La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “L’Abbibbia romanesca”. 1- “La creazione der monno”

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “L’Abbibbia romanesca”. 1-  “La creazzione der monno”

 

Le poesie di Belli sono quadretti di genere, bozzetti naturalistici, un’infilata di macchiette popolane o sono costruite su una matrice molto più complessa e profonda? In questo sonetto il suo popolano è stato definito “un dottoretto plebeo”: attraverso l’inusuale interprete il poeta rilegge anche le Sacre Scritture, unificando comico e tragico. L’illustrazione colorita e ingenua della Genesi biblica ha tutte le tonalità del comico ma nasce da un sentimento tragico della vita: la comparsa dell’uomo sulla terra sembra un fatto del tutto fortuito e da subito si accompagna a severe proibizioni la cui violazione suona sinistramente fatale. Il realismo è demitizzante e perfino blasfemo. Quella Bibbia tanto raccomandata e idoleggiata dai romantici è letta dal Belli con la spregiudicatezza di Voltaire. Anche se rilegge la Bibbia, il nostro poeta è tutto al di qua, nel mondo dei vivi e del grande apparato ecclesiastico, la monarchia assoluta e per diritto divino con cui ai romani (e oggi agli italiani) tocca convivere, ne scopre anzitutto le umane debolezze, mimetizzate appena dal rosso cardinalizio. Tanti sonetti, che insistono sull’effetto comico del linguaggio plebeo e sull’ingenuità oggettiva del popolano che parla, dissimulano sempre un’ironia di tipo illuministico e approdano ovviamente a risultati sconsacratori.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, potrebbe  trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

 

La creazzione der monno                           4 ottobre 1831

 

L’anno che Ggesucristo impastò er monno,

ché ppe impastallo ggià cc’era la pasta,

verde lo vorze fa, ggrosso e rritonno,

all’uso d’un cocommero de tasta.                                         4

 

Fesce un zole, una luna, e un mappamonno,

ma de le stelle poi di’ una catasta:

sù uscelli, bbestie immezzo, e ppessci in fonno:

piantò le piante, e ddoppo disse: “Abbasta”.                     8

 

Me scordavo de dì cche ccreò ll’omo,

e ccoll’omo la donna, Adamo e Eva;

e jje proibbì da nun toccajje un pomo.                                11

 

Ma appena che a mmaggnà ll’ebbe viduti,

strillò per dio con cuanta vosce aveva:

“Ommini da vienì, sséte futtuti”.                                            14  

 

Nel momento in cui Dio creò il mondo, aveva già la materia a disposizione, decise di farlo verde, grande  rotondo, come un cocomero grosso e maturo. Fece un sole, una luna e un mappamondo, e poi un ammasso di stelle: nel cielo gli uccelli, sulla terra le bestie, nell’acqua i pesci: sulla terra creò l’erba, piantò gli alberi e poi disse “Basta!”. Dimenticavo di dire che infine creò l’uomo, e con lui la donna, Adamo ed Eva; ed intimò loro di non toccargli una mela. Ma appena l’ebbe visti mangiare proprio quel pomo, per Dio strillò con un gran vocione: “Uomini che dovete ancora nascere siete rovinati, siete dannati”.

 

Le quartine. L’inizio è tutto plebeo. La lontananza preistorica e biblica diventa concreta con la precisione di una paradossale determinazione temporale (L’anno), le persone della Trinità teologica sono confuse (Dio Padre è nominato come Ggesucristo, il Figlio), la Creazione non avviene dal nulla ma diventa opera di una massaia che lavora in cucina con la farina a portata di mano, un Dio pastaio tremendo e ingiusto. La ripetizione per tre volte in due versi di “impastò, impastallo, pasta” (vv. 1-2), crea effetti di irresistibile comicità e di materialismo familiare, nonché di allitterazione consonantica e di monotonia sonora. Lo stile sintetico e sbrigativo, il linguaggio colorito e realistico si rivela ancora di più col paragone di un mondo a un cocomero: noi quasi vediamo la scena, chissà quante volte ripetuta nelle strade di Roma durante i mesi estivi, un cocomeraio che strilla la sua merce, i consumatori che si fermano, toccano e chiedono, un coltello che apre un tassello per dimostrare che il cocomero è maturo (è interessante, a questo proposito, la visione di un’acquaforte colorata di Jean-Baptiste Thomas, “Il cocomeraio a piazza Colonna”, dipinta in quegli stessi anni e ora conservata nel Museo di Roma, a palazzo Braschi). Si procede, come spesso avviene in Belli, per simmetria trinitaria: verde, ggrosso e rritonno, il mondo; zole, luna e un mappamonno, ed è poi bellissima l’immagine della catasta di stelle, ammucchiate come in un deposito di legna. Vorrei anche far notare la densità materialistica degli elementi fin qui creati: la pasta dell’universo, la tasta del paragone cocomeraro, la catasta legnaiola degli astri in cielo, l’Abbasta stufato di chi si è stancato e crede di aver finito l’opera. E l’addensarsi, come in una miniatura di codice medievale, di uccelli, animali terrestri, pesci, piante.

Le terzine. Dio ha detto: “Basta” prima di aver creato l’uomo. Non affiora in modo indiretto ma è espressa chiaramente l’idea dell’inesistenza di una posizione privilegiata dell’uomo nell’universo, presenza trascurabile e destinata ad un’eterna condanna. La sua comparsa sulla scena del mondo può apparire come un fatto accidentale e secondario. E appena Dio li ebbe creati, l’uomo e la donna, subito li accompagnò con un suo severissimo divieto. Fate caso alla rima, l’omo (v. 9) – pomo (v. 11): sarà un caso che non viene citato il ruolo suggeritore di Eva né tantomeno l’intervento del serpente demoniaco tentatore? E’ Dio che sembra aver voluto farsi tentatore in prima persona dei nostri ingenui progenitori, ed è proprietario il tono di quella proibizione, da nun toccajje, quella sua mela. Nel v. 12 il drammatico peccato originale, fonte di tutte le sventure umane, è tradotto brutalmente e semplicemente in quel “mmagnà”, e l’oscura minaccia all’umanità è strillata, comicamente accompagnata da un “per dio” irrisorio. Per l’ultimo verso Muscetta ricorda i vv. 10 e 11 di un sonetto di Carlo Porta (ed. Isella, 123) fortemente blasfemo: “creà i ommen per dopo bozzaraj,/ l’è on ideja ben matta e strampalada” (creare gli uomini per poi rovinarli, è un’idea ben matta e strampalata). Ma forse nel Belli appare una più oscura atmosfera di dannazione e maledizione. Questa ingenua reinvenzione della narrazione biblica tradisce una visione pessimistica della realtà (qualcuno dice, un pessimismo cosmico non privo di analogie con quello di Leopardi) e un sentimento angoscioso della vita. E la rima finale “viduti – futtuti” rivela con nettezza il nesso tra lo sguardo inquisitore di Dio e la condanna senza appello per l’uomo, in una specie di ribaltamento comico ma nello stesso tempo spaventosamente tragico della negazione ideologica sottesa all’idea del Cristo Dio d’amore. Sembra che Dio abbia voluto cancellare le sue creature con la violenza sublimata di avocare a sé il diritto di nascondere, depistare, ridurre al silenzio, eliminare qualcosa o qualcuno da cui ci sentiamo minacciati. Umberto Galimberti ha recentemente scritto in un suo saggio, “Cristianesimo. La religione del cielo vuoto”, Feltrinelli, che la religione cristiana ha desacralizzato il sacro assegnando tutto il Bene a Dio e tutto il Male a Satana. Così facendo avrebbe eliminato dal concetto di Dio quella pienezza della vita che per esempio avevano gli antichi dei pagani e lo stesso Dio della Bibbia così mescolato alle vicende anche umane del popolo ebraico (la vita infatti è un miscuglio di bene e di male, di giustizia e ingiustizia, come dimostrano le esistenze degli uomini). Il popolano romano di Belli, secondo questa interpretazione, vivrebbe la sua fede superstiziosa immerso del tutto in un orizzonte pre-cristiano.

Il testo è una delle punte massime del pessimismo dell’autore, una delle estreme possibilità concesse prima di arrivare ad intuire il silenzio o la morte stessa di Dio. Nel racconto di questa creazione, annota Samonà, c’è una concezione ancora sostanzialmente geocentrica ma l’uomo è per davvero l’ultimo chiodo del carro universale, un essere di obiettiva infima statura. La sua comparsa sulla terra non è il coronamento della creazione: essa è raccontata come un trascurabile incidente, di cui il narratore può quasi scordarsi. E i due nostri progenitori, come se vivessero in un paese a regime poliziesco, sono appena stati creati e si trovano subito davanti ad una solenne proibizione. Il Dio rappresentato prima induce l’uomo in tentazione proprio con il divieto, poi diventa terribile quando vede che il suo tranello è riuscito. E’ un sadismo da noia? Dio è un vecchio bisbetico e capriccioso, potente e maramaldo? E’ un Dio risentito che ha creato il mondo per sfuggire alla solitudine e ci ha messo dentro “il suo brio e le sue angherie” (per dirla con Cioran)? In realtà Belli oggettiva in Dio i mali dell’uomo, che sono poi quelli di una Roma sventurata. Non è leggendo la Bibbia che il poeta ha conosciuto la violenza della teocrazia ma immergendosi nella vita di Roma: e riflettendo, ridendo e piangendo su quella soffocante vita quotidiana risale alla fonte dei mali, fino a Dio e costruisce la sua disperata metafisica. Un’idea si fa luce in lui, un’idea vaga, vuota, sterminatamente tragica, di un cosmo incomunicabile, di un’umanità dannata fin dall’istante della nascita. L’uomo, esposto all’assenza di senso e alla potenza del nulla, non può realizzarsi che nella meditazione della propria nullità. Dio onnipotente è una proiezione del Papa che “comanna e se ne frega” ma può stare anche accanto all’immagine della natura onnipotente e matrigna di Leopardi, con in più però una malignità brusca e stizzosa.

 

Il giorno prima, il 3 ottobre 1831, sempre a Terni il nostro poeta aveva scritto un sonetto nel quale affrontava con un tono scherzoso e quasi infantile il problema complesso dell’onnipresenza divina. Vediamo come:

 

                                   Er Ziggnore, o volemo dì: Iddio

Er Ziggnore è una cosa ch’è ppeccato

sino a credese indegni de capilla.

Più indifficile è a noi sto pangrattato,

che a la “testa de David la Sibbilla”.                                     4

 

A Ssanta Potenziana e Ppravutilla,

me diceva da ciuco er mi’ curato

ch’è come un fiàt, un zoffio, una favilla,

inzomma un “Vatt’-a-cerca-chi-tt’ha-dato”.                     8

 

E ppe spiegamme in tutti li bucetti

si come Iddio ce se trova a ffaciolo,

metteva attorno a ssé ttanti specchietti.                           11

 

Poi diceva: “Io de qui, vedi fijolo,

faccio arifrette tutti sti gruggnetti:

eppuro è er gruggno d’un curato solo”.                              14

 

Il Signore è un mistero tanto grande che è un peccato persino credersi degni di capirlo. Per noi è più difficile questo atto d’intelletto che capire le parole “Teste David cum Sibilla” (è una frase del Dies Irae”). Nella chiesa di Santa Pudenziana (è una chiesa antichissima nei pressi di S. Maria Maggiore; al secondo nome, quello di Pravutilla, non è dedicata alcuna chiesa di Roma, è un gioco semantico per la rima, forse una storpiatura di Domitilla), quando ero piccolo, il mio curato mi diceva che era come un soffio, una scintilla, insomma quelle parole che si dicono al gioco della “gatta ceca”. E per spiegarmi come Dio si trova benissimo in tutti i buchi, anche quelli piccolissimi, metteva intorno a sé tanti specchietti, poi mi diceva: “vedi, figliolo, io da qui faccio riflettere tutti questi visi: eppure è il viso di un curato solo”.

 

Su un più drammatico mistero teologico, il dogma trinitario, Belli ritorna poco più di un anno dopo. Si trova sempre a Terni, in viaggio da Narni, probabilmente sta andando da Roma a Morrovalle, come faceva di solito. E’ il 12 novembre 1832.

 

                                               La Santissima Ternità

 

“Ggni cosa ar monno ha er zu’ perché, ffratello,”

me disse martedì ffra Ppascualone:

“Li ggiudii adoraveno un vitello,

noi un boccio, una pecora e un piccione.                            4

 

Er boccio è ‘r Padreterno cor cappello,

che nnasscé avanti all’antre du’ perzone;

e Ccristo è la figura de l’aggnello,

che sse fesce scannà ccome un cojjone.                               8

 

E ‘r piccione vò ddì che ttanto cuanto

che la gabbia der crede sce se schioda,

addio piccione, addio Spiritossanto.                                    11

 

E allora sti dottori de la bbroda

currino appresso a mmetteje cor guanto

un pizzico de sale in zu la coda”.                                           14

 

“Ogni cosa al mondo ha il suo perché, caro fratello”, mi disse martedì scorso fra Pasqualone: “gli ebrei adoravano un vitello, noi cristiani adoriamo un vecchio, una pecora e un piccione (l’allusione è al simbolismo figurativo della Trinità). Il vecchio è il Padre Eterno col triangolo dietro il capo, che nacque prima delle altre due persone (neanche il frate sa bene il dogma che deve spiegare); Gesù Cristo è la figura dell’agnello, che si fece uccidere come una persona troppo buona e ingenua. Il piccione, poi, vuol dire che appena un poco qualcuno di noi si allontana dalla gabbia della fede, addio piccione, addio Spirito Santo. E allora questi dottori da nulla gli corrono appresso a mettergli col guanto un pizzico di sale sulla coda (si allude alla frase che si diceva per scherzo ai ragazzi che volevano avere uccelli liberi: “Allorché gli avrai messo un poco di sale sulla coda, quell’uccello non si muoverà più”).

Il nostro popolano ignorava la grande modernità dell’invenzione trinitaria cristiana. Rispetto agli altri due monoteismi, quello ebraico e quello islamico, la ricchezza originaria del cristianesimo –che discende dalla complessità della sua struttura trinitaria- vieta ogni trasposizione indebita dal monoteismo religioso a quello politico, secondo il modello imperiale antico che faceva corrispondere a un unico Dio un unico re. Alcuni teologi, tra i quali il card. Martini, non solamente attribuiscono alcuni caratteri autoritari del Dio dell’Antico Testamento alla difficile instaurazione del modello monoteista in un mondo antico politeista, ma interpretano anche il dogma trinitario nel senso di una relazione vitale con l’alterità. Solo un Dio capace di contenere in sé la pluralità può spezzare il vincolo dogmatico tra verità e forza.

Gennaro  Cucciniello