“L’infinito” di Giacomo Leopardi. Un tentativo di interpretazione.

“L’infinito” di Giacomo Leopardi. Un tentativo di interpretazione.

 

Questo è un lavoro scritto nel gennaio 1988 –venticinque anni fa- da una studentessa del quinto anno del Liceo Socio-Pedagogico Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di osservazioni acute e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua ed inevitabile approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, pur filtrate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica), naturalmente ricavate dai manuali e da alcune pagine saggistiche. Mi ha interessato, invece e soprattutto, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture. “Un classico”, scriveva Italo Calvino, “è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé: ma continuamente se li scrolla di dosso”. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, dipanare la matassa dei pensieri, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista: così i ragazzi hanno cominciato ad essere studiosi e non solo studenti. Penso che l’analisi di un testo poetico diventi molto interessante quando l’interprete riesce a farci capire cosa si nasconde dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. Questo naturalmente costa fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. 

Non voglio, perciò, che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi. Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.

prof.  Gennaro  Cucciniello

 

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani                                                    5

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce                                                           10

vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare.                                       15

 

Schema metrico: endecasillabi sciolti.

 

Ho sempre amato questa collina solitaria e questa siepe che impedisce allo sguardo di vedere gran parte dell’estremo orizzonte. Ma, sedendo e contemplando, io immagino in meditazione, al di là della siepe, spazi indeterminati, silenzi ignoti, non percepibili dall’esperienza umana, quiete assoluta; e in quegli spazi e in quei silenzi poco manca che il mio cuore non si smarrisca, spaventato dalla percezione dell’infinito evocata dall’immaginazione. Ma, non appena odo tra queste piante che mi circondano lo stormire del vento, io vado paragonando il silenzio infinito (che avevo immaginato) a questa voce, a questo stormire di foglie: ed allora mi viene in mente il pensiero dell’eternità, dell’infinito nel tempo, e le età passate della storia, e l’età presente, ancora viva e pulsante, e i suoi rumori, il suono delle azioni degli uomini che il presente restituisce. Così il mio pensiero si smarrisce in questa meditazione sull’infinito nello spazio e nel tempo: e provo piacere, mi inebrio quasi, quando il mio intelletto si perde nell’oceano dell’infinito.

 

Versi 1-3: Il poeta parla in prima persona, recupera le sue memorie personali, rievoca luoghi e ambientazioni familiari, esplora la sua soggettività. Indica, senza particolarmente dilungarsi nella descrizione, uno spazio concreto (l’area ristretta delimitata dalla siepe) e un’abitudine personale (il consueto salire sulla collina). Gli elementi esteriori si riducono ad un colle, ad una siepe che limita l’orizzonte, poi ad uno stormire di fronde. L’avvio è dato da una sensazione visiva, o meglio, dall’impossibilità della visione. Non si dimentichi che Leopardi concettualmente si muove nell’ambito della filosofia sensistica, quindi è importantissima la psicologia del soggetto, il punto di vista di colui che pensa e immagina (ricorrendo all’esperienza personale e anche rievocando gli stati d’animo fanciulleschi). La vista è impedita, la siepe annulla lo sguardo, gli impedisce di spingersi fino all’orizzonte estremo, il reale è escluso, subentra il fantastico. La sollecitazione naturale, sensibile, offre il pretesto ad una purissima immaginazione mentale, ad un intenso soliloquio. Leggiamo le parole dello “Zibaldone”: “allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale”. L’avverbio iniziale “Sempre” suggerisce la consuetudine affettuosa che Leopardi ha con il suo colle, un’idea rafforzata del resto dal “fu”, un passato remoto che rievoca infinite passeggiate, ripetute più volte negli anni. Il tempo verbale al presente, “esclude”, del terzo verso, anch’esso indica il ripetersi di un’esperienza, e così faranno tutti gli altri verbi usati nell’idillio, ugualmente tutti al presente. “Ermo” (che significa solitario, romito) ci svela da subito uno degli aspetti più interessanti del linguaggio di questa lirica: l’intreccio di tutta una serie di parole indefinite (ermo, interminati, sovrumani, infinito, eterno, immensità) con aggettivi dimostrativi (questo, quello), la cui inversione ci apre stimolanti squarci di interpretazione. Infatti la concretezza e la familiarità dei luoghi iniziali è confermata clamorosamente dalla ripetizione ostentata dei due aggettivi dimostrativi (questo colle, questa siepe) che, quando nei versi successivi si passerà alla visione tutta mentale dello spazio, si trasformeranno per miracolo in “quella” del verso 5: il poeta si stacca da ciò che lo circonda, va al di là della siepe, fingendo gli spazi interminati. Quanto più il pensiero si volge all’interminato tanto più ricorrono gli aggettivi dimostrativi: otto volte in quindici endecasillabi; e undici volte ricorre la congiunzione “e”, a segnare le riprese, i trapassi e il naufragare del pensiero. Non mi dispiace, infine, rilevare che i primi due versi sono composti da tutte parole bisillabe e piane mentre il terzo verso si allunga su un trisillabo sdrucciolo, “ultimo”, e su un quadrisillabo, “orizzonte”, come se le parole brevi si adeguassero perfettamente allo spazio ristretto mentre, quando questo comincia ad allargarsi, si ha bisogno di un piano lessicale più vasto: questa impressione sarà confermata clamorosamente dai versi successivi. Ci sono due coppie in relazione di assonanza: “sempre-siepe”, “caro-guardo” che confermano questo ritmo bisillabico. Un’ultima notazione: il primo verso è isolabile sintatticamente come lo sarà solo l’ultimo ed entrambi esprimono un sentimento d’affetto (sempre caro, m’è dolce), l’inizio e la fine si chiudono ad anello con andamento piano e paratattico; dal secondo verso inizia uno slittamento continuo di enjambements che vogliono sottolineare in un processo continuo ed unitario la presenza di momenti ben precisi e individuati: dal definito della siepe al naufragare nel mare dell’immensità.

Versi 4-8: Il periodo si apre con un’avversativa, “Ma”, seguita da due gerundi, “sedendo e mirando”, consonantizzanti e che indicano una durata: il corpo si posa, la vista interiore guarda e immagina (è un guardare senza vedere o un vedere senza guardare, quindi un’operazione del tutto mentale): il pensiero si costruisce l’idea di un infinito spaziale, cioè di spazi senza confini, immersi in silenzi al di là dell’umano (che la natura non conosce) e in una quiete profondissima, in una immobilità assoluta, spazi che trascendono la mente umana. Nello “Zibaldone”, alla data del 28 luglio 1820, il nostro poeta scriveva: “L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario”. Ci si allontana dalla realtà e il pensiero si immerge in uno spazio immenso, verso l’infinito immaginato, dove ogni segno umano è assente e dominano silenzio e quiete. Ci sembra addirittura che la quiete si opponga all’idea di movimento, come carattere essenziale della vita; un critico suggerisce che la parola stessa, quiete, porti con sé l’idea di morte (la “fatal quiete” del sonetto Alla sera di Foscolo). In questi versi c’è una netta prevalenza di parole molto lunghe, quadrisillabi (“interminati, sovrumani”) –non a caso in assonanza con vocali/ in “a”/ toniche, anche con “spazi”-, pentasillabi (“profondissima”), adattissimi a dare il senso di un’esperienza di spazi vertiginosi e vasti, con una immaginazione che scaturisce dall’altra e il tutto provoca smarrimento: un climax ascendente che connota il passaggio dallo spazio chiuso e familiare del colle di Recanati allo spazio esterno, illimitato, diverso, infinito, immobile, senza suoni, “il mondo delle idee rappresentate nei pensieri” commenta Lotman. Quando Leopardi a Napoli riprese l’idillio per l’edizione del 1835 sentì il bisogno di dare ancor meglio il senso di vastità illimitata e sostituì il plurale all’originale “interminato spazio”. E’ mirabile ancora la continuità sintattica e metrica che Leopardi usa per spiegare intellettualmente l’immersione nello spazio infinito: il discorso continua sempre nel verso seguente (enjambements in tutti i versi) e nel mezzo dei versi il polisindeto (“e sovrumani, e profondissima”) raccorda e accentua. La sintassi è più mossa, sono più frequenti i costrutti ipotattici. La dieresi nel sostantivo quiete ne prolunga il suono e l’impiego dei plurali rende le voci più indeterminate, “spazi, silenzi”. “Io nel pensier mi fingo” è un latinismo che significa plasmare, dar forma, creare, modellare ma anche conoscere perché di lì a qualche mese, nel luglio 1820, Leopardi annoterà nello “Zibaldone” che la natura non ha voluto che l’uomo considerasse l’immaginazione come “facoltà ingannatrice, ma la confondesse colla facoltà conoscitrice, e perciò avesse i sogni dell’immaginazione per cose reali”. A metà del verso 7, infine, c’è una pausa; la particella congiuntiva “ove” introduce un brivido di sgomento, di smarrimento, accentuato dalle vocali dal suono cupo (ove, poco, cor) ma soprattutto dall’accento tonico sulla “u” nel verbo chiave “spaura”, posto significativamente in rilievo alla fine del periodo: è un timore che non assale il pensiero ma il cuore, la parte più fragile del nostro essere. Così si chiude la prima esperienza di vertigine mentale, quella spaziale. Qualche critico ha affermato che questo tentativo del nostro poeta è stato “un disperato azzardo, la prova suprema di pensare qualcosa che è quasi impensabile”, con un contenuto affine in apparenza a quello di un pensiero del filosofo francese Blaise Pascal (1623-62), che Leopardi non poteva conoscere: “le silence éternel de ces éspaces infinis m’effraie” (l’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi sgomenta”).

Versi 8-13: un fatto quasi insignificante, del tutto naturale (“il vento odo stormir”) e sempre nel luogo familiare (“tra queste piante”), segna il passaggio –nuovamente attraverso una sensazione, la prima volta visiva, ora auditiva- dall’immaginazione spaziale a quella temporale. Il fruscio del vento, la voce più immateriale e misteriosa della natura, è termine di analogie metafisiche nell’insondabile abisso del tempo, commenta il Marchese: il confronto della breve voce della folata di vento (quasi un richiamo intimo ed umano) con l’infinito silenzio genera l’idea dell’eternità, e dunque del rapido fluire del tempo, passato e presente. Nello Zibaldone, alla data del 13 settembre 1821, Leopardi aveva scritto: “I suoni son cose materiali, ma poco materiali in quanto suoni, e tengono quasi dello spirito, perché non cadono sotto altro senso che dell’udito, impercettibile alla vista e al tatto, che sono i sensi più materiali dell’uomo”. E’ questa pausa, questo stormire del vento a determinare un cambiamento: il pensiero assume una nuova direzione e si volge dall’uno all’altro infinito. Ed è ancora un gerundio, comparando, a prolungare la meditazione del poeta, aggiungendo ampiezza e dolcezza. In rapidissima successione, anche questa volta accelerata ma in climax discendente, il poeta elabora il pensiero dell’eternità, silenziosissimo quello se paragonato a questa effimera voce del vento: e vi associa la memoria delle epoche storiche passate e svanite e i rumori del tempo presente e contemporaneo, inutilmente rumoroso, anch’esso destinato inevitabilmente a morire e ad estinguersi. Il presente è visto nella sua nullità, sullo sfondo di un tempo sterminato dove l’anima si perde e dimentica quasi la propria finitezza. Mi piace osservare che nella prima parte (vv. 1-8) il poeta è passato dalla finitezza della siepe all’indeterminatezza dello spazio sovrumano; in questa seconda parte il suono familiare del vento, risvegliandolo, lo fa precipitare dal pensiero dell’eternità alla coscienza del presente, in una sorta di andata e ritorno familiari e fantastici nello stesso tempo. La netta pausa al centro del verso 8, contrassegnata dal punto, segna il passaggio dal pensiero dell’infinito spaziale a quello dell’infinito temporale e serve a distinguere i due momenti. Ma la loro continuità è sottolineata dalla congiunzione coordinativa “E” all’inizio del secondo periodo, continuata dall’ “e mi sovvien” del verso 11 e precipitata quasi dal ripetuto polisindeto che copia l’esperienza dell’infinito spaziale (“l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei”). Le età innumerevoli del passato si configurano come stagioni, cioè labili e sparenti nel tempo. Le parole ora sono brevi, al massimo trisillabe; gli arditi polisillabi che davano il senso della vertiginosa esperienza spaziale cedono il posto a parole più brevi e consuete che quasi preparano alla pace del naufragio finale. Le congiunzioni (e la presente e viva, e il suon di lei ) insistono sulla presenza attuale della storia e ne fanno sentire, nello stesso tempo, la caducità, lo sparire irrimediabile. Il verbo “sovvien” (in latino “sub-venire” significa “sottentrare”) è di solito riferito al ritorno del passato nella memoria ma qui suggerisce il pensiero che affiora dalla profondità della mente, da una sua zona oscura. Qualcosa di reale all’improvviso si sovrappone alla condizione puramente mentale che dominava i versi 4-8, il vento stormisce, il senso dell’udito si accampa in primo piano, la memoria storica fa riflettere. Ho letto in un articolo che Pietro Citati ha scritto per la pagina culturale del quotidiano “La Repubblica”: “Con il vento risorge il limite, il qui, il questo, che prima il poeta aveva abolito col pensiero. La voce del vento cancella la concentrazione assoluta della mente nei propri abissi, allontana l’infinito che aveva creato e fa rinascere la realtà esterna. Mentre la realtà rinasce, rinasce il tempo –il terribile consumatore, il grande consolatore e confortatore- al quale egli aveva voltato le spalle. E si sforza di definire e concentrare il contenuto del flusso di sensazioni al quale è sottoposto. Fa luce nel mare del tempo. E tenta un altro esperimento intellettuale paragonando il silenzio infinito, che aveva appena creato con la mente, e la voce del vento che ora stormisce tra le piante”. Dove va il tempo? Dove vanno le stagioni passate? Come da una siepe è nato l’infinito dello spazio, così da un soffio nasce quello del tempo, un infinito ancora più sovrumano e interminato che la mente invano tenta di sondare e di comprendere.

Versi 13-15: così in questa meditazione sull’infinito spazio-temporale il mio pensiero si smarrisce, lo smarrimento genera piacere. La dolcezza inebriante di questo smarrimento (si noti l’ossimoro del “naufragar m’è dolce”) annega le mie facoltà intellettive nel mare dell’infinito. Si annulla l’io che si perde, che si annega ma questo rifiuto di sé è dolce, pacificato quasi. L’ampiezza delle vocali in “a” (immensità, naufragar, mare) dissolve i brividi di paura evocati dalle vocali dal suono cupo dei versi 7-8. La coscienza rappresentando all’uomo la verità, cioè la sua necessaria infelicità, gli incute paura; lo spegnersi della coscienza individuale dà una sensazione di piacere, garantisce una forma se pur effimera di felicità. Il critico Cellerino sottolinea che tra lo spaurarsi del cuore e la dolcezza del naufragio non vi è però contrasto, come potrebbe apparire a prima vista: essi infatti non sono che i due aspetti di quell’orrore dilettevole che, secondo il sensismo, è suscitato dall’immaginazione dell’infinito. Qualcun altro ha voluto leggere il componimento in chiave mistico-religiosa ma nello “Zibaldone” lo stesso Leopardi lo esclude con esplicita fermezza: “L’infinità dell’inclinazione dell’uomo è un’infinità materiale” (luglio 1820). Questo è un infinito tutto soggettivo, creato dall’immaginazione umana (io nel pensier mi fingo) ed è evocato da sensazioni fisiche, visive ed uditive, come di filtro sensistico sono le chiusure della paura (v. 8) e del piacere (v. 15). Gli aggettivi dimostrativi, ora, sono simmetrici a quelli dei primi due versi (questa immensità, questo mare /questo colle, questa siepe) ma spiegano benissimo il percorso del componimento: dal definito all’immensurabile, dal reale all’immaginario, dal sedere e contemplare al naufragare, al lasciarsi sommergere dall’ineffabile. Nella prima edizione Leopardi aveva scritto “questa infinità” –che voleva essere la ripresa del titolo e l’assolutizzazione del sentimento d’infinito- ma la parola, in quel contesto, era troppo razionale, astratta, mentre “immensità” è più vicina al linguaggio poetico e familiare ed è più coerente con il mare in cui subito dopo si tramuta. Mi piace, comunque, sottolineare che la dolcezza più profonda è sempre la dolcezza un po’ scontenta; scriveva il poeta nello “Zibaldone”: “scontentezza nel provare le sensazioni destatemi dalla vista della campagna, come per non poter andare più addentro e gustar più, non parendomi mai quello il fondo”. Parole che risalgono ai suoi ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza.

Alcuni critici, infine, hanno segnalato la possibile presenza in questi versi di una reminiscenza di Alfieri, “Vita”, epoca III, cap. IV: “sedendomi su la rena con le spalle addossate ad uno scoglio ben altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo: e così fra quelle due immensità (…) io mi passava un’ora di delizie fantasticando”. Quanto al naufragio, già nel 1896 Giovanni Negri segnalava tra le possibili fonti letterarie un passo del “Quaresimale” dello scrittore gesuita Paolo Segneri (1624-94): “Resterà subito il mio spirito assorbito in quel vasto Oceano di una grandezza infinita, ed ivi non trovando né spiaggia dove approdare né fondo dove giungere, amerò di andare eternamente annegandomi in un giocondo naufragio di contentezza”. Per finire alcuni hanno voluto far notare la corrispondenza interessante della relazione a chiasmo tra “il pensier mio” del v. 14 e “il naufragar” del v. 15: è veramente un dolce abbandono della mente. Così come, accanto a voci che hanno il registro dell’interminato, dell’infinito, del sovrumano, del profondissimo, dell’eterno, si collocano le due voci umilissime e discrete, semplici e pure, caro e dolce, “che aprono e chiudono l’arco dell’idillio”.                                                          

Elena  B.