E. Montale, “Forbice, non recidere quel volto”. Un’ipotesi interpretativa.

“Non recidere, forbice, quel volto” di E. Montale. Un’ipotesi interpretativa.

 

Questo è un lavoro scritto nel marzo 1987 da una studentessa del quinto anno, Corso propedeutico all’università, dell’Ist. Magistrale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciannove anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di osservazioni acute e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua ed inevitabile approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, pur filtrate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica) e sulla raccolta di “Le occasioni”, naturalmente ricavate dai manuali e da alcune pagine saggistiche. Mi ha interessato, invece e soprattutto, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture.

A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. Questo naturalmente costa fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Non voglio, perciò, che questi micro-testi siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi. Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.

prof.  Gennaro  Cucciniello

 

Non recidere, forbice, quel volto,

solo nella memoria che si sfolla,

non far del grande suo viso in ascolto

la mia nebbia di sempre.

 

Un freddo cala… Duro il colpo svetta.         5

E l’acacia ferita da sé scrolla

il guscio di cicala

nella prima belletta di Novembre.

 Il tema di questo mottetto, scritto nel 1937, è “il volto che le forbici del giardiniere autunnale recidono con i rami dell’acacia” (Gianfranco Contini). Il volto della donna un tempo amata, ancora forte e intenso nella memoria, sta per distruggersi e confondersi, come via via sempre accade dei ricordi: i giorni passano e lo allontanano, lo fanno dissolvere nel pulviscolo della nebbia del tempo. Nella stagione fredda autunnale un boscaiolo, con l’accetta, taglia con un colpo secco i rami alti dell’acacia ; l’albero fa cadere nel fango il guscio di cicala seccato.

 

Schema metrico: due quartine di tre endecasillabi e un settenario ciascuna, legate dalla rima (vv. 1-3, 2-6), dall’assonanza (vv. 4, 8) e dalle allitterazioni.

 

Verso 1: con l’uso dell’imperativo vocativo e negativo il poeta invita il tempo a non tagliare e distruggere i ricordi. Questa formula deprecativa contrassegna altri attacchi montaliani di “Ossi di seppia”: “Non rifugiarti nell’ombra / di quel fòlto di verzura”; “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”; “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti”. E’ molto interessante il richiamo a questa metafora, la forbice del tempo, (di derivazione anche dantesca, Paradiso, XVI, 9: “lo tempo va dintorno con le force”) perché consente di risalire, nella ricerca dell’ispirazione profonda di Montale, alle forbici mitiche delle Parche, in analogia con il tema di Orfeo ed Euridice nella lirica “Cigola la carrucola del pozzo” di “Ossi di seppia”, come suggerisce in un suo saggio Barberi Squarotti. La lama che taglia suscita un brivido di freddo, sviluppato nella compiuta inversa allitterazione, anche sonora, di “reci-dere” e “forbice”, non a caso entrambi termini sdruccioli. Si intravede già una ferita, un’esperienza dolorosa, quasi senza rimedio.

Verso 2: il viso amato è rimasto solo nella memoria, nella coscienza che a poco a poco si vuota, cancella i ricordi delle molte persone care (quasi una “folla”). E’ angosciante questa consapevolezza di una memoria che non riesce a conservare in sé l’immagine della persona amata, che la lascia lentamente svanire in un passato sempre più confuso, sempre più irrimediabilmente perduto. E’ intensa e di grande effetto l’assonanza bisillabica “volto-solo”, accentuata dalla vicinanza tra primo e secondo verso. Un po’ alla volta tutti i volti delle persone conosciute negli anni sono spariti e si è rimasti disperatamente soli. Ora anche l’ultima immagine si sta dissolvendo. E’ utilissima la virgola tra i due versi perché scandisce la pausa tra l’azione del tempo e la coscienza che si ha delle sue conseguenze devastanti.

Versi 3 e 4: “o forbice, non fare, con l’atto della recisione, nebbia di quel viso, cioè non distruggerlo”, così Montale spiega (in una lettera del 1937 con R. Laurano). Noi vediamo quasi il viso della donna (grande perché ormai unico ad accamparsi nella memoria o perché il poeta lo ingrandisce sforzandosi di concentrarsi e di trattenere le immagini del ricordo) che sembra protendersi per ascoltare ancora le parole dell’innamorato. “Ascolto”  riprende nella rima e nell’assonanza il “volto-solo” dei due versi precedenti e questo viso sospeso e attonito riprende e ingigantisce il taglio impietoso e crudele della forbice che taglia e noi quasi sentiamo il freddo della lama e il freddo del vuoto che si fa nella memoria. E’ interessante anche l’accoppiarsi di “suo viso” e di “mia nebbia”, con quel “sempre” che commenta in modo sconsolato il venir meno di quel ricordo misero e indifeso, accompagnato da un brivido di morte (che sarà spiegato dopo). Nella prima strofa, quindi, è spiegata l’azione distruttrice del tempo sulla memoria, nella quale affievolisce anche il ricordo dei fatti e dei volti più cari. I versi pari di questa strofa rimano con i versi pari della seconda (sfolla – scrolla, sempre – Novembre –rima imperfetta-); i versi dispari, invece, in questa strofa sono in rima (volto – ascolto), nella seconda no.

Verso 5: ora il poeta parla in terza persona, usa un registro puramente descrittivo. C’è freddo, il freddo della nebbia novembrina e sembra che scenda dall’alto, come la nebbia appunto, e ti penetri nelle ossa; di contro, il colpo assestato dalla forbice-accetta del giardiniere-boscaiolo guizza in alto per abbattersi poi sull’albero. In simmetria con questo contrasto di movimento (alto-basso, basso-alto), nel rincorrersi dei bisillabi, c’è il raddoppio di consonanti delle dentali (freddo-svetta), l’allitterazione in “r” (i colpi netti e decisi provocano ferite non rimarginabili) e in “cl” (cala-colpo), con in più l’assonanza decisiva (volto-solo-ascolto-colpo) che svela e conclude la storia: il ramo tagliato dell’albero corrisponde al volto dissolto nella nebbia dei ricordi. Al riguardo c’è una nota interessante dello stesso Montale: “il significato equivoco di svettare (recidere la vetta o guizzare in alto) mi è venuto spontaneo, non tirato per i capelli, ed è prezioso in quel luogo”.

Versi 6 e 7: il colpo s’è abbattuto sull’acacia e ne ha tagliato un ramo, l’albero ferito scuote, facendolo cadere, il guscio ormai secco della cicala che in estate vi si era rifugiata, scheletro di un insetto che ha perduto per sempre il dono caldo e solare del suo canto, corrispettivo naturale di quel ricordo misero e indifeso che all’inizio il poeta voleva tenacemente difendere: lo scomparire di entrambi è accompagnato da un brivido di morte, accentuato e quasi accompagnato dal quasi anagramma di “acacia-cicala” , dalle rime “sfolla-scrolla, cala-cicala”.

Verso 8: nella prima melma, fanghiglia dell’autunno. I commentatori scrivono che “belletta” è un termine arcaico e letterario, una voce dantesca (Inferno, VII, v. 124, “belletta negra”), ripreso da D’Annunzio in un suo madrigale. L’altezza dell’albero rende più miserevole la caduta (v. la rima svetta-belletta), avvoltola nel fango il guscio di cicala. Così si completa la fitta rispondenza dei significati: la memoria (e quindi la coscienza, lo stesso soggetto) corrisponde all’acacia, il viso della donna al ramo tagliato e al guscio di cicala, la nebbia al fango. Il tema che unifica tutto è la lama che taglia: la forbice del tempo già nel primo verso della prima strofa, un oggetto-emblema nella seconda (la forbice o l’accetta del giardiniere). Così il dolore privato è diventato pianto delle cose, il punto di vista universale si è intrecciato con i dettagli privati del quotidiano (secondo i canoni del “correlativo oggettivo”): e anche nello stile la poesia aulica si è armonizzata con il linguaggio comune.

 

                                                                       Eluana  S.