Giacomo Noventa, “A Clara Lotte Fuchs”, 1933

Giacomo Noventa (1898-1960), “A  C. L. F.”, 1933

 

Gh’è nei to grandi –oci de ebrea

come una luse- che me consuma;

no’ ti-ssì bèla –ma nei to oci

mi me vergogno- de aver vardà.                                            4

 

Par ogni vizio –mio ti-me doni

tuta la grazia- del to bon cuor,

a le me vogie ti ti-rispondi,

come le vogie-mie fusse amor.                                                8

 

Sistu ‘na serva –no’ altro o pur

xé de una santa- ‘sta devozion?

Mi me credevo un òmo libero

e sento nascer- in mi el paron.                                                12

 

Vero xé forse –che in tutti i santi

gh’è un fià de l’ànema- del servidor,

ma forse, proprio –par questo, i santi

no’ se pardona- nel mondo amor;                                         16

 

no’ i canta, insieme –co’ done e fioi,

intorno ai foghi, -“El pan! El vin!”,

co’ more l’anno –nei me paesi,

se prega un altro –anno al destin;                                          20

 

secondo el fumo –che va col vento,

scominzia i vèci- a profetar…

“O scarso, o grando –ne sia el racolto,

sperar xé tuto- e laòrar”.                                                                      24

 

Cussì mi vivo –zorno par zorno,

come un alegro- agricoltor,

vùi destraviarme –vardarme intorno,

méter un voto- fra mi e ‘l Signor…                                          28

 

Ma nei to grandi –oci de ebrea

ghe xé una luse- che no pardona;

ti-ssì una santa- e nei to oci

no vùi più creder- che gò vardà.                                             32

 

da “Versi e poesie”, 1932-‘33

 

Questa poesia è scritta in dialetto ma non appartiene al mondo della poesia dialettale. Non c’è amore per il localismo e il bozzetto, non si affida alla voce di un parlante popolare –e non ha nemmeno quell’ambizione di lingua vergine o di squisita barbarie su cui hanno puntato molti neo-dialettali novecenteschi. Noventa era un intellettuale cosmopolita, vissuto tra Venezia Torino Firenze, e Parigi Heidelberg Londra; si è costruito un dialetto per nostalgia e per sdegnoso auto-esilio; ritenendo l’italiano infrequentabile (per odio contro la cultura del fascismo e contro i letterati italiani contemporanei) ha scelto di ispirarsi al veneziano colto che parlavano i nobili di terraferma per distinguersi dai contadini –come elesse a nome d’arte Noventa (lui Cà Zorzi all’anagrafe) in omaggio al paesetto di nascita, Noventa di Piave. Una maschera di possidente terriero conservatore, in polemico rimpianto d’un tempo antico quando in dialetto si poteva conversare con amici selezionati e magari recitare affabilmente versi senza scriverli; una società civile e umanamente gerarchica dove l’onore e il rispetto contavano più del mito massificato della sublime gloria letteraria. Anche il metro è volutamente inattuale, un doppio quinario che traduce in italiano il novenario di Goethe, raggruppato in quartine con rime tronche ai versi pari (salvo un paio di licenze).

La C.L.F. della dedica è Clara Lotte Fuchs, una ragazza che era stata sua compagna negli anni di Heidelberg. E’ una strana poesia d’amore, in cui l’innamorato dichiara di vergognarsi della relazione e di volerla rimuovere. Tutto si concentra negli occhi di lei. “,Occhi di ebrea”: espressione rischiosissima perché riassume stereotipi e paure –c’è erotismo ed esotismo, c’è l’abisso di molte generazioni perseguitate, c’è l’ingannevole ansia di assoluto e riscatto di una borghesia troppo imbelle per non essere destinata a soccombere sotto la sferza dei totalitarismi. Occhi grandi, colmi di una luce che consuma; con una punta di masochismo che risveglia in lui una vena di sadismo libertino. Alle sue “voglie”, tutte esplicite e materiali, lei risponde (per bontà di cuore) come se quelle voglie fossero amore; dal banale malinteso di un rapporto disuguale parte un’armonica di senso che coinvolge i fondamenti stessi della società e della religione. L’abnegazione servile di lei priva anche lui di un grado di libertà: il padrone non è più un uomo libero perché presuppone la servitù dell’altro. Peggio ancora: quell’abnegazione erotica ambisce a essere interpretata come devozione infinita, mistica –ma i santi veri (anche se in tutti loro si nasconde forse un “fià”, un pochino, dell’anima del servitore) sanno distinguere i piani e “no se pardona”, non si permettono, amore nel mondo. Sanno che l’amore divino ha altre leggi rispetto all’amore degli uomini. Qui Noventa si lancia in una digressione sui rituali agrari del capodanno nelle sue terre: con sulla bocca i nomi dell’eucarestia (il pane, il vino), con la rassegnazione nel cuore (gli auspici non sono veri auspici ma mansueta accettazione, la speranza si riduce alla necessità di lavorare), i contadini obbediscono ai limiti imposti dalla Chiesa pur di garantirsi la sicurezza del nido (“co’ done e fioi”). Il poeta si proietta nell’immagine arcadico-utopica dell’allegro agricoltore; di chi vuole distrarsi dalle complicazioni morbose, “méter un voto”, cioè stipulare un patto tra se stesso e il Signore –misticismo a buon mercato no grazie.

Quel che poteva essere un elegante madrigale settecentesco sul rifiuto della reciprocità amorosa s’è rivelato il campo di battaglia di convinzioni decisive: questa ebrea non bella ma dai grandi occhi è il contraltare di un’altra ebrea dalle belle gambe, la Dora Markus di Montale. Condannata a sparire nel gorgo coi suoi antenati “alteri e deboli”, col suo magico amuleto, Montale ne idealizza la figura: ne fa un simbolo. Riferendosi alle ambizioni sbagliate dei “poeti moderni”, Noventa postillava acido “i se contenta de qualunque dona / e po’ i la vòl beata su le carte”. Per lui non può e non deve esserci confusione tra vita e poesia, nessun ambiguo stilnovismo è possibile. Eppure, eppure. L’oscillazione dubbiosa della terza quartina (sei una serva o una santa?) viene sciolta nell’ultima a favore del secondo corno: “ti-ssì una santa”. Dunque é lui che, non volendo più ammettere di aver guardato in quegli occhi, si esclude dalla santità pur approvando la Chiesa. In quegli occhi ci ha pur guardato e la poesia non sa chiudersi se non tornando su quel segno indelebile di contraddizione. I parametri si confondono: è l’ebrea a donare la “grazia” ed è lui che vorrebbe stabilire un “patto” per difendersi da una rappresentante di quello che è per eccellenza il “popolo del patto”; la santità di lei lo fa sentire un “paròn” ma il popolo in cui vorrebbe rifugiarsi adotta nel parlare comune il “sciào”, il “servo suo”, il “comandi”. Se le poesie servono a mettere in crisi le convinzioni ideologiche dell’autore, gli occhi di Clara Lotte Fuchs –nel ricordo e nell’ossessione- hanno scardinato per un istante l’aristocrazia reazionaria di Noventa, la sua snobistica esibita estraneità ad ogni decadentismo.

 

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 29 giugno 2014, p. 50