E’ sempre stagione di caccia alle streghe

E’ sempre stagione di caccia alle streghe

Il marito può imprigionare la moglie ribelle. Lo stupratore è innocente se la bambina è maliziosa. In un libro la storia della violenza sulle donne dal 1400 ad oggi. E’ cambiato molto?

 

L’articolo di Giulia Villoresi, uscito nel “Venerdì di Repubblica” del 29 settembre 2017, alle pp. 108-109, commenta il saggio “La violenza contro le donne nella storia” a cura di Simona Feci e Laura Schettini.

 

Sono trascorsi quasi cinque secoli da quando Erasmo da Rotterdam fece pronunciare a una donna –la coprotagonista del suo “Colloquio tra un abate e un’erudita”– la più odiosa profezia che un uomo del ‘500 potesse sentirsi dire: “Ci prenderemo le vostre mitre”. La mitra è il copricapo indossato dal papa, dai cardinali e dai vescovi per le cerimonie solenni, simbolo in questo caso del potere sacerdotale e quindi dei rapporti di forza irrimediabilmente diseguali tra i sessi. Agli uomini la mitra, alle donne la cuffietta ( e non troppo vezzosa, beninteso). Di lì a poco sarebbe scoppiata la cosiddetta caccia alle streghe, uno sterminio dovuto, secondo molti storici, anche alla crescente autonomia delle donne in ambiti che a loro non competevano. Per esempio, dice il “Malleus maleficarum” (1487), “in ciò che riguarda l’intelletto e la comprensione delle cose soprannaturali”. Le femministe che negli anni ’70 gridavano “Tremate tremate, le streghe son tornate” in parte intendevano vendicare quelle vittime, in parte appropriarsi del loro potenziale distruttivo. In un certo senso non ce n’era bisogno: le donne, per il solo fatto di essere tali, sono la più grande minaccia politica che il patriarcato abbia mai dovuto fronteggiare.

“La violenza contro le donne nella storia” è il titolo di un volume in uscita per la casa editrice Viella, a cura di Simona Feci, docente di Storia del diritto medievale e moderno all’Università di Palermo, e Laura Schettini, ricercatrice di Storia contemporanea all’Orientale di Napoli. E’ un primo tentativo, serio e autorevole, di creare un’ampia rassegna storica su un tema antico appunto quanto il patriarcato.Si parte dalle cause di divorzio del ‘600 e si arriva alle politiche, ai diritti e alla retorica dei nostri giorni. Per scoprire che, effettivamente, il fenomeno si sta inasprendo. Come mi spiegano le curatrici, “non si tratta tanto di un aumento quantitativo, quanto di una maggiore brutalità e ferocia degli atti compiuti. Il che suggerisce di guardare al legame tra violenza maschile e libertà femminile. Mentre nel passato, anche recente, gli uomini punivano soprattutto condotte femminili considerate in disaccordo con i parametri della comunità, oggi gran parte delle violenze si consuma intorno alle varie forme che può assumere la libertà delle donne: una separazione, o una scelta di autonomia”.

La violenza sarebbe dunque lo strumento attraverso cui gli uomini, come individui e come genere, tentano di conservare o ripristinare la diseguaglianza storica tra i sessi. Oggi come in passato. Ecco qualche esempio tratto dal libro: nel 1606, racconta Lucia Ferrante, la nobildonna bolognese Antonia Sanvitale denuncia il marito Aurelio Dall’Armi accusandolo di averla tradita, picchiata e imprigionata contro la sua volontà. Lui ammette di averla reclusa perché esasperato da proteste divenute di dominio pubblico: il danno di immagine, per Aurelio, non deriva dalla notorietà dei suoi comportamenti violenti, ma dalla plateale ribellione della moglie, che lo umilia. Inoltre, dice un amico di famiglia (in perfetta sintonia con le altre deposizioni): “E’ anco la verità che in Bologna e credo in tutto il mondo quando le mogliere non obbediscono li loro mariti (…) che sia lecito e conveniente dargli qualche schiaffo, pugno o percossa leggiera et ciò per correzione”. Descritta di “cervello inquieto” e “natura colerica” Antonia è demolita nella sua credibilità, e perde la causa, “secondo un modello di rovesciamento delle responsabilità che avrà grandissimo successo nei secoli a venire”.

Insomma le donne hanno diritto a un buon trattamento solo se la loro condotta è giudicata irreprensibile. E questo vale anche per le bambine: nel 1786 –riporta il saggio di Christel Radica- un prete di Firenze viene accusato di aver stuprato una minore di dodici anni, ma il difensore chiede di scagionarlo perché nella deposizione la bambina ha usato termini come “bischero” e “passera”. E in una sentenza emessa dallo stesso tribunale nel 1794 si scrive che “la straordinaria malizia” della bambina ha consigliato di sospendere il processo. E così via, fino ai nostri giorni: alle donne conviene apparire sprovvedute e remissive. Nei processi per maltrattamenti analizzati dall’avvocata Ilaria Boiano risulta evidente che “se la donna si mostra decisa e forte sia nella gestione del rapporto col partner violento sia durante la testimonianza”, o anche “se svolge una professione e ha un ruolo sociale di rilievo”, si tende a escludere la configurabilità del reato di maltrattamenti. Il confronto tra tempo presente e tempo storico mostra che le donne, per risultare persuasive, devono corrispondere a un modello essenzialmente invariato nei secoli.

Ma attenzione: a virtù ideali corrispondono vizi ideali; e anche qui, solo quelli sanciti dalla tradizione risultano pienamente verosimili. La giustizia, per esempio, recepisce bene l’idea di una donna che ordisce trame in privato, ma stenta a figurarsela mentre cospira nella sfera pubblica. Così, almeno fino agli anni Novanta del secolo scorso, la magistratura considera non imputabili, o non punibili, le donne di Cosa Nostra; e il cambiamento recente, spiega la contemporaneista Chiara Stagno, “non riguarda una scalata al potere delle donne o una maggiore importanza delle loro azioni all’interno della famiglia mafiosa”, ma è frutto del diverso atteggiamento nei confronti del genere femminile. Allo stesso modo, nel 1981, vengono abolite le attenuanti per il cosiddetto infanticidio d’onore, cioè quello commesso dalle madri sedotte e abbandonate.

Al movimento femminista il merito di aver messo in luce come la deresponsabilizzazione, il paternalismo, siano l’altro volto della violenza maschile. Eppure le donne sono ancora, per moltissimi uomini, delicati fiori da tenere sotto tutela, fino a interdirle o a maltrattarle “per il loro bene”. Lo ha espresso in modo quasi scientifico il recente manifesto di Forza Nuova in cui un uomo di colore tira a sé una donna (dall’aria sensualmente sfinita) lacerandole il vestito. Lo slogan: “Difendila dai nuovi invasori. Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia”. E in effetti nella cultura sessista lo stupro è percepito non come crimine contro l’integrità fisica di una donna, ma come delitto contro la proprietà maschile: difendi le tue donne, ne va del tuo onore e di quello del tuo clan. Aggressione e protezione, come ha mostrato la studiosa femminista Susan Brownmiller, sono due facce della stessa medaglia.

 

                                                        Giulia Villoresi