triste, ma per niente disperata. In altri versi quasi contemporanei Vallejo scrive: “La vita mi piace enormemente / però con la mia amata morte e il mio caffè / guardando i castagni frondosi di Parigi”. La proiezione della propria morte (così vivida che già la si può ricordare come qualcosa di accaduto) fa parte intrinseca della vita e dei suoi bilanci; certo a Parigi si è soli, certo in Spagna le cose stanno andando male –ma a Parigi ci è pur arrivato e a Parigi anche gli acquazzoni hanno il loro fascino; negli ultimi due versi l’enumerazione di soggetti eterogenei, convocati a testimoniare l’infelicità, forma una litania lessicale che somiglia a una processione di supplicanti o a un corteo di diseredati. Con l’artificio delle terzine di guardarsi da fuori, Vallejo si stacca da sé, conferisce alla tristezza uno spessore generale. “Mi camino”, v. 8, patrimonio privato, diventa “los caminos”, v. 14, strade plurali. “Non soffro”, dice altrove, “in quanto César Vallejo… il mio dolore è come le uova neutre che certi uccelli rari depongono nel vento”. La delusione sua si fa delusione di un’epoca. Letteralmente “los hùmeros me he puesto a la mala”, vv. 6-7, potrebbe essere tradotto con “ho indossato le spalle malamente”: l’uomo che diventa automa, disarticolato –semplice sì, ma mai rinunciando alla ricerca espressiva, al vecchio proposito di “trasferire in poesia l’estetica di Picasso”. Verità ottenuta con onestà di mezzi: César Vallejo è morto, ma non molla.

 

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 6 aprile 2014, p. 52