G. Carducci, “Pianto antico” (1871). Una lettura.

Giosuè Carducci (1835-1907), “Pianto antico” (1871)

 

Questo è un lavoro scritto nel marzo 1988 da una studentessa del quinto anno, Corso propedeutico all’università, dell’Istituto Magistrale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciannove anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di osservazioni acute e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua ed inevitabile approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, pur filtrate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica) naturalmente ricavate dai manuali e da alcune pagine saggistiche. Mi ha interessato, invece e soprattutto, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture.

A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. E credo anche che la scuola dovrebbe essere un vivaio di menti indagatrici, quelle persone curiose che Francesco Bacone, nel ‘500, definiva “mercanti di luce”. Con il tempo ho imparato che l’apprendere è una grande fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla.

Non voglio, perciò, che questi micro-testi siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi. Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.

prof.  Gennaro  Cucciniello

 

L’albero a cui tendevi

la pargoletta mano,

il verde melograno

da’ bei vermigli fior,                                           4

 

nel muto orto solingo

rinverdì tutto or ora

e giugno lo ristora

di luce e di calor.                                                 8

 

Tu fior de la mia pianta

percossa e inaridita,

tu de l’inutil vita

estremo unico fior,                                             12

 

sei ne la terra fredda,

sei ne la terra negra;

né il sol più ti rallegra

né ti risveglia amor.                                           16

 

da “Rime nuove”; poesia composta in memoria del figlio Dante, morto nel 1870.

Metro: è un’odicina anacreontica, con quattro quartine di settenari, tronco l’ultimo di ogni strofa. Rime (ABBC); il verso tronco (C) rima con i versi conclusivi di ogni strofa.

Titolo: Perché questo pianto è “antico”? Da sempre la morte dei figli ha colpito gli esseri umani, questa è una sciagura eterna. Carducci annotò anche che aveva trovato lo spunto in un antico poeta greco, Mosco, che aveva sottolineato che la primavera torna sempre a fiorire, nel suo ciclo naturale, ma non tornano i morti degli esseri umani. “Il verde selino, il florido ricciuto anèto, rivivranno ancora domani, ancora in un’altra stagione rigermoglieranno; ma noi, i grandi i forti i saggi, una volta toccati dalla morte, sordi resteremo sotto la cava terra, in un lunghissimo sonno, senza fine e senza risveglio; e tu dunque, sepolto dentro la terra, silenzioso starai”. Anche Orazio scriveva che il ciclo delle stagioni si rinnova all’infinito mentre noi esseri umani, una volta discesi nella morte, “siamo polvere e ombra”. Il neo-paganesimo di Carducci si lega non solo al naturalismo antico ma anche al materialismo di origine illuministica e classicistica di Foscolo e Leopardi.

 

L’albero di melograno verso il quale tendevi la mano piccina e graziosa, il melograno dalle foglie verdi e dai fiori di un colore rosso intenso, è rinverdito tutto ora nell’orto solitario e silenzioso e il mese di giugno lo ristora di luce e di calore. Figlio mio, tu fiore della mia pianta provata e inaridita, unico estremo fiore, sei sepolto nella terra fredda, sei nella terra nera, né il sole più ti rallegra né ti risveglia amore.

 

Prime due quartine, vv. 1-8. Il campo semantico è tutto illuminato da immagini di calore e di luce in una struttura poetica mossa e variegata: irrompe nella descrizione la vitalità della primavera. Il melograno ha foglie verdi, i fiori sono vermigli (intense esuberanti note coloristiche accentuate dal verbo “rinverdire”, v. 6), c’è il caldo del mese di giugno. Domina il sole ma subito si insinuano due note di contrasto, che evocano un’immagine di morte, il “tendevi” nel primo verso (il verbo, riferito al passato, indica una situazione che non può più replicarsi) e “il muto orto solingo” (v. 5): c’era davvero un orto nei pressi della casa bolognese della famiglia Carducci; il giardino ora è muto perché non risuona più della voce e dei giochi del suo bambino. Le rime accompagnano il racconto-evocazione: la mano del piccolo si protende verso lo splendido melograno (vv. 2-3) –una continuità e un legame tra bimbo e pianta, due espressioni di vita naturale-, l’or ora della rinascita coloristica si intreccia al ristora del ciclico ritorno di giugno (vv. 6-7), la natura ritorna prorompente con la sua vitalità ma l’orto resta muto e solitario; muto, all’interno del verso 5, richiama in opposizione evidente tutto, staccato al centro del verso 6; fior e calor (vv. 4 e 8) sembra che non abbiano contropartita ma in realtà contribuiscono a una suggestiva ripetizione fonica in tutto il gruppo “or” (fior, orto, or ora, ristora, calor): una totalità omogenea e positiva di immagini e di suono. Anche i verbi, rinverdì / ristora (vv. 6-7) –con l’interessante allitterazione iniziale “ri-ri” (prefisso che indica il ritorno di qualcosa che è accaduto e che potrà accadere anche in futuro) e il suono vibrante delle “r”– confermano questa polarità vitalistica, un rapporto positivo con la realtà naturale. Altro legame fonico è il VERDE (v. 3) che si lega a VERmigli (v. 4) e a rinVERDì (v. 6). Le immagini, pur soffuse da una certa malinconia, sono suggestive. C’è unità e –insieme- contrapposizione tra “bimbo e melograno”, due espressioni di vita naturale: l’essere umano però è destinato alla morte irrimediabile mentre la pianta muore per rinascere.

Seconde due quartine, vv. 9-16. Ora domina incontrastato il motivo del freddo, del buio, della sterilità, del lutto e della privazione. Nei versi si susseguono ripetizioni e anafore che dimostrano un’improvvisa concitazione dei sentimenti. Una coppia di sostantivi (luce, calor) del verso 8 si oppone a una coppia di aggettivi (negra, fredda) dei vv. 13 e 14: la negazione della luce e del calore del sole del mese di giugno (la natura) è la rappresentazione della morte, la discesa nella terra; un padre disperato e impotente constata con amarezza, marcata dal parallelismo, la mancanza di gioia (né il sol più ti rallegra) e la fine dei legami vitali e amorosi (né ti risveglia amor).

Un fitto intreccio di figure retoriche conferma un controllo letterario sapiente, un equilibrio e una razionalità della forma che si sovrappone a una sovrabbondanza di sentimento e di emozione. In primo luogo l’anafora (tu, tu; sei ne la terra, sei ne la terra; né, né; ti, ti) che per ben sei volte usa il pronome o il verbo di seconda persona, poi l’epifora (fior, fior) all’inizio e alla fine della terza quartina, i chiasmi ripetuti (tu fior de la mia pianta, tu de l’inutil vita / estremo unico fior) (né il sol più ti rallegra / né ti risveglia amor), e infine –ma centrale- la metafora (fior de la mia pianta, v. 9): il figlioletto è il fiore e il frutto dell’albero paterno, un albero però che con la sua morte si è isterilito (pianta percossa e inaridita, inutil vita), sempre più ossessionato ormai dalla coscienza della fine. L’improvvisa scomparsa del bambino fu un colpo molto duro per il poeta che in una lettera del 14 novembre 1870 così scriveva a un amico: “Io avevo avviticchiate intorno a quel bambino tutte le mie gioie tutte le mie speranze tutto il mio avvenire: tutto quel che mi era rimasto di buono nell’anima lo avevo deposto su quella testina”.

Conclusione. Ora abbiamo chiara coscienza della struttura del testo. C’è un triangolo (albero-pianta-fiore) che costruisce un paragone tra l’albero reale del melograno e la pianta metaforica della vita di Carducci e le filiazioni del figlio-fiore di entrambi. Ma i campi semantici letterali (il melograno) e metaforici (il poeta) arrivano a un drammatico contrasto: l’albero esplode di colori e di vitalità e rinasce dopo la quiete dell’inverno, il padre è schiantato dalla violenza e dall’insensatezza della morte del figlioletto, perdita irrimediabile. L’orto è terra che produce vita (da orior, nascere, sorgere), così il volgere delle stagioni porta con sé lo sfiorire e il rinascere, come anche l’alternarsi del buio e della luce, del caldo e del freddo; la natura si ricostruisce in un ciclo perenne e l’uomo? Il poeta si arrende alla sua ideologia di positivismo naturalistico incapace di dargli qualche spiegazione; il non riuscire a trovare una soluzione al problema della morte intacca il suo sostanziale ottimismo positivistico; la sua arte, però, è capace di trasfigurare un ricordo autobiografico e intimamente personale in un simbolo di dolore universale.

Anni dopo Carducci ritornerà sullo stesso tema con una poesia, un’ode barbara, composta fra il 29 gennaio e il 24 marzo 1881 e intitolata “Nevicata”.

 

Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinereo: gridi,

suoni di vita più non salgono da la città,                                                   2

 

non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,

non d’amor la canzone ilare e di gioventù.                                                          4

 

Da la torre di piazza roche per l’aere le ore

gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.                                          6

 

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici

spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.                                        8

 

In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore-

giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.                                                10

 

La neve fiocca lentamente volteggiando qua e là per il cielo grigio e scuro: dalla città non salgono più né gridi né suoni di vita, non il grido della venditrice di erbe o il rumore di un carro che avanza, non canzoni gioiose d’amore di giovani. Dalla torre della piazza si sente il suono sordo della campana che batte le ore e sembrano gemiti, sospiri di un mondo fuori del tempo. Uccelli sperduti picchiano ai vetri appannati: ritornano le ombre di amici che ho conosciuto e amato, mi guardano, mi chiamano. Fra poco, o cari, fra poco –càlmati, cuore mio che hai resistito a tutti gli attacchi- scenderò giù nel regno del silenzio, riposerò nelle tenebre della morte.

Nel racconto c’è il poeta all’interno del suo studio, lo sguardo al cielo pieno di neve, la finestra dai vetri appannati, una precisa attenzione al silenzio che nasconde i suoni consueti della città innevata, solo il rintocco isolato delle ore della torre di piazza. A metà poesia, al verso 6, c’è il passaggio dall’osservazione esterna a una nota interiore, a un’allusione segreta, il sospiro misterioso di un mondo lontano e perduto, la voce prima dei suoi morti. I picchiettii degli uccelli “raminghi” sono subito avvertiti nel loro significato simbolico come richiami dell’aldilà, come avvertimenti lugubri della vicinanza della morte. E all’impressione lugubre concorre il metro, con quel secondo verso tronco, dal suono, più ancora che cupo, paurosamente stanco.

In questo testo c’è la consapevolezza che i morti non deludono e non tradiscono e che la tomba affascina perché sembra il rifugio, la sicurezza dolorosa contro gli inganni della vita, della mediocrità e della viltà del presente che si è costretti a vivere, lontani dai sogni della giovinezza.

                                                                       Antonia  A.