Belli. “Er caffettiere fisolofo. 22 gennaio 1833”

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Gli intellettuali”. 3- “Er caffettiere fisolofo”, 22 gennaio 1833.

 

La Commedia romana di G. G. Belli ha trasfigurato per sempre la città del papa in un’immensa città poetica, realisticamente colta in tutta la sua vita sociale, politica, religiosa e culturale, nelle sue contraddizioni, nei suoi contrasti, nelle sue ipocrisie e ingiustizie, nella sua frenesia sensuale e nella sua miseria.

Nei sonetti vibra non tanto l’ironia dell’intellettuale mefistofelico –insieme male assoluto e carognone da operetta- quanto l’immedesimazione emotiva del ritrattista nel soggetto. In quel popolo rozzo fino a livelli subumani –che lui ritraeva- scorreva l’antica grandezza di Roma. Si noti l’ampiezza biblica di certi versi, come la cacciata di Lucifero dal Paradiso: “… stese un braccio lungo seimila mijjia er Padreterno / e serrò er Paradiso a catenaccio”.

Il poeta osservava con affettuosa simpatia gli interni delle case povere ma anche con mordente allusività le azioni, tutte turpi o parassitarie, d’una plebe senza educazione e senza assistenza. Parlano i suoi vetrai quando uno di loro deplora che il papa sia scelto sempre tra i cardinali e s’immagina che possa toccare a lui di essere chiamato all’alta carica. “Mettemo caso: sto abbottanno er vetro./ Entra un Eminentissimo e me dice:/ “Sor Titta, è papa lei. Vienghi a San Pietro”. Parlano gli impiegati e i burocrati, gli artigiani e le casalinghe, i preti e i miscredenti: e il nostro poeta è come un confessore che riesce, tramite tutti questi interlocutori, a scoprire qualcosa di sé, gli angoli bui; una sorta di buona iena che, mangiando i suoi personaggi, nutre se stesso. E finiamo con Marco Aurelio, con la sua visione desolata dell’ineluttabilità della morte. Aveva scritto l’imperatore filosofo: “Molti granelli d’incenso cadono sulla medesima ara, uno prima, uno dopo. Ma non fa differenza”. Gli fa eco Belli: “L’ommini de sto monno so l’istesso / che vaghi de caffè nel macinino / ch’uno prima, uno doppo, un antro appresso / tutti quanti però vanno a un distino…”. Nella Introduzione alla sua “Commedia romana” Belli parla della “plebe di Roma come di cosa abbandonata senza miglioramento”. L’assenza nello Stato Pontificio di ogni possibilità di progetto di modernizzazione politica ed economica faceva sentire di più il male delle distanze sociali, incolmabili, e annullava ogni pur vaga promessa di qualche rimedio prossimo venturo che, se pur parzialmente e con lentezza, si stava realizzando nelle regioni del nord Italia. L’oppressione simbolica e materiale dei ceti poveri sarebbe stata più sopportabile se qualcuno sulla scena pubblica ne avesse fatto intravedere anche solo un parziale miglioramento, se le speranze di ascesa individuale o di gruppo fossero state un poco più realistiche. Ma non c’era a Roma nessun dibattito di idee, di impegno pubblico, di progetti politici e ideologici, insomma niente che potesse avvalorare un ruolo propositivo dei ceti intellettuali, se non quello di coltivare, immobili, archeologia e antiquariato. Per questo tanto più rilevante è il progetto di rappresentazione realistica integrale, romantica ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi e positivi, che elabora Belli. Duecentocinquanta anni prima circa Giordano Bruno aveva orgogliosamente ed eroicamente affermato di contro al tribunale dell’Inquisizione: “La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose”, pagando con la morte la sua coerenza. Il nostro poeta aveva più semplicemente scritto in un suo sonetto: “La Verità è com’è la cacarella, / che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / e stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / la Santa Verità sbrodolarella / t’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

 

Er caffettiere fisolofo             22 gennaio 1833

 

L’ommini de sto monno sò ll’istesso

che vvaghi de caffè nner mascinino:

c’uno prima, uno doppo, e un antro appresso,

tutti cuanti però vvanno a un distino.                                            4

 

Spesso muteno sito, e ccaccia spesso

er vago grosso er vago piccinino,

e ss’incarzeno tutti in zu l’ingresso

der ferro che li sfraggne in porverino.                                           8

 

E ll’omini accusì vviveno ar monno

misticati pe mmano de la sorte

che sse li ggira tutti in tonno in tonno;                                           11

 

e mmovennose oggnuno, o ppiano, o fforte,

senza capillo mai caleno a ffonno

pe ccascà ne la gola de la morte.                                                      14

 

Gli uomini di questo mondo sono come chicchi di caffè nel macinino: che uno prima, uno dopo e un altro dietro vanno però tutti a un unico destino. Spesso si spostano, cambiano posto e il chicco grosso scaccia spesso il chicco piccolino, e tutti s’incalzano, si spingono, si accalcano per entrare nella macina di ferro, nella ruota dentata che li macina fino a farne polvere. Ed è così che gli uomini stanno al mondo, rimescolati per mano della sorte che se li gira tutti in tondo in tondo; e ciascuno muovendosi, o lentamente o velocemente, senza mai essere veramente consapevoli, scendono sul fondo per cadere nella gola della morte.

 

Metro: sonetto (ABAB ABAB CDC DCD).

 

Le quartine. La meditazione si sviluppa attorno alla descrizione di un’azione concreta, a un oggetto, il macinino del caffè, di quotidiana materiale concretezza. Un caffettiere romano s’improvvisa filosofo popolare e trova una metafora di grande potenza visiva e drammatica per commentare il destino dell’uomo. Come ne “Li morti de Roma”, sonetto composto il giorno successivo a questo, e –ancor più- a pochi giorni di distanza da “La vita dell’omo”, scritta quattro giorni prima, il 18 gennaio 1833, la visione di una vita insensata e di una morte priva di trascendenza si esprime attraverso il duplice riferimento alla sfera corporea del cibo e al movimento. Il movimento dei vvaghi der caffè nner mascinino (v. 2) ha l’insensatezza ripetitiva della circolarità, accentuata da una serie di artifici formali: le insistenti allitterazioni e consonanze delle sibilanti (“s”) e delle labiodentali (“f”, “v”), la struttura circolarmente ripetitiva delle rime (mascinino-distino-piccinino-porverino) e le ripetizioni (uno prima, uno doppo, e un antro appresso; er vago grosso, er vago piccinino; in tonno in tonno), tutto sembra costruito per dare al sonetto un’insolita monotonia metrica. Ma il movimento circolare, aiutato dagli enjambement dei versi 1-2, 4-5, 6-7, è combinato con un progressivo implacabile sprofondamento verso la ferrea ruota dentata che annulla ciascuno in porverino e che farà cadere ciascuno ne la gola de la morte (v. 14).

I primi due versi sviluppano il paragone sul quale è fondato l’intero sonetto. Al v. 3 l’uso progressivo dei tre avverbi temporali (prima, doppo, appresso) e la marcata paratassi rallentano il ritmo della descrizione. Al v. 5 la disposizione a chiasmo di “spesso”  e la simmetria, nel v. 6, dei due sintagmi “vago grosso e vago piccinino” raggiungono un analogo effetto di monotonia. Perfino l’accenno alla sopraffazione esercitata dai più forti a danno dei più deboli (frequente nella poesia di Belli) trova posto in questa grandiosa rappresentazione metaforica (vv. 5-6), sottolineata ancora una volta dall’enjambement. E l’affollarsi dei chicchi di caffè (v. 7) rievoca la scena dantesca delle anime dannate in attesa di essere traghettate da Caronte (Inferno, III, 70-120). Il v.8, der ferro che li sfraggne in porverino, è immagine di un realismo folgorante e brutale. Le due strofe esprimono un senso di confusione e di movimento ininterrotto, che porta inevitabilmente al meccanismo di ferro che polverizza i chicchi.

Anche se gli uomini sono uniti nel comune destino di morte, durante la vita i loro rapporti sono regolati dalla violenza e dal sopruso. Tre anni dopo la composizione di questo testo, nel 1836, Leopardi ne “La ginestra”, sosterrà invece che “nobile natura è quella di colui che si rivela grande e forte nelle sofferenze, che non ritiene responsabili delle sue sciagure gli altri uomini (…), che considera la natura una nemica pensando che la società umana si sia unita e organizzata all’origine per combattere e contrastare la natura”. “Dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna./ Costei chiama inimica; e incontro a questa / congiunta esser pensando,/ siccome è il vero, ed ordinata in pria / l’umana compagnia,/ tutti fra se confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune” (vv.  123-135). Anche nello Zibaldone, gennaio 1829 (4428), Leopardi annoterà: “La mia filosofia di sua natura esclude la misantropia (l’odio tra gli uomini), di sua natura tende a sanare, a spegnere quel malumore, quell’odio che tanti e tanti portano a’ loro simili (…) La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio a principio più alto”. E in un’altra pagina: “Grande alleanza degli esseri intelligenti contro la natura”, 13 aprile 1827, 42, 80.   

Sostiene il Muscetta che il tema enunciato nei primi due versi può essere derivato da una pagina del romanzo “Delphine” di Madame de Stael, ricopiata dal Belli nel suo Zibaldone: “Voilà l’histoire de la vie! Notre destinée, la voilà! Des vagues engloutissant des vagues”. E le suggestioni letterarie continuano: da una prefazione agli “Adagi” di Erasmo da Rotterdam, edita ad Amsterdam nel 1649, il nostro poeta riprende un passo in cui compare l’immagine della vita come macina: “Vitam hominis esse instar molendini utpote quod semetipsum commolit, comminuit ac confringit…”. Questa matrice di raffinate fonti letterarie si sposa senza contrasti in questo sonetto con una fresca semplicità di stile; la sintassi segue un ordine elementare: la principale precede sempre la secondaria, quasi sempre il soggetto precede il verbo che regge (fanno eccezione i vv. 5 e 6 dove il verbo anticipa il soggetto senza però rendere contorto il fluire del senso). La semplicità stilistica è coerente con la semplicità concettuale: la vita è semplice, elementare, come lo stile che la significa.

Le terzine. Nelle due terzine il movimento circolare si trasforma in una caduta (caleno a fonno, cascà, vv. 13-14) in un precipitare nella gola della morte (che ricorda il baratro in cui cade il vecchio nel “Canto notturno” leopardiano). “Vecchierel bianco, infermo,/ mezzo vestito e scalzo,/ con gravissimo fascio in su le spalle,/ per montagna e per valle,/ per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,/ al vento, alla tempesta, e quando avvampa / l’ora, e quando poi gela,/ corre via, corre, anela,/ varca torrenti e stagni,/ cade, risorge, e più e più s’affretta,/ senza posa o ristoro,/ lacero, sanguinoso; infin ch’arriva / colà dove la via / e dove il tanto affaticar fu volto:/ abisso orrido, immenso,/ ov’ei precipitando, il tutto obblia./ Vergine luna, tale / è la vita mortale” (vv. 21-38).

Gli ultimi sei versi belliani descrivono bene il vano agitarsi degli uomini, vittime passive del destino (misticati pe mmano de la sorte, v. 10), costretti anche loro a un insensato girotondo. Non c’è spazio per la speranza: le aride e inesorabili leggi di questo mondo spingono gli uomini a un’inconsapevole e dissennata fuga verso la morte. Il tempo è la macchina inesorabile che, per conto del destino, attrae e –nel suo movimento sempre uguale- irretisce e stritola l’uomo. Questo filosofo popolano non ha una visione spirituale della vita: crede nelle cose che vede e che tocca e sa che la morte è la fine di tutto. Il caffettiere da un gesto assai comune ricava una metafora di grande evidenza: gli uomini-chicchi di caffè. Giustamente la critica afferma che la metafora non è solo un reperto antropologico ma la traduzione poetica della scoperta romantica della casualità e disarmonia del mondo, per cui l’infinita varietà dei casi e degli accidenti (il muoversi dei chicchi nel macinino) sembra guidata da un destino cieco, leopardianamente insensibile ai bisogni dell’individuo.

L’atteggiamento è disincantato: la concezione del caffettiere è assolutamente agnostica, non prevede forme di sopravvivenza dopo la morte; la storpiatura (l’idiotismo) del titolo indica che questa è una filosofia del buon senso popolare. Tutto si riduce a uno sperpero tutto corporeo e materiale di atti vani e ripetuti. Non a caso l’immagine ricorrente è  quella della ripetizione circolare delle azioni, che sse li ggira tutti in tonno in tonno (v. 11), vissute con incoscienza sino alla fine (senza capillo mai, v. 13). D’altronde, cosa c’è da capire? Le cose sono terribilmente semplici. La vita è solo questa insensatezza che esclude qualsiasi speranza in miglioramenti sociali e qualsiasi spiraglio verso la trascendenza. E la semplice metafora del macinino diventa un’immagine micidiale del destino umano.

Tutta la critica concordemente ha sottolineato che il tema è quello tipicamente barocco dell’azione livellatrice della morte. Anche la scelta di un congegno meccanico, il macinino, per rappresentare allegoricamente l’esistenza, ricorda la predilezione per i “marchingegni” tipica della poesia del Seicento (v. Ciro di Pers). Ma qui la voce del sonetto non è quella di un intellettuale raffinato ma di un semplice popolano: così la riflessione acquista il tono amaro e disincantato che scaturisce dall’esperienza quotidiana dell’uomo comune. Il testo è costruito in modo calibrato come un’unica lunga similitudine tra i grani di caffè (le quartine) e gli esseri umani (le terzine). Ciascuna di queste due parti si chiude con un verso a effetto, denso anche come sonorità: il ritorno delle r del v. 8 (der ferro che li sfraggne in porverino) e le due o in posizione accentata del v. 14 (la gòla de la mòrte). L’insolita monotonia ritmica del sonetto contribuisce a sottolineare il tono cupo e meditativo del discorso: da un lato sembra modellarsi sul ritmo della manovella del macinino, rafforzando così l’impressione che a parlare sia davvero un caffettiere al lavoro; dall’altro allude all’inesorabile precipitare dei chicchi (v. 3) verso la polverizzazione.

Il verso conclusivo (pe ccascà nne la gola de la morte) ha, secondo Vigolo, “un andamento fermo e pesante come una pietra tombale”, pietrificato dalla ricchezza dei suoni cupi. E richiama i versi finali della “Vita dell’omo”: “viè la morte, e ffinissce co l’inferno” e del “Giorno del giudizio”: “smorzeranno li lumi, e bbona sera”.

                                                          

Due giorni dopo, il 24 gennaio 1833, quasi per svagarsi Belli scriverà un inno alla vita:

                                               La bellona de Trestevere

 

Si ha cacca? lei? nun je se pò dì gnente;

nemmanco “che bell’occhi avete in fronte”.

E’ ssuperbiosa come un accidente,

più che ssi ffussi de cristal de monte.                                               4

 

Gran brutto fà co lei da protennente!

Lei nun vò ppe marito antro che un conte.

Penza mo ttu che ppò sperà un minente

che sta a ppescà co la bilancia a pponte.                            8

 

Oh, pe bellezza poi, proprio è sciarmante;

e pponno appett’a lei dasse pe vinte

guasi starìa pe dì l’anime sante.                                            11

 

Ché nun è come ste facce dipinte

de signore de grinza, che ssai quante

porteno cul de stracci e zinne finte.                                     14

 

Se è vanitosa? lei? non le si può dire niente, neanche “che begli occhi che avete”. E’ superba come un accidente, più che se fosse fatta di cristallo di monte (è un quarzo di pura silice). E’ brutta cosa agire con lei da pretendente! Lei per marito vuole solo un conte. Pensa tu che può sperare un povero trasteverino, che fa il pescatore con la bilancia sotto i ponti di Roma. Oh, in quanto a bellezza, lei è proprio stupenda; e rispetto a lei devono darsi per vinte –starei quasi per dire- le anime sante. Perché lei non è come queste facce truccate delle signore distinte, che quasi tutte portano stracci a rinforzare il culo e tette finte.

 

Gennaro Cucciniello