Repubblica napoletana. 26-29 giugno 1799. “L’arresto dei patrioti imbarcati sulle navi e pronti a partire per la Francia. Nelson viola i patti. Impiccato l’ammiraglio Francesco Caracciolo”

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Ventottesima puntata. 26–29  giugno 1799. La dissimulazione disonesta di Nelson. Documenti inglesi lo confermano. L’arresto dei patrioti imbarcati sulle navi e pronti a partire per Tolone. E’ impiccato l’ammiraglio Francesco Caracciolo.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

26 giugno. Mercoledì. Napoli. “La reazione dei sovrani alla notizia della capitolazione è durissima. Ferdinando medita addirittura di far partire dalla Sicilia un ordine d’arresto per Ruffo. Nelson ha dichiarato nulli gli articoli di capitolazione arrestando i patrioti, già imbarcati al porto in attesa della partenza per la Francia, e conducendoli alla Vicaria e nelle carceri di quegli stessi castelli dai quali erano stati poco prima prelevati. Nella furia vendicativa dei sovrani non c’è posto per la compassione e il perdono” (Sani, p. 53).

Grande agitazione e grande moto vi è questa mattina per Napoli. Si sente che le armi di S. M. vogliono assolutamente evacuati i castelli per le ore 15, che i Giacobini ricusino, che si disponga tutto per l’assalto di S. Elmo. Ciò ha prodotto che molta gente esca dalla città, dubitando trovarsi nuovamente in mezzo al fuoco. Le botteghe sono chiuse, ed ognuno procura di stare in casa (…) Verso tardi mi è stato detto, che girassero uffiziali per Napoli animando tutti e dicendoli di non temere, mentre per tutta la giornata di oggi sarebbero imbarcati i ribelli. Per sicurezza la truppa Moscovita è accampata a S. Lucia a mare, e si è fatto un cordone dalle alture di S. Nicola Tolentino fino a Palazzo. I ribelli usciranno formati in battaglia, e con cassa battente, ma nell’imbarcarsi lasceranno le armi. Tutto questo si dice. Circa mezzogiorno son cominciati a vedersi dei legni di trasporto che uscivano, e si è detto essersi imbarcati i patriotti” (De Nicola, 261).

Eleonora Pimentel, con alcuni compagni, s’imbarca. “Escono nel primo pomeriggio, sotto il sole cocente. Sono una trentina, Eleonora li ha contati mentre si radunavano in piazzale, cercando di ricomporsi alla meglio. Anche lei cerca di aggiustarsi, ma… Ha ancora addosso il vestito con cui era fuggita. E’ un cencio immondo, macchiato d’ogni sorta di cose: polvere, morchia, sangue. Si spazzola con le mani, mentre Marra e Ciaia cercano d’ordinare il drappello. “Usciamo con dignità. Abbiamo ottenuto l’onore delle armi, la consegna nelle mani di Ruffo. I membri del Governo in testa”. E chi c’è del Governo? De Rensis, Doria, Logoteta… Ciaia ha l’ultima battuta. “Vado avanti o dietro? Sono membro del Governo, ma anche tuo luogotenente”. “Va avanti”, ride Marra. Logoteta accenna al primo passo. Il cuore le batte forte, cerca d’assumere espressione coraggiosa. Non guarda i compagni, ma avverte che fan tutti lo stesso. Dall’imbocco del ponte levatoio cominciano i cordoni borbonici. Con la coda dell’occhio guarda i soldati che presentano le armi: grondano sudore dai tricorni, da sotto le parrucche. Dietro di loro s’accalcano lazzari, sanfedisti. Vocio, scoppio di risa, qualche ufficiale minaccia la folla con la sciabola. Fin che si va per il Petraio, Santa Maria Apparente, le Mortelle… Per Toledo, fino a Castelnuovo, cambia tutto: qui il rapporto fra soldati e popolo è rovesciato. La folla straripa, urlando, minacciando. Napoli sembra aver ritrovato di colpo la propria vita tumultuosa, sonora. Con maggior golosità. Le botteghe, riaperte per incanto, traboccano di roba, i balconi grappolano paurosamente di persone. Per l’aria nuovamente gli odori untuosi e dolci dell’estate napoletana. Toledo è rigurgito inaudito. Meno male che il povero, sudicio drappello vien protetto da due plotoni con baionette inastate. I cordoni sono infidi: li integrano lazzari seminudi, pistole ficcate nelle fasce, preti armati ed urlanti, sanfedisti. Li sbircia: cafoni coi gilé rattoppati, croci rosse cucite sui cappelli a cono. Calabresi, Abruzzesi? Nonostante il caldo, molti portano cioce e panciotti caprini; ostentano paurose barbe incolte e tromboni adorni di nastri. A Santa Brigida un ingorgo. Da una casa i lazzari fanno uscire dei patrioti snidati: uomini in redingote spinti a pugni, calci, sputi, donne scarmigliate, urlanti, sono sommerse dalla folla. Le vede riaffiorare, gli abiti a brandelli: difendono con le braccia i seni nudi. “Fance vede’! Lo tieni l’albero pittato ‘mpietto?”. E’ terrorizzata, sebbene i soldati serrino. “Via!” grida l’ufficiale che li comanda. “Aprite spazio! Via!”. Si scende per il Largo del Castello. E’ come nelle grandi feste di Napoli ondeggianti di folla, muggenti di clamori, non si capisce niente. Intravede stendardi e statue danzare sulle teste, ode richiami. Gente sbocconcella pollanchelle lesse, affonda i musi in fette gocciolanti di mellone. Si cammina su torsoli di pannocchie, bucce. Davanti al teatro del Fondo, intorno a un albero della libertà atterrato, danzano lazzari seminudi, donne a sottane alzate. Qualcuno piscia sopra l’albero. L’attenzione si sposta sul gruppetto che arranca tra i soldati. “Ma chi so’?”. “Li Giacobbe de Sant’Ermo!”. “Chivemmuorto! Menavano chilli casatielle!”. “Largo! Ordine del re!” grida l’ufficiale, brandendo la sciabola. “’Nculo tu e pure lo re!”. Sente l’odore, il fiato sudicio e caldo della folla che spinge, chiude gli occhi. Un pensiero opaco: “Forse è qui che finisco”. Urlo vicinissimo la lacera. Voci stridule di donne. “La vi’! Chesta è una delle zoccole che abballavano ‘ncoppa a li triati!”. “Mo’ la facimmo abballa’ mmiezo a lo Mercato!”. “Co’ li capille curte, puh! Svergognata!”. Sputo caldo, appiccicoso, si spande su una guancia, quasi all’angolo della bocca. Ha un conato di vomito, ma si raccomanda di star ferma. Continua ad avanzare. Un soldato le sta a ridosso. Sente il ruvido della giubba, il moto del braccio che spinge innanzi il fucile. “Levateve de miezzo!” urlano ufficiale e soldati. La folla preme. “S’adda mantene’ fresca e tosta pe’ li fetienti comm’a essa!” strilla, isterica, una donna, buttandosi avanti. Mette le mani sotto le mammelle flosce, le caccia dalla pezza che le copre, se le fa ballare, le sbatte. “Non ha fatto dodici figli comm’a me!”, stride. “Non po’ tene’ li zzizze strutte comm’a li mmeie! ‘Sta panza ‘nfracedata!”. Si dà gran pugni sul ventre informe, molle. “Zoccolona! Magnacazze! Puttana!”. Piovono altri sputi, torsoli di pannocchie, stracci. Uno zoccolo la colpisce a una spalla, proprio mentre sta provando tanta pietà e disgusto” (Striano, pp. 353-5).

La dissimulazione disonesta dell’ammiraglio Nelson. Oggi Nelson, preoccupato delle minacce e delle difficoltà del cardinale Ruffo, per potere arrivare all’abolizione di fatto delle capitolazioni, simulando una certa remissività, fa consegnare al Ruffo stesso dai capitani Troubridge e Ball il seguente biglietto, a firma dell’ambasciatore Hamilton: “Eminence, Lord Nelson me prie d’assurer V. E. qu’il est résolu de ne rien faire qui puisse rompre l’armistice che V. E. a accordé aux rebelles de Naples”. I due capitani rilasciarono inoltre in iscritto la seguente dichiarazione, riportata in fac-simile dal Sacchinelli: “Il contrammiraglio Nelson non impedisce che si esegua la capitolazione dei Castelli Nuovo e dell’Uovo”. Ma il Troubridge, all’ultimo momento, non volle firmare questa dichiarazione; per cui il Cardinale comprese la mala fede ed intuì che correva pericolo, difendendo ancora le capitolazioni; e da allora nulla fece più per impedire la vergognosa violazione, lasciando fare al pretenzioso Micheroux e mantenendosi estraneo all’uscita dei repubblicani dai castelli; la quale avvenne, credendo questi ultimi che le capitolazioni sarebbero state scrupolosamente osservate e che essi avrebbero fatto vela verso la Francia. “I residui delle guarnigioni dei castelli –scrive infatti il Foote- ne furono fatti uscire fingendo di eseguire la capitolazione da me firmata”. Il Badham poi, nella sua pubblicazione “Nelson e Ruffo”, aggiunge e precisa: “I ribelli, secondo che molte e diverse fonti dichiararono in pieno accordo, la sera del 26 evacuarono i forti, in forza della capitolazione, come essi credettero. Micheroux ammette che li condusse fuori con quell’intendimento, Ruffo confessa di avere dato ordine a Micheroux d’agire così…”. E ciò naturalmente perché nello stesso pomeriggio di quel giorno il Nelson aveva promesso di non rompere l’armistizio di Ruffo; il quale “lo stesso giorno, fra le ore 4 e 8,15 pom. fece uscire le guarnigioni dai forti, in generale accordo coi termini della capitolazione, ed i 500 uomini di Nelson aiutarono Ruffo, imbarcando le guarnigioni”. Il che è anche confermato nella relazione a Nelson del Troubridge, che appunto scrive: “In accordo con gli ordini di Vostra Signoria (Nelson), io sbarcai con gli uomini inglesi e portoghesi della flotta il 26 giugno, e dopo avere imbarcato le guarnigioni dei castelli dell’Uovo e Nuovo, composte di Francesi e ribelli, io ho collocato una guarnigione in ciascuno di essi, ed il 28 ho preso posizione contro S. Elmo”. Altri documenti mostrano meglio la mala fede del Nelson. Nella relazione Rodd si ha la seguente testimonianza di lord Northwick: “Egli (il comandante russo Baillie) c’informò che Nelson appariva più calmo e quieto, e che gli aveva dato ordine di attuare la capitolazione a seconda dei termini approvati. Ciò ci allietò tutti: ma poi si conobbe essere stato uno stratagemma, perché le navi, che avevano a bordo la guarnigione che aspettava d’essere trasportata a Tolone, furono attaccate a poppa dalle navi da guerra inglesi”. Adunque in questo pomeriggio i difensori non solo lasciarono i castelli e s’imbarcarono, ma anche nell’imbarcarsi non potevano ritenere se non che sarebbero stati trasportati in Francia; perché un imbarco senza partenza sarebbe stata cosa assurda. Anzi i repubblicani ebbero promessa che la capitolazione sarebbe stata scrupolosamente osservata, come risulta da una protesta di Amedeo Riccardi e di Domenico Forges-Davanzati al Nelson e da alcune lettere di repubblicani di qualche giorno dopo, tutte indirizzate allo stesso Ammiraglio, perché li facesse partire senz’altro. Essi quindi non ebbero alcun sospetto del tradimento che si preparava a loro danno, e fiduciosi si lasciarono condurre a bordo delle polacche, che secondo la loro credenza, conforme alla capitolazione, li avrebbero dovuti condurre in Francia” (Serrao, pp. 246-8).

27 Giugno. Giovedì. Napoli. “La bandiera regia sventola sul castello Nuovo e quello dell’Ovo, segno di essere uscite le guarnigioni ribelli, che sino ad ieri notarono le loro carte col titolo “Repubblica Napoletana”. Tutte le campane della città suonano a gloria per la bandiera regia innalzata. Te Deum per tutte le chiese; l’allegrezza per la città è immensa. L’albore avanti al Palazzo è stato dato alle fiamme, essendosi serviti per materiale di quel legname che serviva di armatura al palco che vi fecero i  patriotti per la festa Nazionale che vollero celebrare, avendoci poi lasciato il palco. Mentre l’albore brugiava, si sono divertiti a tirarci delle fucilate per far saltare in aria la berretta e le bandiere” (De Nicola, p. 262).

Ancora una nota sui rapporti tra Ruffo e la Corte di Palermo. “Il cardinale avea proposto da Matera e da Altamura misure moderate per quando si giungeva a Napoli, cosa sicura dopo la partenza dell’esercito di MacDonald. Egli non si dissimulava che, riuscendogli l’impresa, il suo nemico Acton gli avrebbe trovato dei torti e ispirato al re diffidenza per lui. In effetto il generale Acton, quando vide riuscirgli l’impresa, gli inviò ordine di non entrare in Napoli senza l’arrivo della flotta di Nelson e di un corpo di truppa di 2500 uomini. Con ciò toglieva al cardinale la gloria del riacquisto, come con la presenza di Nelson gli toglieva l’importanza governativa. Ma, richiamato questi per le minacce della flotta di Tolone e rimbarcate le truppe in Sicilia, il cardinale, giunto vicino a Napoli, quando seppe dai pochi legni inglesi che l’ammiraglio avea presa altra direzione, entrò nella capitale ed indi capitolò coi due forti di essa. Nelson e il re annullarono la capitolazione: il primo con un basso sotterfugio, indegno d’ogni uomo e molto più d’un grande. Il cardinale sostenne il trattato; fu leale il prete, furbo l’eroe. Il re diffidò del cardinale, dipintogli da Acton come un ambizioso che aveva tutto compromesso per non attendere le forze di terra e di mare e che per questo si era determinato a capitolare, per non dividere con niuno il merito; ed aveva capitolato con ribelli ed esposto il re a sanzionare un falso principio o a violare un atto commesso da chi ne possedeva la confidenza” (Blanch, p. 85).

Nelson scrive al suo superiore diretto, l’ammiraglio Keinth  e conferma la voluta violazione dei patti: “Giunsi nella baia di Napoli il 24, ove vidi una bandiera di tregua sventolare sul vascello di S. M. il “Seahorse”, comandato dal cap. Foot. Simili bandiere erano sui castelli. Avendo nella mia traversata ricevuto lettere, che m’informavano un infame armistizio essere stato trattato con i ribelli di quei forti, subito feci il segnale di annullare la tregua, essendo determinato di non dar giammai la mia approvazione a qualunque patto con i ribelli, eccetto quello di un’incondizionata sottomissione. Mandai subito i capitani Troubridge e Ball dal cardinale Vicario generale, per far sapere a S. E. la mia opinione su gli infami patti stipulati coi ribelli (Nelson conosceva quindi le condizioni della capitolazione!) e fargli leggere i documenti che vi accludo (forse le istruzioni della regina). S. E. disse, che non manderebbe nessuna carta, e che poteva rompere l’armistizio, se ciò era di mio gradimento, poiché egli era stanco della sua situazione” (Serrao, pp. 243-5).

Palermo. Il ministro Acton “fa scrivere dal Re al cardinale Ruffo che le parole del Nelson erano savie, ragionate ed adattate all’effetto e veramente evangeliche e che egli, il Ruffo, si mostrerebbe ribelle al suo Re se non obbedisse prontamente” (Serrao, p. 262).

28 Giugno. Venerdì. Napoli. L’arresto di Ruffo? Nelson scrive ad Acton: “L’ultimo foglio del Cardinale è che non si arrestasse persona alcuna senza il di lui ordine, che è voler salvare i ribelli. Insomma ieri vi fu un contrasto se il cardinale debba essere arrestato” (Serrao, p. 243).

L’arresto dei patrioti imbarcati. Nelson fa arrestare 84 repubblicani di quelli imbarcatisi la sera del 26 in attesa d’essere trasportati a Tolone, designati fra coloro che maggiormente avevano partecipato alla repubblica, e che, incatenati a coppie, sono gettati nei forti che essi avevano difeso e che erano stati occupati dagli Inglesi con l’inganno, o peggio nel fondo delle stive delle navi da guerra (…) Finora Nelson si è mosso senza alcuna ufficiale autorizzazione reale.  Questo stesso giorno arrivano le attese prime lettere da Palermo circa le intenzioni del Re, che del resto non potevano essere ignorate dal Nelson, specialmente dopo il consiglio tenuto poche ore prima della sua partenza da Palermo. Subito l’Hamilton scrive al Ruffo: “Nelson, dietro a un comando che testé ha ricevuto da S. M. Siciliana, la quale disapprova la conchiusa capitolazione coi sudditi ribelli, pensa di fare prigionieri coloro che hanno sgombrato e che si trovano a bordo dei battelli in questo porto”. Verso le sette di sera sono condotti sul Foudroyant ed incatenati il ministro della guerra Manthoné, i generali Massa e Basetti, i presidenti della Commissione Esecutiva D’Agnese e Cirillo ed altri repubblicani” (Serrao, 249-52).

“Il card. Ruffo aveva timore delle masse popolari e giudicava del loro attaccamento al trono con un notevole realismo. Il 28 giugno, infatti, così scrive al re: “La Maestà Vostra crede che il popolo sia il difensore del Trono, ed io ho mostrato di crederlo, ma non ne sono persuaso. Qualunque Partito gli è eguale, purché possa rubare. Ora si stanno segnando dal Popolo le case dei Realisti per poterle saccheggiare se ritornassero, come alcuni si lusingano, i Repubblicani”. Di conseguenza, subito dopo la caduta della Repubblica, si passò dalle promesse ad una politica di repressione. I più pericolosi capipopolo furono ridotti all’impotenza ed anche da parte borbonica si cominciò a guardare a quel periodo come ad uno dei più oscuri dell’intera storia del regno. Non si trattò soltanto di un ritorno, cessate le stragi della guerra civile, a posizioni più legalitarie (sebbene nella politica attuata dai borbonici dopo il 1799 sia presente anche questo aspetto, giacché la necessità di riportare intorno alla monarchia le forze moderate dovette far abbandonare gli atteggiamenti estremi della Santa Fede); vi fu anche un vero e proprio terrore delle “masse”, a cui si era data mano libera in un momento di grave pericolo ma che occorreva assolutamente riportare a freno” (Lepre, p. 68).

Nelson. Lord d’azzardo. L’inganno e il terrore. “Nelson ha sempre detestato Napoli. La città che in quegli anni offriva al mondo i tesori di Ercolano e Pompei, le eruzioni del Vesuvio, la musica migliore d’Europa, era semplicemente per lui “un paese di poeti e perditempo, di prostitute ed imbroglioni”. Per un fenomeno strano i napoletani –e in particolare quella parte di essi che un tempo s’usava definire “la plebe”- invece adoravano Nelson. Già nel settembre del 1793, quando comandava “l’H.M.S. Agamennon”, aveva ricevuto a Napoli accoglienze trionfali. La notizia dell’occupazione di Tolone –e ancor più quella dell’incredibile cattura della flotta francese- avevano fatto esplodere di gioia la capitale. Ferdinando IV invitò Nelson a cena alla reggia di Portici e volle che quel semplice capitano di vascello sedesse alla propria destra, un fatto senza precedenti secondo l’etichetta di corte. Ma questo è niente rispetto alle accoglienze che Nelson ricevette il 22 settembre 1798, quando con la sua flotta arrivò a Napoli dopo la strepitosa vittoria di Aboukir. Miss Cornelia Knight, nella sua “Autobiografia”, così descrisse la scena: “Sarebbe impossibile immaginare uno spettacolo più bello e più animato di quello offerto dalla baia di Napoli in quel momento. La folla di barche, e quella degli spettatori che attendevano sulla riva, era immensa. Il re di Napoli aspettava in mezzo al mare, a bordo del lancione reale. Bande musicali napoletane suonavano gli inni nazionali inglesi: “Dio salvi il Re” e “Britannia domina le onde”. Ferdinando IV salì a bordo della Vanguard, e venne ricevuto da Sir Horatio “con rispetto, ma senza imbarazzo”. Il povero ammiraglio era ridotto in condizioni miserande. Distrutto dalla stanchezza, privo d’un braccio, cieco d’un occhio, aveva il capo fasciato da una benda che gli copriva la ferita riportata ad Aboukir. Il sovrano volle visitare la nave e incontrare i feriti nell’infermeria (….)

La terza e ultima visita di Nelson a Napoli ebbe luogo nel 1799. Le ventiquattro navi della sua flotta spuntarono inaspettatamente all’orizzonte all’alba del 24 giugno. Stavolta l’entusiasmo non fu generale. Tra i meno entusiasti vi fu forse anche il cardinale Ruffo, il quale non si sentiva la coscienza tranquilla, sapendo d’aver offerto ai ribelli clausole di capitolazione troppo generose, in ogni caso contrarie agli ordini del re. Nelson dichiarò subito di non riconoscere il trattato firmato da Ruffo. La prima cosa che fece fu di chiedere al cardinale d’ordinare ai ribelli di uscire dai forti e rimettersi “alla clemenza del loro sovrano”. Altrimenti avrebbero fatto una brutta fine. Ruffo si rifiutò, dicendo che il trattato era stato firmato e che bisognava rispettare gli impegni. In pratica, tra l’ammiraglio e il cardinale si ebbero 24 ore di battaglia epistolare, a colpi di concitati messaggi. Lo scambio culminò con un incontro tempestoso, al termine del quale ciascuno s’impuntò sulle proprie posizioni. Finché a mezzogiorno del 25 si verificò una straordinaria novità. Ruffo ricevette dall’ambasciatore Sir William Hamilton (che insieme alla moglie si trovava a bordo della nave ammiraglia, “l’H.M.S. Foudroyant”) un sorprendente biglietto: “Lord Nelson mi prega di assicurare Vostra Eminenza che egli è risoluto a non fare niente che possa rompere l’armistizio accordato ai Castelli di Napoli”. Il foglio era stato recapitato a mano da due ufficiali inglesi. Ruffo, sorpreso dall’improvviso voltafaccia, domandò maggiori chiarimenti. Allora i due rilasciarono una dichiarazione, che però si rifiutarono di firmare. In sintesi il senso era questo: “Lord Nelson non si opporrà all’imbarco dei ribelli e della gente che compone la guarnigione dei Castelli Nuovo e dell’Ovo”. Insomma i ribelli potevano salire a bordo delle quattordici “polacche” che li aspettavano in rada, e andarsene a Tolone, come stabilito da una delle clausole della capitolazione firmata da Ruffo. Poche ore dopo però Nelson chiarì meglio quel che aveva in mente. Spiegò d’essersi impegnato a lasciar vimbarcare i ribelli, ma non a consentire la loro partenza, almeno finché non avesse conosciuto il pensiero del re. Gli ultimi dubbi svanirono il mattino del 28 giugno, appena Hamilton ricevette una lettera di Acton. Da quel momento le quattordici polacche si trasformarono in altrettante prigioni, e a Napoli ebbero inizio i processi della Giunta di Stato, le torture, le carcerazioni, gli esili ed oltre cento condanne a morte” (Carlo Knight).

Genova. Le ultime, disperate illusioni. “Nicola Celentani, che è a Genova, in compagnia del Paribelli, scrive una lettera al Sieyès, che fa parte del nuovo Direttorio francese e al quale il Celentani è legato d’amicizia. Nella lettera si dipinge un quadro molto vivace delle ruberie dei francesi in Italia; e della Repubblica Napoletana (che il Celentani crede sempre in piedi) si dice: “Il fatto è, che la Repubblica Napoletana è forse la parte d’Italia dove c’è maggiore spirito nazionale ed energia repubblicana; e questa osservazione è avvalorata da ciò ch’è accaduto a Napoli dopo la partenza dei francesi… La partenza dell’esercito francese ha dato luogo all’energia napoletana di manifestarsi intera. Il popolo e il governo, abbandonati ai loro mezzi soltanto e che s’erano egualmente compromessi per la causa della libertà, non han voluto esporsi ad essere preda o degli inglesi o della corte di Palermo, che sarebbe tornata trionfante; e vi è stata un’imponente riunione di forze e di volontà, per prepararsi a rassodare la Repubblica”. E soggiungeva, esagerando o illudendosi: “Le colonne spedite nelle provincie si sono già battute con successo, e ventimila uomini di guardia nazionale, levati prestamente in Napoli, come altre leve per effetto di una coscrizione militare, hanno mostrato ciò che può l’ardore della libertà. Io non sarei meravigliato che, tra breve, la Repubblica napoletana potesse fornire delle forze ausiliarie alla Repubblica Francese per combattere gli austriaci, e rendere anche più nazionale l’odio contro il despotismo” (Croce, “La rivoluzione..”, pp. 336-7).

29 Giugno. Sabato. Napoli. La torbida vendetta di Nelson. “Ha inizio la repressione, con l’impiccagione all’antenna della fregata Minerva dell’ammiraglio Francesco Caracciolo, condannato per volere di Nelson da una corte marziale di ufficiali napoletani presieduta dal conte di Thurn” (Sani, p. 53). “Quest’oggi circa le ore 21 e mezza è stato afforcato il duca Francesco Caracciolo cavaliere Napolitano conosciutissimo per la sua perizia nel comando dei vascelli” (De Nicola, pp. XXIX-XXX). “Sopra la nave detta la Minerva comandata ora dal Conte della Thurn fu appiccato su le antenne il Cavaliere Caracciolo, il più bravo e buono Comandante nautico della Nazione” (Marinelli, p. 8).

“Il signor Badham ha pubblicato un opuscolo (“Nelson at Naples”, London, Nutt, 1900) in cui affronta varie questioni sul problema del rapporto tra Nelson e le capitolazioni firmate dal Ruffo coi patrioti repubblicani (…) Per incidente il Badham dà anche alcuni chiarimenti sulla condanna di Caracciolo. Pare assai probabile che al Caracciolo si estendesse il beneficio della capitolazione, e che egli non fosse arrestato se non per volontà del Nelson. D’altra parte il modo preciso della sua morte era già comunicato dall’Hamilton all’Acton due giorni prima del giudizio del Consiglio di guerra. Il Badham richiama l’attenzione sul passo di una lettera di lord Keith al Nelson, che lo aveva ragguagliato sommariamente della fine di Caracciolo. “Ammonite codesti napoletani (scriveva il Keith) di non essere troppo sanguinari: i vili sono sempre crudeli”. Il Keith credeva l’uccisione del Caracciolo opera dei napoletani, alla quale il Nelson si fosse tenuto estraneo, semplice spettatore. Ma noi che sappiamo che il Nelson e la volle e l’affrettò, possiamo girare a costui il giudizio del suo superiore, e affermare che in quell’occasione l’eroe di Aboukir non si vergognò, purtroppo, di scendere alle vili funzioni di aiutante del carnefice” (Croce, “Rivoluzione del ‘99”, pp. 262-7).

Il ricordo riverente. “Era, senza contraddizione, uno dei primi geni che avesse l’Europa. La nazione lo stimava, il re lo amava; ma che poteva il re? Egli fu invidiato da Acton, odiato dalla regina, e perciò sempre perseguitato. Non vi fu alcuna specie di mortificazione a cui Acton non lo avesse assoggettato; si vide ogni giorno posposto… Caracciolo era uno di quei pochi che al più gran genio riuniva la più pura virtù. Chi più di lui amava la patria? Che non avrebbe fatto per lei? Diceva che la nazione napoletana era fatta dalla natura per avere una gran marina, e che questa si avrebbe potuto far sorgere in pochissimo tempo; avea in grandissima stima i nostri marinai. Egli morì vittima dell’antica gelosia di Thurn e della viltà di Nelson… Quando gli fu annunziata la morte, egli passeggiava sul cassero, ragionando della costruzione di un legno inglese che era dirimpetto, e proseguì tranquillamente il suo ragionamento. Intanto un marinaro avea avuto l’ordine di preparargli il capestro: la pietà glielo impediva… Egli piangeva sulla sorte di quel generale, sotto i di cui ordini avea tante volte militato. –“Sbrigati –gli disse Caracciolo- è ben grazioso che, mentre io debbo morire, tu debbi piangere”. Si vide Caracciolo sospeso come un infame all’antenna della fregata “Minerva”; il suo cadavere fu gittato in mare” (Cuoco, pp. 206-7).

La nota dello storico. L’eroe del mare. “Era il 20 giugno del 1799. Ferdinando IV scriveva da Palermo al card. Ruffo, tracciando la dura linea di condotta che tra breve avrebbe insanguinato Napoli, e metteva in primo piano tra gli individui da condannare l’ammiraglio Francesco Caracciolo, destinandolo alla morte. “Si vocifera che nel rendersi i castelli si permetterà a tutti i ribelli che ci sono rinchiusi di uscirne sani e salvi, anche Caracciolo e Manthoné, etcc, e di andarsene in Francia. Questo, replico, non lo credo mai, perché, Dio ce ne liberi, ci potrebbe fare il massimo danno il lasciar in vita queste vipere arrabbiate, specialmente Caracciolo che conosce tutti i buchi delle nostre coste”. Chi era Caracciolo? Nato a Napoli nel 1752, fin dall’età di cinque anni era stato destinato ad essere marinaio, ed aveva iniziato una splendida carriera, facendo esperienza anche nella flotta dell’Ordine di Malta, che contrastava i barbareschi, e nella marina inglese, presso la quale fu inviato per addestramento dal governo napoletano. Quindi fu uno dei migliori ufficiali della flotta di cui si dotò il regno borbonico in vista di una forte presenza nel Mediterraneo. Scoppiata la guerra contro la Francia repubblicana, combatté a fianco degli inglesi. Il 23 dicembre 1798, al comando del vascello “Sannite”, seguì in Sicilia il re, che preferì imbarcarsi sulla nave del Nelson. Inopinatamente, mentre era aperta la guerra tra francesi e repubblicani da una parte e borbonici rifugiati in Sicilia dall’altra, Caracciolo il 4 febbraio chiese il permesso di tornare a Napoli per “potervi personalmente accomodare i suoi privati interessi” e provvedere agli obblighi derivanti dalla morte dei parenti più prossimi. Veramente egli nel ’97 per la morte del padre e del fratello primogenito aveva assunto la responsabilità di capo della famiglia. Vissuto sul mare, non si era sposato: privo di discendenti, aveva nominato erede universale un suo fedele pilota. Era possibile che avesse effettivamente problemi di carattere familiare e patrimoniale. La richiesta sembrò plausibile. Benché nel frattempo i francesi fossero entrati in Napoli, il ministro Acton gli accordò il permesso, precisando che il re non dubitava del suo sollecito ritorno (…) Partito dalla Sicilia col consenso del sovrano, a Napoli l’ammiraglio cambia l’atteggiamento, dimentica l’impegno preso. Certo, le ragioni addotte per lasciare la Sicilia sono poco convincenti, e dietro il paravento dei motivi familiari si intravedono piuttosto i contrasti con l’Acton e con gli alleati inglesi. C’è tutta una serie di affronti subiti in varie occasioni di cui Caracciolo si lamenta.

Sulle sue vere intenzioni i repubblicani non hanno dubbi. Sul “Monitore Napoletano” la Pimentel annota che l’ammiraglio è stato accolto “con giubilo universale del pubblico, e più della marineria che tutta accorse ad incontrarlo”. Tuttavia il passo dal legittimismo monarchico alla repubblica giacobina è troppo lungo per essere immediato. Tra il 3 marzo, data dell’arrivo, e il 3 aprile, quando si apprende che ha partecipato ad un consiglio di guerra, passa un intero mese. Il popolare marinaio non è sicuro di far bene accettando di collaborare con i francesi, protettori non meno infidi degli inglesi. Non si può sapere quanto pesino sulle sue scelte politiche gli ideali di libertà, l’amor di patria e i risentimenti personali. Vinti gli scrupoli, il suo atteggiamento è deciso. Il 5 aprile in un proclama attacca “i fuggiti tiranni” con parole di fuoco. Parla di “scheletri spolpati dalla loro insaziabile voracità”, della “loro vergognosa fuga in faccia alla Nazione”, della volontà di “spargere ancora velenose scintille, onde nuovamente suscitare il sedizioso incendio della passata anarchia”; bolla i soldati borbonici come “scellerati spregevoli avanzi di galera”; denunzia gli inglesi “sola cagione di loro rovina”, che ora tendono “a spogliarli dei trafugati tesori”. Il 9 aprile, dopo avere affermato che la repubblica napoletana è resa sicura dall’esercito e dalla presenza “dell’invincibile truppa francese”, sottolinea l’impegno della marina per difendere il lungo tratto di coste e invita i cittadini a segnalare i buoni marinai. E’ l’inizio della ricostruzione di una flotta militare, necessaria per contrastare le incursioni degli inglesi, che appoggiano dal mare la resistenza dei legittimisti. Le navi da guerra borboniche, costate tanto al Tesoro napoletano, non ci sono più. Solo due di esse, il Sannita e l’Archimede, hanno seguito il re in Sicilia. Le altre sono state distrutte per non farle cadere nelle mani dei francesi. Il 28 dicembre 1798 sono state incendiate una settantina di lance armate ancorate davanti a Posillipo; l’8 gennaio sono state incendiate ed affondate nel porto di Napoli le navi maggiori, i vascelli Partenope, Tancredi, Guiscardo, San Gioacchino, la fregata Pallade, la corvetta Flora, la cabarra Lampreda. Il governo repubblicano non ha trovato che poche vecchie cannoniere. Sul mare la superiorità degli inglesi è schiacciante. Ma, come dirà Cuoco, Caracciolo “valeva una flotta”.

Con la sua esperienza crea dal nulla una flottiglia. Galvanizza gli equipaggi. Affronta decisamente gli inglesi che occupano importanti posizioni nel golfo di Napoli, ed ottiene notevoli risultati, che risaltano maggiormente se si tiene conto della disparità delle forze. Il 28 aprile costringe a ritirarsi le navi nemiche che si sono avvicinate a Torre Annunziata. Passa addirittura all’attacco. Il 17 maggio organizza una spedizione per stanare gli inglesi dall’isoletta di Procida, loro base nel golfo. E’ un’autentica sfida. Caracciolo per poco non riesce nella difficile impresa, fallita infine per il vento contrario. Mentre per terra avanzano le masse del Ruffo, tiene ancora a bada gli inglesi. Protegge la costa tra Sorrento e Castellammare. Il 13 giugno, nella estrema lotta, appoggia dal mare i difensori del ponte della Maddalena. Perciò, quando i borbonici entrano nella città, non può unirsi agli altri repubblicani che si chiudono nei castelli. Il Ruffo, che conosce le intenzioni del re e degli inglesi nei suoi riguardi, gli fa arrivare il consiglio di mettersi in salvo per via di terra. Egli si rifugia a Calvizzano, feudo materno, presso il suo vecchio pilota. Ma è personaggio troppo noto per passare inosservato. E’ denunziato, arrestato il 25 giugno e portato il 29 sulla nave ammiraglia inglese. Da Palermo la Corte ha seguito tutte le sue mosse. “Chi mi ha fatto vera pena di trovarlo un briccone è Caracciolo nostro della marina”, scrive il 23 aprile la regina al Ruffo, e ricorda il suo proclama, “dei più atroci e ribelli, caratterizzando il re per tiranno vile, e giurando a lui e alla sua famiglia la distruzione: insomma infame, e confesso che da lui non me lo aspettavo”. Quindi, affermando che il perdono non ispirerebbe riconoscenza, dice che “ha da essere punito di morte chi, avendo servito il re, come Caracciolo, si trova con le armi alla mano combattendo contro di lui”.

La sorte di Caracciolo è quindi già segnata. La sua defezione ha fatto impressione. Per lui, militare venuto meno al giuramento, si riunisce un consiglio di guerra formato da cinque ufficiali borbonici. L’accusa è di tradimento, invano tenta di difendersi ritorcendo sul Borbone l’accusa di aver tradito la nazione fuggendo in Sicilia con la cassa militare. Condannato a morte, è impiccato immediatamente a un albero della fregata Minerva. Il corpo è gettato in mare. Riaffiora dopo qualche giorno dinanzi alla nave del re. Dagli affezionati marinai gli è data sepoltura nella chiesa di Santa Maria della Catena a Santa Lucia. Il suo nome rivivrà nel più bel lungomare di Napoli (Alfonso Scirocco).

La repressione generalizzata. “In questo giorno Nelson, non trattenuto da alcun limite o freno e sentendosi autorizzato a tutto, emana il seguente ordine, col quale comincia a dare pratica esecuzione al tristo programma di vendette e di sangue: “Dal “Foudroyant”, nella baia di Napoli. Orazio lord Nelson, ammiraglio della flotta britannica, dà avviso a tutti coloro che hanno servito come ufficiali civili o militari nell’infame repubblica napoletana che se nello spazio di 24 ore per quelli che sono nella città di Napoli, e di 48 per coloro che si trovano a cinque miglia distanti da essa, non si abbandoneranno alla clemenza del re, presentandosi all’Ufficiale Comandante i Castelli dell’Ovo e Nuovo, lord Nelson li considererà come ancora in ribellione e nemici di S. M. Siciliana” (Serrao, pp. 252-3).

Una puntualizzazione importante e definitiva. “Nelson ha asserito che i patrioti uscissero dai castelli, sapendo di dover fidare unicamente nella clemenza del re. Non è credibile; e resterebbe inesplicabile l’atto dei repubblicani di obbedire all’intimazione del Nelson, lasciando cadere una capitolazione firmata dal vicario generale del re, garantita dai rappresentanti di tre Potenze, e alla quale non poteva mancare l’appoggio della guarnigione francese di S. Elmo, che, tra l’altro, avea in mano ostaggi per quel trattato. Sembra che, in ogni caso, convenisse loro meglio resistere fino all’estremo o accettare l’offerta del Ruffo di tentare lo scampo per via di terra. Per la disperata risoluzione di rimettersi alla clemenza del re, ci sarebbe stato sempre tempo (…) Nel Diario del Micheroux, pubblicato dal Maresca nell’Archivio storico per le provincie napoletane (XXIV, 447-63), si denuncia l’improvviso voltafaccia del Nelson, quando vide che il Ruffo, coerente a quel che avea sempre dichiarato, dava disposizioni perché i repubblicani fossero rimessi nelle condizioni in cui si trovavano prima di aver capitolato, restituendo loro i posti militari occupati dalle truppe regie. Ai patrioti uscenti dai castelli i russi resero perfino gli onori militari, in conformità dell’articolo terzo della capitolazione; e che gli inglesi non facessero lo stesso, fu attribuito dai patrioti alla fretta onde si eseguì l’imbarco (…) Qualche oscurità rimane ancora sul punto: se il Ruffo fosse realmente ingannato dal Nelson, o se non piuttosto si lasciasse ingannare, trascurando le cautele necessarie ad assicurarsi della vera intenzione e della buona fede dell’ammiraglio inglese e contentandosi di dichiarazioni alquanto equivoche, che salvavano le apparenze. Certo, alle sue risolute rimostranze contro le prime richieste del Nelson, mal risponde la sua acquiescenza nei mesi seguenti durante la feroce reazione. Ma forse dallo spirito morale del Ruffo non bisogna domandare troppo: opposizioni e proteste, sì, ma non la fiera ribellione contro i sovrani o il ritrarsi in solitudine” (Croce, “Rivoluzione del ‘99”, pp. 263-5).

 

Nota bibliografica

  • B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluziona napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • Carlo Knight, “Lord d’azzardo”, in “Il Mattino”, quotidiano di Napoli, edizione del bicentenario, 21 gennaio 1999, p. 12
  1. Lepre, “Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento”, Editori Riuniti, Roma, 1969
  • D. Marinelli, “La caduta di Napoli”, La città del sole, Napoli, 1998
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, Firenze, 1997
  • Alfonso Scirocco, “L’eroe del mare”, in “Il Mattino”, quotidiano di Napoli, edizione del bicentenario, 21 gennaio 1999, p. 21
  • F. Serrao de’ Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I
  • E. Striano, “Il resto di niente”, Rizzoli, Milano, 1998