Cronologia della repubblica giacobina napoletana. 24° puntata. 1-9 giugno 1799. “Continua inarrestabile la marcia dell’armata di Ruffo. Perché è nata la Repubblica napoletana? Fabrizio Ruffo, gentiluomo, cardinale, capobanda”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Ventiquattresima puntata. 1–9  Giugno 1799. “Gli ultimi fuochi. Continua inarrestabile la marcia dell’armata di Ruffo. Ma perché è nata la Repubblica napoletana? Fabrizio Ruffo: cardinale, gentiluomo, capobanda. Esce l’ultimo numero del “Monitore Repubblicano”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

1 Giugno. Sabato. Napoli. Gli ultimi fuochi. Tre leggi si sono publicate quest’oggi. Una perché i Baroni ed ex nobili siano responsabili di quanto accade nei loro ex feudi, o per causa dei loro agenti. Un’altra per gli emigrati colla Corte, che si dichiarano nemici della Patria, se ne confiscano i beni e se gli minaccia la pena di morte tornando. Per gli usciti con passaporto, per quei che trovansi impiegati in Sicilia e per quei che fossero in altri luoghi dell’Italia, se gli ordina di ritornare fra tre mesi sotto la stessa pena della confiscazione. La terza è per i beni degli insorgenti, metà dei quali si aggiudicano a coloro che li combattono, metà ad indennizzare quei che avessero patito saccheggio dagl’insorgenti medesimi. Si è publicata la notizia di una disfatta data agli Austro-Russi i giorni 11 e 12 maggio, nel voler passare il Po. Si parla della perdita di circa 2mila Russi fra morti, feriti, prigionieri ed annegati nel Po. Per queste segnalate vittorie si è dal Ministro di Polizia Pigliacelli ordinata l’illuminazione ad olio, mentre olio non ve n’è, e dispensasi a picciola quantità, e non sempre. Al Teatro del Fondo per domani la sera, cantata, Inno patriottico, e ballo analogo: a S. Carlo gran festa da ballo. Si crederebbe? Mentre si annunziano tali feste, e si fa illuminazione, Napoli è stretta dagli insorgenti, è vicina ad una rivoluzione, e se non altro, ad essere affamata. Più oggi stesso è venuta fuggendo il residuo di una colonna di truppa partita ieri (…) Napoli è stretta da tutti i lati, ed a momenti per sentirsi scoppiare la insurrezione anco in Napoli; ed il Governo fa fare illuminazione e feste di ballo” (De Nicola, pp. 204-5).

La protesta di Eleonora Pimentel contro la legge sul sequestro dei beni degli insorgenti. Scriveva sul “Monitore”: “Sia permesso riflettere che questa legge, assai diversa da quella che aveva domandata la Sala patriottica, nella maniera onde si truova compilata, contiene una parte ingiusta, un’altra che potrebbe essere illusoria. Questa legge mette l’interesse della Repubblica, che è di distinguere esattamente il pacato Cittadino dall’insurgente in contrapposizione coll’interesse della truppa: la quale per assicurar ed accrescere il suo premio è obbligata a desiderare insorgenti da per tutto, ed il Generale per contentar la truppa fosse obbligato a trovarne di fatto. Promuove in materia così delicata un giudizio tumultuario, qual è quello, che può dare un Generale trascinato dall’azione velocemente da un luogo ad un altro, e nella necessità di non disgustarsi i suoi non soldati ma volontari commilitoni. E’ questa legge dunque quasi un’intimazione di guerra, e condanna anticipata dei privati benestanti cittadini delle Comuni rivoltose, i quali, ognun sa, che formano sempre la classe pacifica, e vorrebbero, ma non possono slanciarsi verso la Repubblica per tema degli insorgenti, quasi tutti, se se n’eccettuano pochi prepotenti, o ex-nobili, o gente che nulla possiede, e fa dell’insurgenza il pretesto della rapina” (Croce, “La rivoluzione napoletana…”, pp. 52-3).

Ischia, Procida. Comincia la vendetta controrivoluzionaria. “Trovano la morte sul patibolo tredici patrioti locali condannati da un tribunale di guerra borbonico” (Sani, pp. 49-50).

Ascoli Satriano. Il cardinale Ruffo persiste nella sua politica di clemenza. Dal suo quartier generale pubblica un editto “col quale accorda un generale perdono ai traviati, purché rientrino nel loro dovere deponendo le armi se sono delle milizie civiche, e ripigliando il servizio militare sotto il comando dei Reali eserciti coloro che militari erano. Proibisce in conseguenza di ciò d’insultare, molestare, ed offendere con fatti e con parole coloro che, all’addietro ribelli, profittassero poi del perdono, minaccia pene rigorose a chi resiste” (De Nicola, p. 239).

2 Giugno. Domenica. Napoli. Accerchiamento totale della città da parte degli insorgenti. Si procede ad arresti di ex nobili.

Ponte Bovino. Il card. Ruffo arriva in questa località. Continua inarrestabile la marcia dell’armata sanfedista.

Palermo. La regina Carolina scrive a Ruffo: “A Napoli hanno un indicibile timore, i pochi capi furfanti fanno regnare un sommo terrorismo; per intimidire si fucila, carcera e condanna senza fine. MacDonald non solo è partito da Napoli ma, avendo intercettato la valigia da Roma a Napoli, sappiamo anche che è partito da Roma. A Napoli non ve ne sono più che qualche centinaio a S. Elmo, e si sa che hanno ordine dai loro generali al comparire truppa di linea di capitolare e rendersi, per essere cogli onori militari trasportati a Tolone, portando con loro un centinaio dei più feroci giacobini; ma che se il popolo con una emozione popolare gli attacca, hanno l’ordine di difendersi a tutto sangue. Le fortificazioni nella passeggiata e riviera di Chiaia le hanno levate temendo che il popolo se ne impadronisse contro di loro: in somma, sono tutto timore. E sulla clemenza?- Io per il principio di clemenza non so cambiarmi: credo fermamente che Napoli l’avremo e presto, e credo per indubitato che l’allontanamento e la deportazione di qualche migliaio di persone non renderà più vittorioso il nemico, non infeliciterà il regno, e ci darà una solida tranquillità. Vedo ora molte cose, come si è disciolta l’armata, levata la forza al re, chiamato il nemico e tante altre iniquità. Il popolo è stato ed è fedele al re, ma le classi alte si sono indegnamente condotte; si sono persi loro ed hanno persi noi, né è cosa mai e poi mai da potersi dimenticare. I Francesi, stizziti della fedeltà del popolo e di non aver potuto ora riuscire loro stessi, contano tutto e dicono chi gli ha ingannati e chiamati, ed è un’orribile cosa a sentire. Non dubito più punto del pronto ritorno del regno: il modo come governarlo e riordinarlo mi fa timore” (Croce, pp. 213-4).

3 Giugno. Lunedì. Napoli. E’ nominata una “Commissione rivoluzionaria” di cinque membri.

La strategia militare sbagliata di Manthoné. “Il generale Manthoné appronta il piano militare per la difesa di Napoli. Stimando sufficienti i 10mila uomini circa a sua disposizione per opporsi con successo agli attacchi delle bande nemiche, Manthoné decide di rigettare il progetto del colonnello Girardon, comandante la guarnigione francese di Capua, tendente alla creazione di un’unica linea difensiva franco-napoletana lungo il Volturno in direzione di Gaeta. La forza d’urto repubblicana, dispersa così in sei colonne, viene lanciata contro gli uomini di Mammone e Fra Diavolo a nord-est e contro quelli di Ruffo, Sciarpa e De Cesare a sud-est, per cercare di spezzare l’ormai prossimo accerchiamento della città. I risultati dell’operazione sono catastrofici. Ormai l’accerchiamento di Napoli è cosa fatta” (Sani, p. 50).

Si pone una questione cruciale. “Cerchiamo di rispondere ad una domanda: perché è nata la Repubblica napoletana? A prima vista sembrerebbe che si sia trattato di un episodio casuale dovuto agli errori dei borbonici e alla fortuna dei francesi nella guerra rovinosa del 1798. Ma in realtà operarono, nel profondo, esigenze potenti. In primo luogo il bisogno di riforme, che era latente in tutti gli strati della società meridionale e che dalla fase dei discorsi critici era passata, sia pure lentamente e timorosamente, a quella delle realizzazioni. Nella seconda metà del ‘700 leggi e provvedimenti avevano iniziato, nel Meridione, lo sgretolamento del regime feudale: questo fatto non poteva non  dar luogo a nuove, incontrollabili, contrastanti reazioni. Altro elemento importante è che la Corte e l’ambiente che la circondava si erano resi conto che la struttura monarchica scricchiolava da ogni parte. Due documenti sono fondamentali, a mio avviso: l’abulico diario del re che ignora del tutto i problemi della Corona e si preoccupa solo della sua persona, e la difesa fanatica della monarchia (o, meglio, del principio monarchico) che fin da questo periodo, e per tutta la vita, fece il principe di Canosa. Le vicende napoletane del ’99 ebbero influenza prevalentemente nell’ambito del Regno di Napoli. Al di fuori fu facile una sorta di deformazione ottica che travolse e sconvolse tutti i dati reali dell’episodio. Così, ad esempio, i francesi assursero ad un ruolo di primo piano ed i giacobini non furono giudicati per le loro idee e le loro realizzazioni, ma per il loro martirio. Fu dunque la cieca vendetta del re e di Nelson a creare un larghissimo moto di passioni e di sdegni nel quale si accomunarono uomini delle più diverse provenienze. Ma anche se non si tradussero in concreta pratica di governo, gli ideali dei giacobini meridionali fecero balenare agli italiani un ideale di vita moderna. Dalla meditazione dei fatti del ’99 sorse un momento di riflessione critica che anticipò la problematica risorgimentale” (Battaglini, pp. 32-3).

Ariano Irpino. Il cardinale Ruffo arriva in questa località del Principato Ultra.

4 Giugno. Martedì. Napoli. “In un clima di estremo conflitto politico e istituzionale, il Governo Provvisorio rafforza e rende più drastiche le norme repressive già in vigore per la tutela dell’ordine pubblico. La Commissione Rivoluzionaria, controllata da un commissario della Commissione Esecutiva, ha il compito di “giudicare sull’istante, senza appello o altro gravame, tutti i rei di Stato o che siano cospiratori o che abbiano avuta criminosa corrispondenza cogli insorgenti e nemici della Patria”. Sessantotto saranno alla fine i borbonici uccisi e trentadue quelli condannati a vari anni di reclusione” (Sani, p. 49).

Combattimenti a Torre Annunziata, Afragola, Casoria, Ponticelli, Capodichino.

Un’analisi della “Costituzione della Repubblica”, progettata e mai emanata. “Le prime grandi costituzioni moderne, quella americana del 1787 e quella –anzi, quelle, del 1793 e del 1795- francese sono successive a grandi trasformazioni politiche, rappresentano la nuova realtà determinatasi ma indicano anche quali sono, nelle grandi e fondamentali linee, le condizioni di sviluppo etico e politico della società. Le costituzioni americana e francese contengono valori essenziali comuni ma anche profonde differenze. Naturalmente, la costituzione francese diventa ben presto il modello più seguito nei vari tentativi di rivoluzione nei paesi d’Europa. La costituzione della repubblica napoletana non venne effettivamente emanata. A causa dei drammatici eventi che conclusero la breve vita dell’esperienza, a noi rimane soltanto allo stato di progetto, elaborato tra il febbraio e il maggio dell’anno rivoluzionario, dal Comitato di legislazione, ma in notevolissima parte ispirato e redatto dal più insigne dei giuristi presenti nel Comitato, l’avvocato Francesco Mario Pagano. Innegabile, e del resto del tutto scontata, è l’ispirazione alla costituzione francese –ma quella del 25 agosto 1795- e tuttavia con specificità che ne contrassegnano l’originalità. Il malinconico più celebrato storico di quell’intensa e tragica stagione, Vincenzo Cuoco, trova il progetto di costituzione “troppo francese e troppo poco napoletano”. L’autore del Saggio storico dichiara grande stima per Pagano ma considera il suo progetto astratto, viziato da un eccesso di razionalismo. “L’architetto è buono ma la materia del suo edificio non è che creta”, afferma, e la creta altro non è, secondo Cuoco, che l’astrusa metafisica francese. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che –in analogia con quella posta all’inizio della costituzione francese- precede il progetto della costituzione del ’99, si motiva esplicitamente la funzione e la fonte della costituzione, all’articolo 13: “Il fondamentale diritto del Popolo è quello di stabilirsi una libera Costituzione, cioè di prescriversi le regole, colle quali vuol vivere in corpo politico”. La differenza principale dal modello francese è che qui viene posto in primo piano assoluto il valore dell’eguaglianza; mentre la Dichiarazione francese elencava tra i diritti dell’uomo, accanto all’eguaglianza, la libertà, la sicurezza e la proprietà. Si tratta, secondo un principio classico dell’illuminismo giuridico, dell’eguaglianza non in senso sociale –e tantomeno naturale- ma intesa come eguaglianza di fronte al diritto. La Dichiarazione della costituzione del ’99 struttura su questa base l’intero suo edificio, e anche in questo caso in modo originale. Si susseguono, quasi in contrappunto, sezioni di articolo che trattano diritti dell’uomo, del cittadino, del popolo; quindi doveri dell’uomo, del cittadino, dei pubblici funzionari. Nel progetto si trovano altre rilevanti originalità. L’affermazione esplicita del diritto di resistenza all’oppressione, presente in quella francese del 1793, ma non in quella del ’95; forse ricordo del XXIII dei Capitoli, una sorta di costituzione della rivoluzione masanelliana del 1647. Pagano attribuiva a Gravina, prima che ai filosofi francesi, la primogenitura delle idee filosofiche che erano a fondamento della sua costruzione. Rivendicando un’originalità del pensiero italiano, ma anche confermando il suo stesso specifico e particolare contributo ad una tradizione, quella illuministica, che ha comunque un grande quadro di riferimento comune” (V. Dini, p. 2).

5 Giugno. Mercoledì. Napoli. Eleonora Pimentel non tace le dolorose verità. Sul “Monitore” scrive: “Ha questa Centrale sofferto in questi giorni una di quelle scosse, che richiamando, o ravvivando l’attenzione di tutti i Cittadini alla pubblica bisogna, rettifica i consigli, esercita la vigilanza, accresce ed accelera l’azione, fa che l’uomo cerchi e sviluppi tutti i suoi mezzi, e divien madre del vigor politico e morale dello Stato. Dispera, e quindi svanita la speranza nella divisione di Matera, ritirata con danno la divisione di Spanò, riuscita infausta la spedizione di Belpulsi, spento in attacchi ineguali, o rimasto dovunque vittima dell’assassinio degli insorgenti il fiore della gioventù repubblicana, sbarcato un qualunque numero degli assassini del tiranno in Puglia, e con insensibile incremento invasi tutti i dipartimenti, ed approssimata l’insurrezione alla Centrale, l’insieme di tuttociò produsse sabbato a sera nella Sala patriotica straordinaria effervescenza” (Croce, “La Rivoluzione del ‘99”, pp. 65-6).

6 Giugno. Giovedì. Fabrizio Ruffo. Cardinale, gentiluomo, capobanda “Si sa molto della cultura e della politica della Restaurazione, cioè del periodo della storia d’Europa che comincia nel 1815, dopo la caduta di Napoleone; ma non si conoscono altrettanto bene le persone e i fatti di quel formicolante e impaurito universo della controrivoluzione di fine ‘700 che vide accomunati, dietro barricate ideali, contadini inselvatichiti, preti ignoranti, vescovi fulminanti scomuniche, raffinati scrittori à la De Maistre, statisti e politologi del livello di Edmund Burke. Ma una scheggia inferocita di questo plurale e drammatico mondo colpì il nostro paese e in particolare l’Italia meridionale, lasciandovi una ferita mai più rimarginata. Accadde nell’inverno-primavera del 1799, quando un cardinale di estrazione aristocratica, Fabrizio Ruffo, si mise alla testa di un’armata raccogliticcia per far tornare sul trono Ferdinando di Borbone, fuggito in Sicilia poco prima della proclamazione a Napoli della repubblica giacobina. Nessun titolo particolare aveva Ruffo per organizzare questa armata cristianissima (come si autodefinì), se non quello di essere appunto un cardinale e di difendere, perciò, insieme al trono borbonico, la Santa Fede minacciata dai rivoluzionari e dagli illuministi che, a Napoli come a Roma, avevano alzato le insegne della libertà (…) La ventata rivoluzionaria degli anni ’90, la vittoria in Italia –nel 1798- delle armate repubblicane francesi, la partecipazione alla causa rivoluzionaria di quasi tutta l’intellighenzia napoletana, la fuga della Corte a Palermo sotto la protezione della flotta inglese di Nelson, convinsero il cardinale della necessità di dare una risposta ai sovvertitori dell’ordine politico e della religione (anche Roma era nel frattempo diventata una repubblica e il papa era stato deposto). Chi meglio di un cardinale aristocratico avrebbe potuto impugnare la spada di una doppia vendetta? Anche Villari cede ai luoghi comuni. Vestiti così i panni di gran giustiziere della storia, Ruffo sbarcò in Calabria con un pugno di accoliti e radunò in breve tempo una banda di criminali comuni, di contadini e di pastori, aizzandoli a fare giustizia sommaria dei giacobini, degli intellettuali e dei borghesi rivoluzionari che, in numerose località, avevano piantato l’albero della libertà, costituendo oneste e umane amministrazioni repubblicane. Queste plebi sanfediste, eccitate come belve alla difesa della religione e del re, lasciarono una scia sanguinosa sul loro cammino verso Napoli, compiendo agli ordini del cardinale ogni efferatezza e colpendo al cuore l’immagine che i repubblicani avevano dato della loro rivoluzione come di un evento eminentemente popolare. Le bande della Santa Fede erano infatti la prova che il popolo, che proprio le classi più umili odiavano ferocemente il nuovo regime. E sarebbe stato sufficiente solo questo a destabilizzare politicamente e psicologicamente il governo rivoluzionario napoletano (…) Durò poco più di quattro mesi questa crudele avanzata; alla fine anche Napoli fu vinta e i vincitori cominciarono a organizzare e a pianificare la vendetta sanfedista nel cuore stesso della rivoluzione. La rievocazione romanzesca. E come uomo soddisfatto e sicuro di sé appare il nostro cardinale, almeno inizialmente, nel romanzo che Peter Nichols, suggestionato da questo singolare personaggio, ha scritto qualche anno fa e che poi ha visto la luce in Italia con un titolo quanto mai appropriato: “Rosso cardinale” (Editori Riuniti). Nichols ha scelto il metodo narrativo migliore per aggredire il protagonista di questa tragedia della storia italiana: lo fa raccontare da un testimone che per una serie di circostanze gli sta vicino durante la sua marcia su Napoli. La dimestichezza tra i due dura appena un mese (il marzo 1799) e tanto basta perché il testimone riceva, vedendo Ruffo in azione e dialogando con lui, un grande turbamento. Dirà infatti Giovanni a un repubblicano troppo entusiasta: “Voi siete la versione giovanile di Ruffo”. Il romanzo è dunque una visione laterale, ma efficace, dei problemi storici della reazione sanfedista. Il libro è immaginato come memorie scritte nel 1829 (due anni dopo la morte di Ruffo) da un signore di una certa età che, all’epoca dei fatti, era un giovane borghese illuminato, sì, ma senza grilli rivoluzionari per il capo. Un napoletano, di nome Giovanni, che vive con la moglie in un paese vicino Catanzaro. E’ un borghese colto e intelligente l’io narrante del romanzo, sul quale, attraverso la storia di Ruffo e della sua guerra privata nel nome del Trono e dell’Altare, si ripercuote la presa di coscienza degli errori di quanti credono nella violenza come traguardo inevitabile della storia. Lo stesso Ruffo giungerà stanco alla vittoria, dato che neppure il Male può nutrirsi soltanto di se stesso. A Napoli il suo trionfo si trasforma subito in sconfitta. Al di sopra del cardinale non c’è solo Dio. C’è Nelson, di lui più risoluto, spietato, forte. Ruffo vorrebbe salvare Caracciolo. Nelson lo impiccherà. Si può allora, a un certo punto, fermare il Male? Nichols non risponde, ma Giovanni conclude i suoi ricordi in una specie di sogno annebbiato che lo fa riaffiorare sulla piazza di Maida, nel pieno dell’avanzata sanfedista. E qui gli appare, sotto la pioggia torrenziale, Ruffo, bagnato fradicio, stanco, con un’aria strana; da vecchio, non da eroe come mi ero aspettato. La notte comincia, ancora una volta” (Lucio Villari, articolo di “La Repubblica”).

7 Giugno. Venerdì. Napoli. Un’acuta e ancora attuale analisi storica. Altra via, in verità, non si offriva alla classe intellettuale di Napoli, di fronte alla rivoluzione di Francia, se non quella che essa effettivamente seguì. Gli illuministi del monarcato assoluto dovevano rinnovarsi, come nel fatto si rinnovarono, in giacobini. Si rinnovarono così tutti, salvo rarissime eccezioni; e, guardandoli come in gruppo, si osserva la stessa varia composizione sociale che già si è vista nella formazione della classe politica dell’età precedente: borghesia, aristocrazia, alto clero. Erano tra essi le legioni dei seguaci del Giannone e degli scolari del Genovesi, gli scienziati e letterati ed economisti di Napoli, i giovani e i provetti: il Pagano, il Cirillo, il Signorelli, il Lauberg, l’Odazi, Eleonora de Fonseca, il Baffi, il Salfi, il Galdi, il Russo, il Visconti: c’era anche, tra parecchi rimatori, un forte e gentile poeta, il poeta di quel nuovo sentimento, Ignazio Ciaia. Mancava il Filangieri, che era morto alcuni anni innanzi; ma tra i giacobini comparvero la sorella di lui e la vedova coi due giovinetti figliuoli. Numerosi particolarmente gli studenti dell’università, e più ancora delle scuole private, dove maggiore era la libertà degli spiriti; e, per mezzo degli studenti, le file di quelle società si allungavano nelle provincie. Tra i più fervidi, frati, sacerdoti, vescovi, anch’essi quasi tutti noti in iscienza e letteratura; il Conforti, il Serao, il Troisi, il Natale, lo Scotti, il Falconieri, il Caputo, il Cestari, il Grimaldi, il Monticelli. L’aristocrazia napoletana vi rifulgeva coi nomi delle sue più antiche famiglie, Carafa e Caracciolo e Pignatelli e Filomarino, e poi ancora coi Riario, i De Marini, i Serra, i Doria. Ma questa classe politica formava essa stessa un’aristocrazia, quella reale, dell’intelletto e dell’animo; e così logicamente tenne in Napoli le parti di una vera noblesse, che, se in Francia, più tardi, divenne segno aristocratico aver avuto un parente morto sulla ghigliottina nel periodo del terrore giacobino, a Napoli, contemporaneamente e all’inverso, fu titolo di ammissione nella buona società l’essere stato perseguitato, o aver avuto un congiunto ucciso o perseguitato per “giacobino” (…) Quei giacobini napoletani, uniti coi loro fratelli di tutta Italia, trapiantarono in Italia l’ideale della libertà secondo i tempi nuovi, come governo della classe colta e capace, intellettualmente ed economicamente operosa, per mezzo delle assemblee legislative, uscenti da più o meno larghe elezioni popolari; e, nell’atto stesso, abbatterono le barriere che tenevano separate le varie regioni d’Italia, specialmente la meridionale dalla settentrionale, e formarono il comune sentimento della nazionalità italiana, fondandolo non più, come prima, sulla comune lingua e letteratura e sulle comuni memorie di Roma, ma sopra un sentimento politico comune” (Croce, “Storia del Regno..”, pp. 237-8).

8 Giugno. Sabato. Napoli. Lettera del generale francese Méjan, comandante di Castel Sant’Elmo, che esorta i napoletani alla resistenza.

Ultimo numero del “Monitore”. Questo numero del giornale, dopo una serqua di notizie fantastiche sulle battaglie che si combattevano nell’alta Italia, e sulle scaramucce con gli insorgenti, termina con la nota frettolosa: “Giungono notizie più circostanziate, che daremo nel foglio seguente…” Furono queste le ultime parole, fu questo l’ultimo numero del Monitore napoletano. Ruffo era già alle porte di Napoli, e cinque giorni dopo la lotta era decisa: il giornale dové cessare le sue pubblicazioni; o se qualche altro numero fu pubblicato, bisogna credere che andasse perduto” (Croce, “Rivoluzione del ‘99”, p. 66).

9 Giugno. Domenica. Ancora sul romanzo di Peter Nichols: il cardinale Ruffo, sanfedista e rivoluzionario. “Cinque o sei riflessioni su un breve romanzo, “Rosso cardinale”. La storia. Intorno al 1820 circa un uomo anziano, afflitto da una grave infermità del corpo e dello spirito (conseguenza di una ferita al cranio) rivive fra veglia e sogno il suo burrascoso passato. Tanti anni prima, nel gennaio del 1799, l’uomo (di cui verso la fine sapremo il nome di battesimo: Giovanni) è inviato dai notabili di Catanzaro incontro al cardinale Fabrizio Ruffo, vicario generale del re di Napoli Ferdinando IV, fuggiasco a Palermo. Sbarcato in Calabria, Ruffo si accinge a riconquistare il regno alla testa di un esercito di vagabondi, avanzi di galera, ladri, tagliaborse, ma soprattutto contadini mobilitati intorno alla Croce e alla Fede. Bisogna persuadere Sua Eminenza ad essere clemente, a non permettere che i suoi uomini si abbandonino a rappresaglie, violenze e saccheggi. (Ma è davvero solo questo l’incarico? Non ci sarà dell’altro, non detto, insinuato, suggerito? Spionaggio? Assassinio politico?). Inspiegabilmente (impercettibilmente), l’ambasciatore dei nobili illuminati e dei borghesi repubblicani si trasforma nell’emissario di Ruffo, per il quale tuttavia nutre (o afferma di nutrire) soltanto odio e disprezzo. In superficie, la differenza non è molta. Si tratta pur sempre non di sparare, bensì di mediare accordi, compromessi, capitolazioni onorevoli. Ma il graduale (involontario?) passaggio da un campo all’altro lascerà tracce profonde, piaghe che non si rimargineranno più. Per un beffardo gioco del destino (uno scambio di cavalli, una pistola che s’inceppa) Giovanni salverà la vita di Ruffo due volte. E tutte le sue missioni di pace risulteranno inutili. Alle città riconquistate non saranno risparmiati gli orrori abituali: il ferro, il fuoco, il capestro, lo stupro (…) Al mediatore fallito non sarà concessa che una lenta discesa verso la morte, in una camera troppo assolata, fra lenzuola di lino, e le cure devote, ma forse non abbastanza amorose, di una moglie dal pallido, ironico, indecifrabile sorriso. Giovanni è il rappresentante di un ceto di galantuomini più o meno agiati, colti, aperti al nuovo, imbevuti di testi di Voltaire, Diderot, Rousseau e compagnia, animati da molte buone intenzioni ma astratti, velleitari, senza alcun solido rapporto con le masse. E’ Ruffo, il reazionario, a capire “il popolo” e a interpretarne i bisogni, magari limitati, rozzi, ciechi, primitivi, ma concreti, meglio e più dei rivoluzionari. E lo afferma, infatti, con presuntuosa alterigia e arrogante durezza, anticipando con audace anacronismo il severo giudizio di Gramsci: “…la città fu schiacciata dalla campagna organizzata nelle orde del cardinale Ruffo, perché la repubblica trascurò completamente la campagna e lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani (…) In Italia i liberali-borghesi trascurarono sempre le masse popolari. Chi è patriota o nazionale, l’ammiraglio Caracciolo impiccato dagli inglesi o il contadino che insorge contro i francesi?”. Dice Ruffo a Giovanni: “Voi offendete la nostra civiltà, che è sempre stata e sempre sarà senza tempo. Questo popolo non chiede altro da noi se non che il sistema dei loro padri e avi possa continuare, e che venga applicato con equità e energia”. Nasce addirittura un sospetto: che in altre circostanze (più mature o solo diverse) Ruffo sarebbe stato non un reazionario ma un rivoluzionario e che avrebbe guidate quelle stesse folle plebee, affamate e disperate, sempre contro le stesse città, ville e palazzi, ma sotto altre bandiere, con altre parole d’ordine, per altri scopi, con in testa altri progetti. L’Italia di questo romanzo è una povera Italia, per la quale si può nutrire un affetto profondo, struggente e dolente, impastato di ammirazione e indignazione: terra di conquista, incapace di rivoluzioni politiche autentiche e indigene, e tuttavia in stato endemico di guerra civile, divisa in fazioni che si combattono (senza magari saperlo e volerlo) per conto di potenze straniere, condannata a non uscire mai dalla logorante altalena fra entusiasmi eccessivi e brutali delusioni, eppure pronta a rinascere dalle macerie delle più spaventose catastrofi, esempio meraviglioso di vitalità” (Arminio Savioli, art. de “l’Unità”).

 

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • B. Croce, “Storia del Regno di Napoli”, Laterza, Bari, 1972
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • V. Dini, “Diversi per natura, ma uguali di fronte alla norma”, in “Il Mattino”, Speciale Bicentenario, 21 gennaio 1999
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997