Beato Angelico. Il frate santo che dipinse l’ombra della Madonna.

Il frate santo che dipinse l’ombra degli angeli

Beato Angelico, “Annunciazione”, affresco, 1438-1440, Cella 3 del Convento di San Marco, Firenze.

 

Fu de’ poveri tanto amico, quanto penso che sia ora l’anima sua del cielo. Potette esser ricco e non se ne curò… et i santi che egli dispinse hanno più aria e somiglianza di santi che quegli di qualunque altro”. Le parole di Giorgio Vasari continuano ad apparirci il ritratto più fedele di fra Giovanni da Fiesole (Guido di Pietro), che per il candore fu chiamato Beato Angelico, e che nel 1982 fu iscritto nel numero dei santi ufficiali. Un’unione di vita e di arte che ci stupisce di meno quando è declinata in senso tragico (si pensi a Caravaggio), ma che, comunque si manifesti, lascia un segno particolarmente profondo.

Fu così anche per l’Angelico, la cui pittura sacra sembra ancora ai nostri occhi la più sincera possibile: la più santa. Questa straordinaria credibilità attingeva il suo vertice quando fra Giovanni poteva dipingere per il suo Ordine, quello mendicante dei domenicani, tenendosi lontano dalle commissioni curiali o del potere secolare che lo costringevano ad affogare i suoi santi in un fiume d’oro e di colori costosi, che erano il retaggio più persistente dell’appena spirato Gotico internazionale.

Quando Angelico poteva farsi committente di se stesso, egli sapeva declinare la lingua nuova dell’Umanesimo fiorentino secondo una spiritualità che riusciva a tenere insieme la materia del mondo e la fuga verso l’alto. E così nel suo convento fiorentino di san Marco, dove non solo la chiesa e gli spazi comuni ma ogni cella ebbe in dono qualche immagine nata dalla sua fantasia. In quella nota come Cella numero 3 egli lasciò la più essenziale tra le sue tante, indimenticabili Annunciazioni. Il frate che la abitava veniva invitato a contemplare la scena proprio come il suo santo confratello Pietro da Verona, il martire che al margine dell’affresco guarda e prega a mani giunte, incurante del sangue che cola dalla sua testa spaccata.

I domenicani erano colti: non c’era bisogno di rappresentare il peccato di Eva redento dalla nuova Maria, né il giardino chiuso che rappresentava la verginità feconda di Maria, né la colomba dello Spirito. Bastavano quelle due figure: in un’architettura moderna come quella brunelleschiana del convento stesso. Un dialogo muto e serrato, una dolcezza forte, un’obbedienza consapevole. E un’ombra: quella dell’angelo (puro spirito) che si fonde con quella di Maria: a evocare l’ombra dell’Altissimo che scende sulla sua ancella.

Perché l’Angelico era santo, ma era anche un pittore. E dopo Masaccio non ci poteva essere storia senza corpi: e non ci sono corpi senza ombra. Il Verbo si faceva carne: finalmente.

 

                                                        Tomaso Montanari

(articolo pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 19 luglio 2019)

 

Fin qui la nota di Montanari. Aggiungo qualche altra osservazione. L’Angelico diede forma pittorica al rigore dottrinario della Regola domenicana riformata e la sua opera rappresentò una di quelle originali interpretazioni moderate del primo umanesimo toscano, con una posizione in qualche modo analoga a quella architettonica di Michelozzo, autore del convento di San Marco. Il nostro pittore eseguì circa 50 affreschi che compongono un insieme omogeneo di straordinario interesse. Nelle pitture destinate alle celle dei monaci abbandona il fasto cerimoniale e la solennità con cui aveva trattato le pale, rivolte al pubblico dei fedeli della chiesa di San Marco, per calarsi all’interno della vita claustrale. I dipinti sono intesi come altrettanti temi di meditazione per i frati; per questo elimina tutti i compiacimenti descrittivi e decorativi, i personaggi secondari, le classiche inquadrature architettoniche e si concentra sulla semplicità delle strutture compositive, sul rigore iconografico e sui valori simbolici dei temi della storia sacra. Lo scopo era quello di indurre nei monaci uno stato di contemplazione e di meditazione. La presenza di un testimone santo domenicano attualizzava il senso della narrazione evangelica, suggerendone la piena organicità alle regole dell’Ordine monastico.

La scena qui descritta si svolge sotto un portico rinascimentale, come in uno dei chiostri che Michelozzo stava costruendo. Che si tratti di un ambiente aperto su un lato, noi lo vediamo; ma la prospettiva, così esattamente definitrice dello spazio, fa sì che questo risulti determinato non dalle pareti ma dalle linee. Da qui l’intimità in cui avviene il dialogo: l’annuncio dell’angelo che reca la parola di Dio e la consapevole, eppur umile, accettazione di Maria. L’ambiente è completamente spoglio di ogni decorazione superflua, di ogni arredamento (c’è solo lo sgabello, necessario perché Maria si inginocchi), per accentuare l’essenzialità dello spazio, la sua purezza e, perciò, anche la purezza di Maria. I due interlocutori occupano ciascuno il proprio posto: esistono. Ma non sono protagonisti isolati, indifferenti reciprocamente. Pur nella loro esistenza individuale, si raccordano: le linee che si intersecano delle crociere riprendono la curva delle ali dell’angelo e la conducono verso la Madonna che, parallelamente, si inclina in avanti. E’ qui che vediamo la comprensione che ha l’Angelico dell’uomo rinascimentale: l’angelo e Maria vivono ciascuno la propria vita, svolgono il proprio ruolo, dominano lo spazio ma sono coordinati, fanno parte di una societas. Ciò non contrasta con la purezza della fede che si esprime attraverso la leggerezza spirituale dei corpi, la bellezza dei colori e, soprattutto, la luce. E’ una luce terrena che, provenendo dalle arcate del chiostro, illumina i corpi e ne determina le ombre portate, così importanti per definire i volumi e le loro posizioni; ma –ed è una grande scoperta- è una luce diffusa diurna coincidente con lo spazio; è una luce che evita i contrasti perché è la luce della fede.

La scena è nuda essenziale spoglia. Ricordate la laconicità enigmatica dei 13 versetti del vangelo di Luca? Ebbene, Angelico qui realizza l’assoluto equivalente della scrittura biblica. La pittura diventa astratta quanto la parola. E’ una trascrizione, non una descrizione. I frati già conoscono le sacre scritture, si possono eliminare perciò tutti i dettagli narrativi e naturalistici. Due colonne seminascoste dalle ali dell’angelo e gli archi della volta sono tutto ciò che resta della architettura. Lo spazio è indeterminato e ossessivo, come in un sogno. Né un esterno, né un interno: una cavità intima, che evoca la cella reale e il reale chiostro del convento. Sulla sinistra, un rettangolo verde allude al giardino della casa di Maria, a Nazareth, o al giardino dell’ Eden da cui fu espulsa Eva (perché l’Annunciazione avvia la redenzione dell’umanità dal peccato dei progenitori). Anche il tempo è astratto. L’evento infatti non accade al momento del racconto di Luca: è il suo ricordo. Lo dimostra la presenza anacronistica di un testimone vissuto secoli dopo, il martire Pietro da Verona dalla testa sanguinante. Indossa il saio bianco e nero dell’ordine domenicano. La scena è come una visione, un’immagine mentale. Cioè Pietro, il frate, Beato, il pittore, stanno meditando sul mistero centrale del cristianesimo, l’incarnazione di Dio nel ventre di una donna. Maria e l’angelo appaiono, come emergendo dal bianco dell’intonaco. Sottili diafani inverosimili. Il pittore presuppone il dialogo del Vangelo – lo allude. L’economia dei segni è totale, i colori sono pochissimi. Rosso il sangue sul cranio del martire e lo spirito santo che arde in forma di fiammella; verde il prato immaginario e le piume delle ali angeliche; legno l’umile panchetto di Maria; oro le aureole e i capelli; rosa gli abiti dei due. Ma è il bianco che domina. Bianco il libro, il pavimento, il soffitto, il muro sullo sfondo. Ha lo stesso colore dell’intonaco della cella che circonda il dipinto, e del dipinto stesso prima che il pittore vi disegnasse e colorisse le figure. Il focus infatti è proprio quella parete bianca, abbacinante, fra i due protagonisti. E’ uno spazio vuoto, come una pagina, che attira l’occhio e dunque il pensiero: spazio di contemplazione, di rivelazione. I due si somigliano e sono speculari anche nei gesti – nell’istante in cui il messaggero si inchina a una mortale e la donna riceve lo Spirito dentro di sé. Ma non sono identici. L’angelo rivela la presenza di Dio, che è luce e irradia tutto intorno, batte sulla parete di fondo e illumina ogni cosa. L’angelo non ha corpo. Anche Maria ha perso consistenza. Guardate la sua strana posizione, il panneggio quasi concavo del vestito là dove dovrebbe esserci l’osso del ginocchio. Scelta da Dio, dopo avergli detto di sì, sarà mediatrice e salvatrice dell’umanità. Però resta una donna, ed è nel suo corpo reale che tutto si compie. Così la luce la investe ma non la attraversa. Guardate la parete alle sue spalle. C’è un’ombra. Basta una pennellata per dire che cosa distingue gli angeli dagli esseri mortali.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello