“Dersu Uzala” di A. Kurosawa

“Dersu Uzala”  di Akira Kurosawa, 1975

Fotografia: A. Nakai, Y. Gantmann. Musica: I. Schwartz. Attori: J. Solomin, M. Munzuk.

Prefazione

Abbiamo cominciato, quest’anno, ad attuare un progetto di “Esperimenti di lettura di alcuni testi cinematografici”, un’ipotesi che ci impegnerà per tutto il quinquennio 1993-1998 (un anno, un film, un quaderno). Questa volta abbiamo letto il film di Kurosawa, nel 1995 vedremo “Il sorpasso” di D. Risi, nel 1996 “Il nome della rosa” di J. J. Annaud, nel 1997 “Allosanfàn” dei fratelli Taviani, nel 1998 “Una giornata particolare” di E. Scola.

All’inizio avevo forti perplessità sul pubblicare –in un apposito fascicolo- le prove di questa prima esperienza: sono evidenti e innegabili le acerbità, le incoerenze, le ingenuità interpretative di molti lavori. Ma sono anche interessanti –valutando la giovanissima età e le incertezze del primo approccio degli studenti quattordicenni- alcune originalità e lucidità di analisi, in alcuni casi davvero sorprendenti per acutezza e sistematicità.

Perché un lavoro del genere e perché pubblicarlo? Due risposte. Il cinema è l’arte che consente di integrare al meglio l’indagine bibliografica, iconografica, tecnica, musicale. Le descrizioni d’ambiente, i paesaggi, i costumi, lo scavo psicologico dei personaggi e delle folle, i movimenti di massa, la stessa tecnica del montaggio offrono agli studenti stimoli e suggestioni per entrare il più possibile nella dimensione quotidiana (fantastica ed insieme materialmente elementare) di un fatto e di un’epoca. Questa esperienza di lettura, smontaggio e interpretazione di un testo audiovisivo fa parte di un progetto più ampio di “Lettura del testo” (lirico, novellistico, romanzesco, pubblicitario, giornalistico, politico) e semplicemente punta ad avvicinare gli studenti ad un uso più attento e critico della civiltà delle immagini. Vuole stimolare i ragazzi ad arricchire il loro lessico, con una paziente quotidiana pratica della lettura, dell’ascolto, della visione, per contrastare un’espressività orale e scritta sempre più povera e banalizzata. Vuole suggerire un metodo di lettura, di concentrazione, di interrogazione di se stessi, di discussione e confidenza con gli altri (che dura da secoli e che oggi, forse, si sta perdendo). Ho ritenuto importante, perciò, definire una strategia didattica utile ad acquisire quegli strumenti linguistici, grammaticali e conoscitivi senza i quali non si riesce a dare coscienza comunicativa.

Questo fascicolo ne è un esempio, tra gli altri usati nella pratica culturale quotidiana della scuola, e mai valorizzati. L’abbiamo pubblicato, ricorrendo anche all’auto-finanziamento, perché non abbiamo voluto che questi micro-testi venissero sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici. I fascicoli sono disponibili nella biblioteca del Liceo Sperimentale “Stefanini” di Mestre-Venezia.

                                                                                  prof. Gennaro Cucciniello

30 maggio 1994

 

 

Estratti dal fascicolo di 56 pagine, pubblicato nel maggio 1994; studenti quattordicenni.

                                                               “Dersu Uzala appare”

 

“Chi ci sarà dietro quei cespugli? Un orso feroce pronto ad azzannare ogni cosa gli capiti sotto mano, grazie alla sua enorme bocca spalancata? Un gatto selvatico dai lunghi artigli? Che animale può essere quello che fa scricchiolare come ossa rotte le foglie ad ogni suo passo?”

Sono queste le paure, i dubbi che invadono le menti di alcuni soldati russi in spedizione in una terra inospitale quale la Siberia. Invece, all’improvviso, dagli invalicabili cespugli sbuca la faccia mite e sorniona di Dersu, un cacciatore del luogo, senza dimora (la sua casa è il bosco), che, impaurito, esclama con voce tremolante: “No spara, io omo”. Uomo?! Si fa per dire! Guardate com’è ridotto! Piegato dal peso di uno zaino, carico di ricordi e di amarezze, selvatico ed incolto proprio come una radura siberiana colpita da una bufera, con occhi piccoli e a mandorla, ma luminosi, quasi accesi dal grande fuoco della saggezza. Parlando con difficoltà la lingua russa, racconta la sua vita triste, gravata da estenuanti fatiche e sacrifici. Traspare una disperazione celata nella sua voce che stentatamente trattiene il pianto. La sua sofferenza più grande è stata la perdita dei suoi cari. Tra un lieve lamento e l’altro, aspira il denso fumo di una rudimentale pipa.

Arseniev, il capitano della spedizione (uomo sensibile e generoso), gli offre da mangiare e lui, senza porsi scrupoli, l’accetta poiché non è riuscito ad acciuffare alcuna preda, ha soltanto ferito un cervo, che si è dileguato chissà dove. Dersu non uccide come spietato divertimento, caccia le sue vittime solo per la sopravvivenza, perciò, per essere indotto a sparare ad un cervo, di fame ne deve avere molta. Dà a tutte le cose un’anima, perfino al fuoco che borbotta dispettoso. I “miscredenti” lo deridono ma i ceppi infuocati gli danno retta, ubbidienti come bambini sculacciati. Gli uomini sbalorditi, attoniti, colpiti nella loro superficialità, si ricredono un po’ nei riguardi di quel piccolo uomo della grande pianura, colto nella sua disciplina: la vera filosofia, quella della vita, in cui anche un piccolo essere deve sapersi difendere da mille intemperie minacciose.

Dersu fa della sua scelta di vita una meta, grazie alla quale trasmettere alle cose, alle persone, dei consigli, delle piccole spinte, come quelle che un uomo dà ad un’altalena. La macchina da presa, in questo momento, inquadra il fuoco con dietro Dersu, la foresta con davanti Dersu e alla destra di Dersu il suo zaino, tutto il suo patrimonio; questo indica che il cacciatore non ha casa e che la sua casa è la taiga e gli spiriti della foresta sono suoi amici.

 

                                                                                              Francesca H.

 

                                                           Il vecchio cinese

Da quaranta anni vive nella taiga. Si sposta, si ferma, costantemente immerso nei suoi pensieri. Verso di lui Dersu ha una delicatezza particolarissima. Si tratta del vecchio cinese, uno dei personaggi più affascinanti del film. Dapprima la compagnia dei soldati lo conosce come una lieve traccia sul sentiero: Dersu riconosce le sue orme. Poi ecco che lo si conosce un po’ di più. Si arriva al posto dove aveva costruito il suo rifugio, una capanna semplice dalle fattezze alquanto ordinate. Forse che Dersu, quando chiede al capitano il riso e il sale per un nuovo eventuale viaggiatore che venisse a sostare in quella capanna, si stia in qualche modo preoccupando per lui? Non può essere che abbia lasciato il cibo nel caso il vecchio cinese fosse ritornato? Ciò non toglierebbe niente alla generosità di Dersu. Il vecchio non saprebbe comunque che è stato Dersu a preoccuparsi per lui.

Poi, riprendendo il cammino, ecco che la compagnia incontra di persona il vecchio della cui esistenza, finora, Dersu era l’unico (a parte, forse, il capitano, ad essere veramente convinto). Quando si accampano, il capitano sente il bisogno di andare ad offrire del cibo e una bevanda calda al vecchio che se ne sta seduto, silenzioso, sulla soglia di una casupola. Il vecchio è lusingato, un po’ maldestro (rovescia la tazza che il capitano gli porge) e le parole di ringraziamento e il tono con cui le pronuncia –rivolto all’ufficiale- denotano il suo animo gentile, non indurito dal tempo e dalla solitudine. La sera, il capitano vorrebbe far sedere il vecchio con loro, attorno al fuoco. Ma Dersu lo ferma. Il vecchio sta bene nella sua solitudine. Avvolto nella sua serena malinconia, pensa. Dersu “racconta” la sua storia. Il fratello, molto tempo addietro, gli aveva portato via la moglie (non si sa se consenziente o no). Oltre al dolore per la perdita dell’amata, un dolore ancora più profondo. Il tradimento di un legame sacro, fondamentale nella vita di un uomo, quale può essere quello che sussiste tra due fratelli. Ecco il perché del suo pellegrinaggio. “Ora lui pensa molto, molto…” dice Dersu. Il vecchio rievoca come in un sogno le immagini di un giardino in fiore, immagini calde e serene, di un tempo felice; un giardino fiorito, tra le montagne ricoperte di neve. Già, è una via bellissima per cercare un po’ di pace interiore (o per tormentarsi con un ricordo), lontana da vendette, da rivalse…

Quella del vecchio cinese è una storia molto triste. Ma anche molto bella. Nel suo voler star da solo, nel suo isolamento, nel suo appartarsi e immergersi in profondi e remoti pensieri, il vecchio cinese sente comunque l’esigenza di andare a salutare il capitano, quando parte per rimettersi in viaggio. Non vuole far “sfoggio” della sua tempra, ostentare la sua solitudine andandosene via silenziosamente, senza una parola di congedo. E questo trovo sia molto bello. Forse mi ha insegnato qualcosa.

Per ultima cosa voglio notare il rapporto che il vecchio ha con Dersu. Quest’ultimo lo conosce molto bene, anche se nel film non si vedono mai i due parlare insieme. Come Dersu “legge” la natura il vento gli alberi, così legge anche nell’animo del vecchio cinese. Anche quando egli se ne sta seduto, al freddo, poco distante da loro che stanno davanti al fuoco, Dersu sa che sta bene così. Sa cosa prova e a cosa sta pensando. In fondo condivide in parte la sua storia.

                                                                                  Ketty  B.

L’avventura nel freddo e nella notte

La sequenza inizia con l’immagine di un panorama non molto ampio: un lago con gli argini ricoperti dalla neve. Il lago è coperto a sinistra da un albero. Sullo specchio d’acqua naviga una barca lunga e sottile che trasporta quattro uomini: Dersu, il capitano Arseniev e due soldati. Un silenzio profondo pesa su tutta la sconfinata distesa gelata. In quel silenzio c’è qualcosa di minaccioso. L’unico rumore è quello che producono i remi a contatto con l’acqua. Una voce, quella del capitano, spiega la meta: un lago ai confini della Cina, una zona paludosa, poco battuta e priva di sentieri. Fermata l’imbarcazione, Arseniev dice che lui e Dersu andranno più avanti e ordina ai suoi due uomini di scaricare quello che c’è nella barca.

L’inquadratura cambia: il paesaggio è spoglio, ci sono solo canne, giunchi e ghiaccio, ghiaccio e giunchi, senza punti di riferimento in mezzo a tutta quella piattezza, sempre e solo questa sequenza ambientale vista da diverse angolazioni. Dersu ha paura e lo dice al capitano, osservano l’orizzonte e si sentono alcune parole dell’ufficiale russo: racconta del silenzio profondo che mette paura. Si alza il vento e Dersu dice che bisogna tornare indietro altrimenti si sarebbero cancellate le tracce. Cambia l’immagine, si vede Dersu da solo che avanza velocemente, arriva poi il capitano. I due non si scambiano commenti o opinioni: il silenzio è assoluto. Non riuscendo più a trovare il tracciato, il capitano prende la bussola e dice a Dersu di seguire la strada che lui indica; i due camminano impauriti ma nemmeno quel paesaggio sembra quello di prima. Attorno a quella distesa di neve i due trovano solo acqua, acqua che prima non avevano incontrato. Dersu è molto impaurito. Il capitano prende il fucile e spara prima uno e poi un altro colpo: sostiene che se i soldati sono vicini sentiranno certamente gli spari. Non ottiene risposta. Arseniev dice allora al compagno che dovranno fermarsi lì per la notte visto che proseguire sarebbe pericoloso. E’ interessante che in questo frangente sia la bussola che il fucile, strumenti moderni, sono del tutto inutili.

Dersu dice che devono lavorare ma il capitano è perplesso perché non capisce di che lavoro si tratti, chiede spiegazioni, e il primo dice che devono tagliare più canne che possono, per preparare un riparo per la notte. Si sentono solo i respiri affannosi e il rumore dei tagli. Il capitano si ferma più di una volta perché è molto stanco, ogni volta viene rimproverato da Dersu; la notte sta scendendo velocemente. Ricomincia il vento, il freddo è molto intenso. Le canne devono essere legate, altrimenti il vento le porterebbe via. Il capitano cade a terra e non riesce più ad alzarsi, il turbinio di vento e di neve quasi oscura lo schermo. Dersu prepara, con le canne raccolte e con uno strumento per i rilievi topografici, un rifugio. I due passano lì la notte. Il mattino seguente il capitano si sveglia quando il sole è già alto; Dersu lo prende un po’ in giro chiamandolo orso e dicendogli di uscire dalla tana. Quando Arseniev esce rimane molto sorpreso della “casa” e la osserva; solo più tardi riesce a capire come l’amico l’abbia costruita; sul suo diario scrive qualche appunto e abbozza uno schema sulla struttura del rifugio. Poi lo ringrazia per avergli salvato la vita ma Dersu risponde: Insieme si va, insieme si lavora, non serve grazie!”. Si sente uno sparo, il capitano è felice perché capisce che sono i suoi soldati e risponde agli spari. Anche Dersu è molto felice; i due si abbracciano.

La colonna sonora, a seconda delle immagini, ha un suono più acuto o più grave. Non è sempre presente in tutta la sequenza. In tutti i casi il suono incute terrore, sottolinea le immagini che incutono paura o fa aumentare la suspence. Molti sono i campi lunghi, pochi i campi medi, rari i primi piani e uno solo è un primissimo piano.

L’uomo crede ormai di dominare la natura, di averla imbrigliata con le sue dighe, i suoi porti, le sue reti, i suoi strumenti che prevedono eclissi e arrivi di comete… eppure è ancora debole e inerme, forse come quando fece la sua prima comparsa sulla terra. La natura non è stata vinta né dominata. Essa sonnecchia e si lascia toccare, come il gatto al quale spesso si tirano impunemente la coda o le orecchie, ma a volte si stanca, dà una rapida scrollata, divampa nella lava incandescente dei suoi vulcani, travolge con l’impeto dei suoi cicloni, allaga con lo spumeggiare torbido dei suoi fiumi, brucia con l’improvviso crepitio dei suoi incendi. E di fronte a questo furioso scatenarsi degli elementi l’uomo resta annientato, agghiacciato, indifeso e cede impotente. Così a volte, come pensa Arseniev, la morte viene vista come una liberazione che ti solleva dal dolore, dalle sofferenze, dal tormento, dalla disperazione, dalle preoccupazioni e che ti fa precipitare nel buio più profondo. L’uomo resta quindi nudo e indifeso, senza zanne e senza artigli, senza guscio e senza piume. Egli però ha dalla sua parte una scintilla inesauribile, l’intelligenza, quella stessa sapienza naturale che Dersu ha utilizzato per sopravvivere agli sconvolgimenti della tempesta e all’inclemenza delle intemperie.

 

                                                           Francesca F.  e Giada T.

 

 

Cinque anni dopo il capitano e Dersu si ritrovano

 

E’ il 1907. I ghiacci cominciano a sciogliersi e questo è il segno dell’arrivo della bella stagione. Ormai è primavera, la spedizione dura da tre mesi e presto sopraggiungerà l’estate. Il capitano, assieme ai suoi uomini, sta attraversando la taiga e ben presto si troverà nelle zone del fiume Ussuri. Si vede Arseniev che, mentre guarda e segna sulla sua mappa l’itinerario e i rilievi topografici, pensa a Dersu e a come si sarebbero sviluppate meglio le ricerche col suo aiuto. E’ fiducioso: sente che Dersu è nelle vicinanze. Alla fine i due uomini si incontrano: si trovano in mezzo alla foresta ed entrambi sono felicissimi e quasi commossi per la gioia, si abbracciano, si baciano e nello stesso tempo ridono. Il capitano chiede a Dersu come ha trascorso tutto questo tempo, gli domanda come sta, gli dice anche che non è per niente cambiato, che non è invecchiato. Dersu dice all’amico che ha preso molti soldi ma che li ha anche persi tutti. Finalmente i due sono di nuovo insieme e nell’accampamento continuano a parlare tra loro mentre i soldati cantano con felicità una bella canzone cosacca.

Le varie immagini e le colonne sonore che le accompagnano sono totalmente legate alla natura e agli animali. La prima scena della sequenza, quella dello scioglimento dei ghiacci, è accompagnata da rumori o suoni molto forti, paragonabili quasi al rumore dei tuoni in un temporale, forse per sottolineare maggiormente il cambiamento che sta avvenendo nel fiume ghiacciato. Infatti, come quando dopo un temporale sopraggiunge il bel tempo, lo scioglimento dei ghiacci sta a sottolineare ancora di più l’arrivo del breve periodo di caldo estivo, durante il quale avverrà l’incontro dei due uomini. Le riprese di queste prime immagini non mi sembra seguano una particolare tecnica ma si può dire che vengono fatte dall’alto e per questo si riescono a vedere bene gli spostamenti o i movimenti dei ghiacci.

Mentre il capitano e la sua truppa attraversano la taiga si sentono, in sottofondo, dei rumori: si vede la foresta, si sente il fruscio di acque correnti, probabilmente di un fiume, si avvertono suoni emessi da insetti e un allegro cinguettio. Forse tutto ciò vuole preannunciare un fatto bello che accadrà in seguito: qualcosa di puro e semplice proprio come questa natura. Le riprese mi sembra che vengano fatte dal basso verso l’alto anche se, secondo me, questa particolare tecnica non balza subito all’occhio dello spettatore forse perché il regista non ha voluto darle importanza.

Il cinguettio ritorna anche in un’altra scena: quella in cui il capitano osserva la mappa. Si sente anche una musica e il cinguettio viene sottolineato ancora di più da un “cu-cu”. Chissà perché ritorna più volte la presenza di questo cinguettio. Kurosawa, è evidente, vuole richiamare la memoria dello spettatore agli uccelli e alla loro presenza nei boschi e nella foresta. Proprio quando il capitano sente il cinguettio gli ritorna in mente Dersu e sembra distogliere i suoi pensieri dalla mappa. “E se non a Dersu, a chi potrebbe collegare gli uccelli?” Egli rispecchia la natura perché la ama, vive con gli animali e fa parte di loro.

Una tra le scene più commoventi del film è sicuramente quella dell’incontro tra i due. Arseniev, che non aveva perso le speranze di rivederlo, non crede ai suoi occhi. La reazione è simile anche in Dersu; anzi, secondo me, egli prova ancora più stupore e sorpresa nel rivedere il suo amico militare. Dersu, infatti, quando pronuncia la parola “CAPITANO!”, sembra che voglia dire: “non ci posso credere, mi sembra impossibile averti ritrovato, non andare più via”. Il loro incontro avviene in mezzo alla foresta, lo sfondo dell’immagine è tutto verde e i due uomini sono al centro dello schermo e si abbracciano. La sequenza si chiude con Dersu e il capitano che, appartati, si raccontano le loro vicende e –in silenzio- ascoltano, felici, gli altri che cantano.

 

                                                                                              Elena B.

 

Lo spirito della foresta

 

Sono nella mia stanza a pensare come iniziare la relazione su una sequenza di questo film. Mi stendo sul letto, chiudo gli occhi e vedo la taiga, verde e selvaggia, e penso di essere una tigre che s’avanza nella foresta tra le erbe e gli arbusti con passo felpato.

“Scorgo due uomini che si stanno avvicinando, uno lo riconosco, l’altro mi è sconosciuto. Senza far rumore li osservo. Dersu si è accorto di me e comunica la sua scoperta al compagno, il nervosismo di quest’ultimo è tangibile; con sguardo sfuggente scruta intorno stringendo quel “bastone” maledetto che semina morte e che a me fa tanta paura. Mi ritiro tra le erbe, ho sentito un rumore, sta arrivando un altro uomo, parlano tra loro borbottando qualcosa mentre Dersu vaga da una parte all’altra alla ricerca di qualche indizio che possa rivelare la mia posizione. Vedo l’ultimo allontanarsi velocemente e, con i suoi compagni, portare via i cavalli; essi mi stimolavano l’appetito ma mi concentro su Dersu e il suo amico. Giro loro intorno sempre nascosta, mi piace non farmi scorgere, in questo momento sono talmente vicina all’uomo più alto che vedo il colore dei suoi occhi, occhi sbarrati, attenti, di cielo, potrei allungare una zampa ed ucciderlo in poco tempo, ma non lo faccio, non è necessario. Dersu mi consiglia di andarmene, meglio dargli ascolto, sono in molti, avrei la peggio: andrò a cercarmi qualche altra preda. Silenziosamente mi allontano immergendomi nei fitti arbusti.

Ho fame!Cerco qualcosa di commestibile per chetare i dolori che mi attanagliano lo stomaco. Mi fermo: gli uomini si avvicinano. Molto tempo è passato dall’ultimo incontro. Resto nascosta ma i cavalli sentono il mio odore e danno l’allarme; gli uomini imbracciano i fucili, la fame è più forte della paura. Vengo avanti e mi faccio vedere; ci sono, davanti a me, ancora Dersu e il suo amico (quello con un lembo di cielo negli occhi). Cerco di aggirarli e prenderli così alle spalle ma non ci riesco. Dersu grida, mi ordina di allontanarmi e di proseguire per la mia strada, lo avverto che se m’impedisce di prendere un cavallo sarà lui il mio pasto. Nonostante ciò mi sbarra ancora il passo, mi guardo attorno nervosa, vado avanti e indietro, vedo gli uomini spaventati, il tipo dagli occhi di cielo è intimorito ma non come gli altri: sembra più  sicuro di sé, prova ne sia che abbassa il fucile nonostante non me ne sia ancora andata. Basta PARLARE. Devo cibarmi immediatamente. E’ un suicidio ma non posso evitarlo. Gli corro incontro e… PAM, una fucilata squarcia il silenzio che si era creato, devo fuggire, fuggire lontano per morire, mettere più spazio possibile tra me e quegli uomini maledetti”.

Nella descrizione di questa sequenza ho deciso di immedesimarmi nella parte della tigre, emblema per Dersu della forza della natura, messaggera di Gongo, lo spirito della foresta. Infatti è stata la parte che più mi ha colpita probabilmente perché meglio di molte altre sequenze illustra il rapporto di armonia quasi biologica tra la natura e questo “piccolo uomo”. La presenza di Amba, nel corso della visione, si divide in due incontri nei quali i rapporti di intimità tra Dersu e la taiga vengono accentuati dal fatto che lui parla alla tigre come ad una sorella da avvertire e preservare dai pericoli che l’uomo porta con sé. A me pare che anche il modo stesso con cui Dersu si esprime ci faccia comprendere la semplicità della sua vita che trascorre a contatto con la natura, una natura che può essere molto crudele con colui che, sbagliando, non la sa rispettare, una taiga selvaggia, simbolo di una natura incontaminata e splendida. Forse l’idea di immedesimarmi nella tigre mi è stata suggerita dal fatto che nel primo incontro con Amba la macchina da presa mi è sembrata nascosta dietro i cespugli, dandomi l’impressione di due occhi che spiavano i movimenti di uomini, inizialmente ignari di cosa stava avvenendo e successivamente spaventati dalla prospettiva di un pericolo sbucato fuori dal nulla. L’inquadratura, infatti, spostandosi lentamente tra le erbe ed i rami, e seguendo il movimento dei personaggi, mi faceva pensare ad una tigre in attesa di balzare addosso alla preda designata e questo mi dava una sensazione di potere.

Nel secondo incontro la macchina da presa, invece, riprende la scena in un movimento dall’alto verso il basso, spostandosi gradualmente da Dersu e il capitano ai cavalli, che nitriscono per la presenza di Amba, e ai soldati che imbracciano i fucili, seguendo sempre una panoramica generale come se lo spettatore fosse posto su di un ramo in una posizione molto elevata: improvvisamente ci appare un campo lungo nel quale l’obiettivo della cinepresa inquadra la tigre che si muove tra gli alberi. Sullo schermo notiamo che, dopo la panoramica e il piano lungo, la telecamera cattura la tranquillità (momentanea) sul volto di Dersu, la preoccupazione su quello del capitano e l’aggressività sul muso di Amba. L’obiettivo passa sistematicamente dalla tigre a Dersu e al capitano e ritorna sempre al piano lungo con un paio di inquadrature a piano americano. Infine il primo piano del “piccolo uomo delle grandi pianure” ci mostra tutta la drammaticità e l’orrore che il cacciatore siberiano prova per avere ferito mortalmente lo spirito della foresta. Quest’ultima scena è a mio parere estremamente commovente: essa fa leggere sul volto di Dersu la paura della “punizione” che un uomo di città non può capire, come dimostra l’affermazione finale di Arseniev. Questa paura verrà ripresa quando il protagonista si accorgerà di perdere la vista e lo interpreterà come una punizione da parte dello spirito della natura.

 

                                                                       Lisanna  S.

 

Il “vivere civile”non fa per Dersu

 

Inquadratura n. 1 (macchina da presa ferma). CAMPO LUNGHISSIMO. Sullo schermo appare un’immagine panoramica. Possiamo notare, dal basso verso l’alto, degli alberi spogli mossi da un leggero venticello; essi non sono ben definiti. Poi notiamo case, o meglio, tetti ricoperti di neve, infine colline anch’esse innevate, non molto elevate. I colori sono cupi, tristi ma vengono però addolciti dal manto candido della neve: marrone molto chiaro per i rami degli alberi e un marrone più intenso per il colore delle mura delle case. Kurosawa, facendo una panoramica del paesino in cui Dersu è stato ospitato da Arseniev, vuole secondo me farci pensare subito alla notevole differenza tra quei molteplici tetti di case e la taiga con la sua selvaggia libera spontanea vegetazione. Vuole quindi farci riflettere sul rapporto civiltà-natura che Dersu dovrà affrontare. RUMORI: il suono delle campane e l’abbaiare di un cane.

Inquadratura n. 2 (macchina da presa ferma). MEZZA FIGURA. Abbiamo l’immagine di un Dersu triste, malinconico, che fissa il fuoco, coperto da una lastra di ferro. Sullo sfondo un muro bianco. Il piccolo cacciatore nel cambiare luogo di vita ha cambiato anche il suo vestiario; ci viene presentato infatti con una camicia bianca a maniche lunghe e un maglione sbracciato blu; il protagonista è di spalle. L’immagine ferma, statica, ancora di più ci aiuta a capire la nostalgia di Dersu per la sua taiga, la sua vera casa, per le sue cose lontane, i suoi molti amici lasciati (sole, vento , acqua, nebbia).

Inquadratura n. 3. PIANO AMERICANO. Siamo nello studio del capitano. Dalla mobilia intuiamo che la famiglia di Arseniev economicamente non deve aver avuto problemi; sono presenti sulla sinistra la moglie e il figlio, sulla destra –di profilo- l’ufficiale. Il ragazzo è   entusiasta di aver registrato la voce di Dersu durante un loro dialogo e la fa sentire al padre. Questi successivamente racconta al figlio che Dersu più volte gli ha salvato la vita. Il regista riprende un tranquillo ambiente familiare centrando la nostra attenzione sulla stima che tutta la famiglia prova nei confronti del cacciatore dalle gambe arcuate. RUMORI: nella scena si sentono solamente le voci dei personaggi inquadrati.

Inquadratura n. 4 (carrellata della macchina da presa). FIGURA INTERA. Siamo all’esterno dell’abitazione. All’inizio vediamo la moglie di Arseniev accogliere sull’uscio di casa, e pagare successivamente, una persona che ha portato loro dell’acqua per mezzo di un piccolo carro trainato da un cavallo. La telecamera si muove dall’alto verso il basso –quando dalla cima delle scale la donna guarda il venditore salire verso di lei-, dal basso verso l’alto quando appunto il venditore sale le scale e infine dall’alto verso il basso quando il venditore scende. In cima alla scalinata nel frattempo appare Dersu, meravigliato del fatto che la donna ha pagato l’acqua ricevuta. Dersu fa subito il confronto con la taiga dicendo che nelle sue foreste niente si paga. Infine domanda alla donna di poter andare a sparare, per poter così pulire la canna del fucile inutilizzata da tempo, ma la moglie di Arseniev non acconsente poiché in città vi è molta gente ed è vietato sparare. Dersu non risponde. RUMORI: carretto in movimento.

Inquadratura n. 5. Le azioni si svolgono nella stanza; abbiamo un letto situato a sinistra e accostato alla parete, una sedia vicino al letto e un piccolo mobile lungo la parete opposta. Il piccolo cacciatore e Arseniev sono seduti sul letto; Dersu sempre con aria stanca, malinconica, spiega al capitano che non riesce a vivere racchiuso in quattro pareti, si sente come un’oca in una scatola. Il capitano si alza dicendogli che non ha di certo tutti i torti a lamentarsi: la stanza infatti è troppo tetra, bisogna rallegrarla. Egli sembra non capire, o forse finge di non vedere, che questa realtà a poco a poco, come l’avanzare d’una malattia, sta uccidendo Dersu.

Inquadratura n. 6 (la macchina da presa si sposta da destra verso sinistra quando il bambino corre verso il padre = PANORAMICA ORIZZONTALE). PIANO AMERICANO. Ci troviamo nello studio di Arseniev, la moglie è seduta in una poltrona accanto alla scrivania del marito, l’ambiente sembra tranquillo. Ad un certo punto, correndo, arriva il figlio e “quasi” urlando comunica al padre l’arresto di Dersu per aver tagliato un albero nei giardini pubblici della città. Moglie e marito si alzano e si recano nel piano inferiore.

Inquadratura n. 7. CAMPO TOTALE. Arseniev scende le scale per dirigersi alla centrale di polizia, il figlio lo aiuta a indossare il cappotto, poi si accosta vicino alla madre, intimorito forse dall’agitazione dell’uomo. Tutto si svolge velocemente e la macchina da presa carrella prima in verticale e poi da sinistra verso destra.

Inquadratura n. 8. Siamo in salotto, Dersu è di fronte al fuoco avvolta da una coperta, Arseniev sta leggendo, la moglie sta lavorando a maglia e il figlio sta suonando un allegro motivetto al pianoforte. L’ambiente è tranquillo, la spiacevole avventura –prima descritta- sembra non essere mai avvenuta ma in Dersu c’è qualcosa di strano. Ad un certo momento si alza lasciando cadere la coperta e, rammaricato, “confessa” finalmente di non poter vivere in città; la sua voce è afflitta dalla verità; il capitano sembra non reagire. Senza dire una parola si dirige verso il piano superiore (si vede solo Arseniev salire le scale); poco dopo torna portando con sé un fucile nuovo, automatico, di precisione. Il capitano vuole facilitare Dersu nelle sue giornate di caccia, dato che la vista inizia rapidamente a calare. Questo dono di vita si trasformerà, però, in causa di morte. Dersu senza troppi complimenti accetta. La scena silenziosa è interrotta dal pianto improvviso del ragazzo che, correndo, si dirige in un’altra stanza. L’inquadratura evidenzia la stretta finale di mano tra i due amici, che non significherà però un semplice arrivederci ma un addio già intuito dai protagonisti. Finisce così la difficile vita di Dersu nella civilizzazione. Ora finalmente è libero di tornare nella sua taiga, di morire come desidera. La profonda amicizia tra Dersu e Arseniev non si spezzerà mai, rimarrà nel profondo dell’anima quell’eterno ricordo di due grandi amici.

 

                                                                                  Silvia  Z.

 

A casa del capitano

Dersu è invitato a casa del capitano Arseniev perché sta diventando cieco ed è difficile che riesca a sopravvivere nella taiga. Arseniev vive in una condizione agiata per i suoi tempi. Infatti la casa si presenta come un’abitazione borghese, ben arredata, col pianoforte; il capitano ha anche un registratore, simbolo (come il fucile poi) di come accetti volentieri le innovazioni. Lui e la famiglia indossano vestiti signorili. Grazie al registratore, il figlio di Arseniev (il “piccolo capitano”) incide la voce di Dersu, che dice che in città non può lavorare, non può fare niente e si sente troppo lontano dalla sua taiga. “Capitano va in foresta e lavora, torna in città e al tavolo scrive e lavora; Dersu in città lavora niente… fuoco guarda… taiga lontana pensa, molto pensa”. Anche la moglie del capitano si accorge della sua condizione, pensa però che presto si adeguerà. Ma Dersu, a casa, non fa altro che sedersi di fronte al fuoco del caminetto e ascoltare il bambino che suona il piano e che si diverte a prenderlo in giro affettuosamente per il suo modo buffo di parlare.

Dersu comincia a rendersi conto della diversità della vita cittadina quando una mattina la donna porge del denaro ad un uomo che aveva portato dell’acqua. Il siberiano esclama stupito: “perché per acqua dare soldi? In fiume tanta acqua c’è!”. Poi vuole andare a sparare; non può; perché in città non si può sparare? Nella sua stanza non riesce a vivere, si sente “come un’oca; come possibile omini vivere in scatola?”. Il suo desiderio è di costruirsi una capanna in strada ma in città non si può. Tutti si mostrano molto comprensivi nei confronti del povero Dersu ma egli non riesce a capire le regole della città. “La regola…? In aria sparare non si può, in strada dormire non si può!”. Fino a questo punto i movimenti della telecamera sono stati calmi  e lenti: forse il regista vuole evidenziare la monotonia della vita cittadina.

Improvvisamente il “piccolo capitano” entra velocemente nello studio del padre (colpo di scena): Dersu è stato arrestato perché, vedendo un uomo che pagava la legna, si è infuriato e ha tagliato un albero del giardino pubblico. Viene liberato e ritorna alla casa del capitano ma è sempre triste. Ricominciano i movimenti lenti. Arseniev legge, la moglie cuce, il figlio suona il piano. Dersu si alza dal suo solito posto (di fronte al fuoco) facendo scivolare la coperta che aveva sulle spalle, tutti lo guardano, la moglie non tesse più, il capitano non legge, la melodia del pianoforte si interrompe. C’è un attimo di pausa che viene spezzato lentamente dalla sua voce che chiede con gentilezza di poter tornare nella taiga. “Capitano, per favore, lasciami andare in taiga, io non posso più vivere qui. Sì, in fretta vado, capitano… signora… piccolo capitano… tutte persone buone; io cattivo, però non posso vivere in città”. Mentre pronuncia queste parole nessuno interviene; poi c’è un lungo silenzio. Arseniev lentamente esce dalla stanza, che rimane silenziosa, e torna con un fucile moderno per regalarlo a Dersu (questo fucile sarà la causa della sua morte): Ecco, prendi, te lo regalo, è un fucile nuovo, di grande precisione e anche leggero, con questo non sbaglierai un colpo”. Tutti sono tristi. La moglie e il figlio piangono e quest’ultimo addirittura corre in un’altra stanza, mentre si sente una musica veloce di pianoforte, un urto sulla tastiera, solo per un attimo.

 

                                                           Elisa B.  ed  Elisa C.

La tomba di Dersu

Dopo un po’ di tempo dalla partenza di Dersu al capitano giunge un telegramma che lo convoca al posto di polizia per il riconoscimento del cadavere di uno sconosciuto, addosso al quale era stato ritrovato un suo biglietto da visita. L’uomo, amareggiato, si reca sul luogo e riconosce nella vittima il suo amico, morto in seguito ad un’aggressione di un brigante che lo aveva colpito per impossessarsi del suo fucile. Arseniev è tristissimo: quel dono che doveva essere speranza di vita si era trasformato in causa di morte. Ora non gli resta che donare all’amico morto un ultimo saluto, piantando sulla tomba quel bastone che aveva accompagnato Dersu nel suo viaggio di vita e che ora era l’immagine della loro amicizia. Ad accompagnare queste inquadrature sono le sole musiche della natura, che sembrano anch’esse essere tristi per la morte di Dersu.

Scene e musiche. A) Un primo piano sul telegramma che annuncia la morte di Dersu. Voce del capitano che legge, accompagnata in sottofondo dal fischio di un treno in partenza. B) Un paesaggio ricoperto di neve; a destra il capitano in ginocchio di fronte a Dersu mentre, a sinistra, il corpo di Dersu, morto, è ricoperto da una tela di sacco marrone. Dietro i due si vedono i pini imbiancati. Silenzio, solo il fischio del vento. Il pianto dell’uomo sembra rafforzato dal tempo gelido, che sembra prepararsi per una bufera di neve, il pianto della natura per quell’uomo che l’aveva tanto amata e rispettata. C) La scena è divisa in due parti. A destra, il capitano e un caporale che gli domanda cortesemente se il morto era un suo conoscente; a sinistra, due uomini che scavano frettolosamente una rozza buca per seppellire il cadavere, impazienti di finire il lavoro e di andarsene. Fischio del vento, pale che scavano la neve ghiacciata. D) Il caporale cammina in fretta davanti al capitano inginocchiato, addolorato per la perdita dell’amico. Passi sulla neve, fischio del vento. E) Addio a Dersu; immagine della misera tomba, a destra; a sinistra, Arseniev che si accinge a piantare su di essa il bastone, segno della loro amicizia infinita.

La prima sequenza del film è un flash back che si collega con l’ultima, in una struttura ad anello. Siamo nel 1909. L’inquadratura va dall’alto verso il basso: mentre la telecamera inquadra il cielo si può sentire la colonna sonora composta dal canto degli uccelli, quasi a voler sottolineare il distacco dalla vita quotidiana. Infatti quando l’immagine scende verso il basso si notano la terra, il cantiere, la gente indaffarata a costruire un villaggio, coi rumori di sempre che ti riportano ai problemi di tutti i giorni. Poi è ripreso Arseniev, che sembra avere l’aria assorta nei ricordi; un uomo su un carro si ferma e gli chiede se sta cercando qualcosa o qualcuno. Egli spiega che cerca la tomba di un suo amico, dovrebbe trovarsi tra un abete e un cedro. Il capitano vede che lo scenario è totalmente cambiato rispetto a due anni prima, non troverà più il luogo esatto della sepoltura. Perciò, sconfortato, pronuncia il nome di Dersu e pensa che non è importante trovare la tomba ma il ricordo che rimarrà sempre vivo in lui.

 

                                                           Elisa B. e  Silvia V.

 

Un’interpretazione                                    di Mino Argentieri

Kurosawa aveva letto la vicenda di Dersu in due libri nei quali un topografo russo, Vladimir Arseniev, aveva narrato la cronaca di alcune spedizioni nella Siberia orientale, ai confini con la Manciuria cinese. I fatti ricordati risalgono al 1902 e al 1907 e sono densi di imprevisti: un cacciatore vive solitario nella taiga e stringe amicizia con Arseniev, Dersu Uzala, appunto, un uomo antico, di poche parole e saggio. Nel film Dersu è un essere che ha fatto dei boschi la sua casa. Disgrazie ed afflizioni (la famiglia morta di peste) lo hanno espulso dalla società e la foresta gli ha restituito la pace. Dersu si aggira per tortuosi sentieri che gli sono familiari, legge le orme, fiuta l’aria, interroga le stelle e i venti, parla alle piante e agli animali, battibecca con i borbottanti tizzoni dei fuochi, dorme su giacigli improvvisati, si ripara in rudimentali capanni, arranca incurvato dal peso di uno zaino che custodisce le sue poche cose, a sera fuma la pipa e non si separa mai dal fucile. E’ un animista, Dersu, e attribuisce al mondo naturale prerogative umane e porta per le bestie un rispetto quasi religioso. Arseniev, nel film il capitano russo, ne è incuriosito e incantato e i due uomini si legano l’uno all’altro con uno di quei patti silenziosi di amicizia eterna. Dersu salva Arseniev dalla morte per congelamento e il capitano, per gratitudine, lo invita a trasferirsi nella sua casa. Dersu non accetta, gli amici si separano. Si rincontreranno cinque anni dopo.

Il cacciatore è ancora in gamba e la sua felicità è immensa nel riabbracciare il capitano e nell’accompagnarlo in un’altra ricognizione, funestata da sanguinari predoni cinesi e minacciata dalle consuete insidie. La tigre Amba si avvicina alla pattuglia dei russi, Dersu la scongiura di allontanarsi e un colpo è esploso dal fucile: la mira non è stata infallibile e il tiratore se ne inquieta ma ancora di più lo rattrista la sicura fine della fiera. Dersu si incupisce, l’episodio è per lui un presagio di morte perché è convinto che Amba si vendicherà, mandandogli altre tigri a punirlo. In più, la vista gli cala di giorno in giorno. Sentendosi indifeso e impotente, segue Arseniev in città. Una comoda abitazione lo accoglie, il bambino di Arseniev non si stanca di ascoltare i suoi racconti, in famiglia lo trattano come se fosse un parente. Ma Dersu non è felice, s’arrabbia perché il consumo dell’acqua e della legna avviene in cambio di denaro, non capisce perché nella città sia proibito sparare in aria e costruire capanne sulla strada, gli sembra d’essere prigioniero malgrado l’affetto di tutti. Il topografo non lo tratterrà e, salutandolo, gli regala un fucile di precisione. Sarà quest’arma a stuzzicare l’avidità di un ladro che, per impadronirsene, ucciderà Dersu.

Il cadavere non sarebbe identificabile se la polizia non rinvenisse addosso al corpo di Dersu un biglietto da visita del capitano, che accorre sul luogo del delitto appena in tempo per assistere alla tumulazione dell’amico in una fossa di cui scomparirà ogni traccia, annullata dalle costruzioni in corso.

“Dersu Uzala” è un film ricco di paesaggi maestosi e di spazi infiniti, scandito dai mutamenti del clima e delle stagioni. Neve e gelo, calore tropicale e flora lussureggiante lo commentano con un respiro solenne. La natura è protagonista nella sua comunicazione con gli esseri umani, di cui Dersu è un esemplare raro in quanto per istinto non infrange un equilibrio che il progresso altera ogniqualvolta è inquinato dalla rapacità degli speculatori. Ai suoi occhi la terra è un organismo vivente di cui egli si sente parte. Dell’esistenza di questo sacro legame biologico Dersu ha una percezione fisica (il miracolo del film è di riuscire a trasmetterci questa percezione in immagini di una purezza, di un’emozione straordinarie). Nella sua visione animistica la nebbia è realmente “la terra che suda”, il gelo “la riserva della vita”, il sole “l’omo più importante, perché senza di lui tutto morirebbe”. Tutto vive, tutto ha un’anima. Una sera Dersu non mangia, prega, canta per addolcire la fame e il dolore di sua moglie e dei suoi figli morti di peste. Anche il bastone da cacciatore, “quest’uomo che mi ha accompagnato tanti anni”, è vivo. Quando Arseniev lo pianterà sulla sua tomba come una croce, avremo l’impressione che il bastone vegli il padrone come un cane. Reggendosi a lui, lo spirito di Dersu potrà tornare a vagare per la foresta, come l’aquila “che vola alta sulla montagna” (dice la canzone cosacca, posta da Kurosawa alla fine del film). Il grande organismo vivente della natura ha le sue leggi. Dersu le osserva religiosamente perché sa che contraddirle sarebbe un suicidio. Cacciatore per necessità, egli spara ad una sola specie di animali. “Se si uccidono tutti, di cosa ci nutriremo?”. La logica illogica del consumismo, del profitto, dello spreco, gli è totalmente estranea. Quando per allenarsi i soldati appendono una bottiglietta ad una fune e la prendono a bersaglio, Dersu li rimprovera: “perché distruggere una bottiglia?”; venuto il suo turno, recide con un colpo netto la corda e si mette la bottiglietta nello zaino.

Anche la figura del capitano è importante. Egli impersona la modernità, il XX° secolo e l’abitudine agli strumenti tecnologici; la macchina fotografica e il fonografo lo classificano come un individuo fra i più emancipati: d’altronde è un geografo, un tecnico della cartografia. Eppure è abbastanza riflessivo per meditare sul solitario cacciatore e su ciò che rappresenta: il passato, un’armonia che rischia di decomporsi, la difficoltà di adeguarsi alla marcia della storia e alla modificazione dei rapporti primordiali, una riserva di valori che sarà sconvolta.

Lo schermo largo del cinema si apre ad orizzonti sconfinati, a sommesse avventure di viaggio, a sequenze di intensa drammaticità (la tempesta che si abbatte sui due, smarriti sul lago ghiacciato), ma si accorcia anche per scavare nel profondo dell’anima. La faccia e il corpo di Dersu, indimenticabili, vivificati da un anziano attore di teatro –Maxim Munzuk-, sono splendidi per la naturalezza e il calore ed anche per la serena malinconia. Nel film boscaglie, fiumi e radure vibrano di echi fatati ma non privi di incantazione sono anche gli occasionali incontri della squadra russa con i rari abitanti della foresta. La scoperta di un vecchio cinese, ritiratosi nella taiga per fuggire l’ingratitudine e l’egoismo dei parenti e della moglie, e chiusosi nel silenzio, è uno dei frammenti più belli e malinconici.

 

                                               da  “Rinascita”, 1977, n. 5, p. 34