Nazim Hikmet, “La cerimonia del mio funerale”, 1963.

Nazim Hikmet (1901-1963), “La cerimonia del mio funerale” (1963)

 

Il mio funerale partirà dal nostro cortile?

Come mi farete scendere dal terzo piano?

La bara non ci sta nell’ascensore

e la scala è stretta.                                                                       4

 

Forse il cortile sarà pieno di sole, di piccioni,

forse nevicherà, i bambini faranno tanto rumore,

forse l’asfalto sarà bagnato di pioggia

e nel cortile come sempre i bidoni della spazzatura.                8

 

Se sul furgone, come usa qui, mi caricano a faccia scoperta,

un piccione potrebbe farmi cadere qualcosa sulla fronte: porta bene.

Che ci sia o no la fanfara, i bambini verranno di sicuro,

i bambini sono curiosi dei morti.                                                12

 

La finestra della nostra cucina mi seguirà con lo sguardo,

il nostro balcone mi saluterà col bucato steso.

Non potete sapere come sono stato felice in questo cortile.

Miei casigliani del cortile, vi auguro lunga vita, a tutti…         16

 da “Ultime poesie”, 1963

Il “qui” del v. 9 non è Turchia, è Mosca: appartiene all’usanza russa dei funerali che la bara lasci scoperto il volto del defunto durante il trasporto. Hikmet, emigrato a Mosca fin dal 1951, ha sperato a lungo di tornare nel proprio Paese, dove ha lasciato una moglie e un figlio, o almeno di andarci a morire (“datemi sepoltura tra i campi d’Anatolia”) –ma ormai ha sposato a Mosca la sua quarta moglie, Vera, sa che la casa popolare di via Pesciànaya sarà il suo ultimo domicilio su questa terra. Il “noi” e il “voi” del testo designano una comunità: se la “nostra cucina” e il “nostro balcone” si riferiscono alla piccola famiglia nucleare di lui più Vera, il “nostro cortile” (“avlu”, cortile, è ripetuto ben cinque volte) è lo spazio dell’amicizia tra casigliani; e forse il “calerete” del v. 2 è già rivolto a loro, prevedendone la collaborazione nell’estremo triste compito. Tra i molti versi dedicati da Hikmet a immaginare la propria morte (dopo il primo infarto del ’52 e soprattutto dopo il secondo del ’59) questi sono senz’altro i più sereni.

Ci sono poeti che, invece di attraversare l’ombra affidandosi pericolosamente alle parole, preferiscono usare le parole per esorcizzare l’ombra; il che li condanna spesso al secondo rango. Hikmet è uno di questi, la sua retorica umanitaria e il suo ottimismo amoroso si sono prestati anche troppe volte a citazioni da Baci Perugina (“la cosa più bella che vorrei dirti / è quella che non ti ho ancora detto”). Ma di fronte alla prova decisiva, la morte, la retorica sotto sforzo rivela la propria tenuta e la qualità umana diventa misura poetica. A questa prova Hikmet non fallisce. Il cuore è un muscolo altamente simbolico, ma gli infarti sono veri e causati da tredici anni di carcere politico; alla cardiologia russa che gli raccomanda di evitare le forti emozioni risponde scherzando “”se schiatterà di rabbia o di allegria,/ lo lasci schiattare”. E’ la stessa ironia sui piccioni che gli lasceranno un ricordino in fronte (portafortuna, certo, ma anche antiretorico stigma di elezione).

La cosa che non si può non riconoscere a Hikmet è il coraggio: da quando nel 1921 a Istanbul denunciava il genocidio armeno a quando nel 1955 osò scrivere per un teatro moscovita una satira sul culto della personalità. Cercò di riabilitare Mejerchol’d, lodò scrittori caduti in disgrazia; il potere sovietico lo controllava stretto ma non poteva rinunciare a un intellettuale turco anti-Nato e lo esibiva in giro come “vate di pace e di libertà”. Lui lo capiva di essere usato ma sperava di servire comunque alla causa; il suo ottimismo fu in origine reazione alla galera (“miei cari / mandatemi libri che finiscano bene”) e non si lasciò smontare nemmeno dai fatti d’Ungheria o dalla corsa agli armamenti: “la rovina degli ideali crollati non mi schiaccia”, scrive in una poesia del ’61. Comunista indomito, ateo gran lettore dei mistici arabi e persiani, nipote di pascià ma ribelle per costituzione, maschio di vorace sensualità, ama la vita e la natura con quel che l’amica Joyce Lussu definiva un “ingualcibile candore”.

Così attrezzato si appresta ad andarsene: senza rimpianti né invidie, augurando a chi resta lunga vita. Nel ’54 aveva scritto “sarebbe un’ignominia, o forse crudeltà / separarsi dal mondo in primavera” –ora è aprile ma ormai qualunque stagione va bene, l’importante è che ci siano dei bambini (il suo, lontano, aveva 12 anni). L’accenno alla “fanfara” del v. 11 allude a una possibile ufficialità della cerimonia, ma la cosa non sposta niente. Quello che conta è l’intimità con lo spazio; sentiamo di poterci fidare, quel cortile moscovita è davvero un incrocio di seria umanità. La sequenza è cinematografica (Hikmet fu anche sceneggiatore): prima l’interno stretto delle scale e il cortile traguardato dall’alto, poi la panoramica in esterna con le alternative stagionali affidate alla triplice anafora di “belki” (forse); l’ingresso prepotente del sonoro. Poi l’obiettivo si stringe sul primo piano del volto e si ri-allarga ad accogliere le facce curiose dei bambini; lì ci aspetteremmo il controcampo, l’occhiata gettata indietro dal protagonista a salutare ciò che lascia: ma il protagonista è cadavere e allora è la finestra che segue il padrone con lo sguardo, come un cane fedele, mentre il bucato saluta dal balcone. Oggetti umili per gente umile –e umile la lingua.

In turco vige una regola fonetica nota come “armonia vocalica”, per cui in ogni parola le vocali dei suffissi si accordano alla vocale della radice. Sfruttare questo in poesia significa valorizzare le assonanze rinforzandole con allitterazioni e rime; Hikmet ha scelto il verso libero fin dalla giovinezza influenzata dal futurismo russo, dunque niente rime, ma le allitterazioni le usa eccome (qui, ben 9 versi su 16 cominciano per “b”). L’armonia deve essere sobria, niente più esagitazioni verbali o metafore troppo tese; tutto molto realistico e credibile, sul ritmo del cuore affaticato. Solo dei puntini di sospensione nell’ultimo verso, a lasciare aperto il dialogo. La morte arriverà empiricamente due mesi dopo e la temeraria parola “felice”, nel v. 15, ne sarà il sigillo: “socialismo”, scriveva nel 1954, “è sentire la felicità come un dovere patriottico”.

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 14 dicembre 2014, p. 58

Ricordo, di questo poeta, una struggente poesia:

Il mare più bello è quello che non abbiamo mai navigato;

il bambino più bello è quello che non è ancora cresciuto;

i sogni più belli non li abbiamo sognati,

le parole più belle non le abbiamo pensate;

i dolori più intensi sono ancora nascosti.

Così, fra dubbi ed emozioni, segno da te il mio commiato”.

Gennaro Cucciniello