La “Commedia umana” di G. G. Belli. “L’inferno romano”. 1- “S.P.Q.R.”, Senatus Populusque Romanus. Un’interessante diatriba leghista risolta in poesia “terrona”.

S. P. Q. R.  “Senatus Populusque Romanus”. L’opinione spassionata di un “romano de Roma”, Giuseppe Gioacchino Belli.

 

Ha fatto molto rumore, negli scorsi mesi, l’invettiva scagliata contro i romani dal segretario della Lega Nord, il senatore Umberto Bossi, che, in un raduno per eleggere e festeggiare Miss Padania, si è lasciato andare a un’interpretazione estemporanea dello storico acronimo S.P.Q.R., segno della forza e dell’orgoglio delle legioni e delle istituzioni dell’antica Roma. Bossi, volendo dileggiare gli abitanti della capitale d’Italia –come è suo costume, bisogna dire, con tutti i simboli dell’italianità, persino la bandiera-, ha suggerito: “Sono porci questi romani”. C’è stato un profluvio di commenti, arrabbiati taluni, sarcastici altri, scandalizzati quelli benpensanti, imbarazzati quelli degli alleati di maggioranza e di governo, con le solite banali giustificazioni sul linguaggio popolaresco e schietto delle contrade padane. Il tutto si è concluso, dopo alcuni giorni di aspra polemica, con una solenne mangiata in piazza Montecitorio, a Roma, nella quale i maggiorenti leghisti e il sindaco di Roma, Alemanno, e la presidente della regione Lazio, Polverini, hanno fraternizzato mangiando paiata e polenta.

Mi ha meravigliato che nessuno dei commentatori si sia ricordato dei sonetti che nella prima metà dell’Ottocento il più grande poeta dialettale italiano, il Belli appunto, finissimo intellettuale romantico-illuminista e formidabile reazionario, aveva dedicato al tema. Io voglio riprendere qui solo alcuni di quei testi per suggerire qualche spunto di riflessione.

 

                                               S.  P.  Q.  R.                         4 maggio 1833

 

Quell’esse, pe, cu, erre, inalberate

sur portone de guasi oggni palazzo,

quelle sò quattro lettere der cazzo,

che nun vonno dì gnente, compitate.

 

M’aricordo però che da regazzo,

quanno leggevo a fforza de frustate,

me le trovavo sempre appiccicate

drent’in dell’abbeccé ttutte in un mazzo.

 

Un giorno arfine me te venne l’estro

de dimannanne un po’ la spiegazione

a don Furgenzio ch’era er mi’ maestro.

 

Ecco che m’arispose don Furgenzio:

“Ste lettre vonno dì, sor zomarone,

“Soli preti qui reggneno”: e ssilenzio”. 

 

Non credo che ci sia bisogno di traduzione. La bellezza e l’icasticità dei versi sono mirabilmente conclusivi. Il nostro poeta, nella solitarietà della sua scrittura clandestina, creerà altri testi che ci consentono di ricercare alcuni fili della sua meditazione su questo tema.

Va premessa, però, una notazione che traggo dall’Introduzione che lo stesso Belli scrisse quando già aveva creato quasi 300 sonetti per chiarire il disegno unitario sotteso alla sua Commedia Romana. Ne riporto alcune frasi: “Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda (…) I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (non artificiali, del tutto sincere) (…) Esporre le frasi del Romano quali dalla bocca del Romano escono tuttodì, senza ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso: insomma, cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio scopo. Io non vo’ già presentar nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia (…) Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una imagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento (…)  Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee. Ogni pagina è il principio del libro: ogni pagina è il fine”.

 

Riprendiamo il filo del nostro discorso. Ecco il sonetto 2117 (nella collana diretta da B. Cagli), scritto il 31 ottobre 1846:

 

                                                           Preti e ffrati

 

Però, sibbè gnisuno ve lo nega

che ppreti e ffrati qua ssò ttutti boni,

ditem’un po’, voantri talentoni,

come s’impiccia? Come va sta bèga

 

che o mmagni, o bevi, o dormi, o canti, o ssoni,

o giochi, o ppisci, o apri una bottega,

ecchet’addosso un prete che tte frega

o un frate che tte scoccia li cojoni?

 

Sii bianco, o rosso, o nero o ppavonazzo,

vadi in zottana, in tonica o in mozzetta,

de questo a me nun me ne preme un cazzo.

 

O ttienghino er cappuccio o la barretta,

io, per me ttanto, ne farebbe un mazzo

da scaricallo ar porto de Ripetta.

 

Un po’ di tempo prima, il 27 novembre 1831, quando da poco più di un anno Belli aveva cominciato a scrivere, in clandestinità, i suoi sonetti dialettali, aveva creato un testo molto più bruciante:

 

                                   La Reverenna Cammera Apopretica

 

Sta Cammera de Cristo è una puttana:

beati quelli che la ponno fotte,

e daje che sse sentino le bòtte

sino ar paese de la tramontana.

 

Dapertutto qui sbarcheno marmotte,

che nun zò usciti ancora da dogana

che ssubbito, alò, chìrica e ssottana,

eppoi tajele giù che ssò ricotte!

 

A Roma, abbasta de sapé er canale

e trovà er bucio pe fficcà un zampetto,

a quaresima puro è carnovale.

 

Ma er padre de famija poveretto

nasce pe tterra, more a lo spedale,

e si ffiata ciabbusca er cavalletto.

 

                                               La Reverenda Camera Apostolica

Questa Camera curava l’amministrazione dei beni della Chiesa, corrispondeva perciò al dicastero delle Finanze. Questa Camera di Cristo è una puttana, beati quelli che possono ingannarla, e darle tante di quelle botte che si sentano fino ai paesi del nord. Da tutte le parti del mondo qui sbarcano marmotte (che tentano la carriera ecclesiastica) che non sono ancora uscite dalla dogana che subito, alò, si fanno la chierica e indossano la sottana, e dopo balzano al comando su tutto e su tutti. Qui a Roma occorre solo sapere il canale e trovare il buco per ficcarci lo zampetto, che poi è sempre carnevale, pure nei giorni di quaresima. Ma il povero padre di famiglia nasce per terra, muore all’ospedale (dove morivano solo i più poveri), e se protesta appena con un filo di voce ci busca pure la tortura.

 

In altri momenti Belli, al di là di ogni identificazione storica, costruisce dei personaggi che in modo fulmineo rappresentano un’epoca e un individuo colti nell’ora della più profonda verità. E’ il 18 ottobre 1833:

 

                                              

 

L’udienza de Monziggnore

 

Nun dico che nun vai da Monziggnore,

ché de raggione tu ce n’hai d’avanzo:

dico che nun ce vai de doppo-pranzo,

perch’è arta la pasqua, Sarvatore.

 

Quell’è er tempo ch’er povero signore

fa un po’ de ròtti sur zofà de ganzo:

e lui se pija quer tantin de scanzo

pe dà udienza a le pupe e ffà l’amore.

 

Oppuramente ruzza cor caggnolo,

o s’aritira in stanzia a contà er morto,

o biastima tra ssé da sol’a ssolo.

 

Nun ciannà dunque a or d’indiggistione:

ché la matina, è vero, po’ dà ttorto,

ma er doppo-pranzo nun dà mai raggione.

 

Io non ti dico di non andare dal Monsignore, perché tu hai sicuramente ragioni da vendere: io dico che tu non devi andarci nel dopo-pranzo, e se ci vai sei un ubriaco, non capisci con chi hai a che fare (a Roma la locuzione “essere alta la Pasqua” voleva dire “essere ubriachi”). Quello è il tempo che il povero monsignore fa un po’ di rutti sul sofà di stoffa dorata: e lui si piglia quel poco d’intervallo di tempo per ricevere le femmine e farci l’amore. Oppure scherza col cagnolino, o si ritira in una stanza a contare le monete d’oro nascoste, o bestemmia tra sé tutto solo. Non andarci, dunque, nell’ora della digestione: perché di mattina, è vero, può capitare che dia torto, ma nel dopo-pranzo stai sicuro che non dà mai ragione (perché nei momenti che dedica a se stesso è sicuramente nemico del prossimo).

Un prelato cristiano, governatore della città, tutto dedito a soddisfare solo gli istinti bassi e volgari, un vero nemico dei più profondi e autentici valori del cristianesimo (un ateo devoto di oggi?). Una figura letterariamente potentissima.

Vorrei terminare riportando un sonetto scritto dal nostro poeta il 18 dicembre 1834, proprio nello stesso periodo in cui a Napoli Leopardi sta scrivendo i “Paralipomeni della Batracomiomachia”, le “Aggiunte della Battaglia dei topi e delle rane”, in cui i topi sono i liberali napoletani, le rane i borbonici e i granchi gli austriaci. E’ davvero interessante, e anche commovente, a pensarci bene, la ripresa belliana di questi riferimenti animaleschi:

 

                                               L’elezzione nova

 

Dice che un anno o dua prima der Monno

morze ne la città de Trappolaja

pe un ciamorro pijato a una battaja

er Re de sorci Rosichèo Siconno.

 

Seppellito che ffu da la sorcaja

sott’a un zasso de cacio tonno tonno,

settanta sorche vecchie se serronno

pe fanne un antro in un casson de paja.

 

Tre mesi ereno già da tutto questo,

e li sorcetti attorno a quer cassone

s’affollaveno a dì: “Famo un po’ ppresto”.

 

Quant’ecchete da un bucio esce un zorcone

che strilla: “Abbemus Divorìno Sesto”.

E li sorci de giù: “Viva er padrone”!

 

Si narra che all’inizio dei tempi morì nella città di Trappolaja, per un cimurro preso in battaglia, il re dei topi Rosicheo Secondo. Dopo che il re fu sepolto da tutta la topaglia sotto un sasso di cacio tondissimo, settanta vecchi topi (si allude al Collegio cardinalizio riunito nel conclave da cui fu eletto papa Gregorio XVI) si chiusero in un cassone di paglia per sceglierne un altro. Passarono tre mesi e intorno a quel cassone i sorcetti si affollavano per gridare: “Facciamo presto”. Ed ecco che da un buco esce un topone che strilla: “Habemus Divorìno Sesto”. E la folla dei topi a sgolarsi: “Viva il padrone”!

 

Mi sembra chiaro che lo scopo principale dell’opera del Belli è raggiungere un realismo integrale e totale, romantico ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi. Semmai obbediente a “La Verità è com’è la cacarella, / Che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / Hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / E stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / La Santa Verità sbrodolarella / T’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).

                                                                                   Gennaro  Cucciniello