Repubblica napoletana del 1799. 12 settembre-20 ottobre. Le carneficine di Stato.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Trentatreesima puntata.  12 Settembre – 20 Ottobre 1799. “Il popolo contro i galantuomini sfruttatori. Le continue carneficine incutono spavento e terrore. I rivoluzionari giacobini sono in prevalenza giovani. Ancora rivolte e insubordinazione sociale nelle campagne”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

 

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

12 Settembre. Giovedì. Castelluccio di Sora. Supplica al re degli abitanti del paesino. “Gli abitanti supplicavano perché “si destinasse in questa terra forza armata per sottrarli dallo stato lacrimevole in cui si trovano per l’anarchia che colà è stata introdotta da un tal brigante Mammone, il quale di unita ad altri 300 persone dell’istesso suo carattere vanno saccheggiando le case dei privati e devastando le campagne, per cui ognuno è in pericolo di perdere la vita e le sostanze” (Rodolico, p. 251).

14 Settembre. Sabato. Il popolo contro i galantuomini sfruttatori. “Il popolo, che prima della Rivoluzione era stato oppresso nelle amministrazioni cittadine per il predominio di nobili e galantuomini, non intendeva dopo il giugno del ’99 che tale predominio si restaurasse. “Tra il popolo e li tre ceti –scrive da Sessa il Visitatore Marrano- pende una lite a chi spetti il diritto della elezione. Li tre ceti vantano privilegi di sovrani e una interrotta osservanza, e sostengono che spetti loro la privativa in esclusione dell’universalità del popolo. Ma questo volendo tornare nei primitivi diritti di libertà di elezione pubblica, sostiene per ciascuno la libera pronuncia del suffragio senza ammettersi l’abusiva limitazione dei ceti. Il popolo ha già fatto l’elezione popolare; li tre ceti credono un attentato tale operazione”. Il popolo difende gli amministratori repubblicani. “Altra notevole cosa: il sovrano aveva decretato che nelle amministrazioni cittadine non potessero essere elette persone che avessero avuto qualsiasi ufficio nella Repubblica; il popolo non ha tali prevenzioni, ed elegge, e vuole che sieno riconosciuti dallo stesso sovrano amministratori del tempo della Repubblica che avessero fatto bene al popolo. A tal proposito il Vistitatore Marchese della Valva dalla Basilicata così scrive al Re: “Non si può tacere alla sovrana intelligenza che nei luoghi ove le Municipalità sono state elette dal popolo in pubblico parlamento per lo più la prescelta è caduta in persona di soggetti probi e che godevano della pubblica opinione… e che le popolazioni non soffrono con indifferenza gli arresti di tali soggetti, e van dicendo che se costoro sieno da reputarsi rei, reo sarebbe da dirsi ancora il popolo che li ha eletti”. Anche a Castellammare il popolo minacciava di sollevarsi, se non fosse stato riconosciuto a sindaco il De Turris, nonostante che questi fosse stato presidente della municipalità durante la Repubblica” (Rodolico, pp. 256-7).

16 Settembre. Lunedì. Napoli. “Tutti i buoni sono avviliti dallo spavento e terrore che incutono le continue carneficine. Il cardinal Ruffo è così disgustato di tal modo di procedere della Giunta e di tutte le passate operazioni del Governo, che per quanto mi si dice, aspetta sentire che Roma sia presa, per andarsene da Napoli. La protesta di Ruffo. Mi si dice pure che abbia scritto molto forte al Re, protestando che se si continua nel cominciato rigore egli non si comprometteva della tranquillità del Regno. Disse sicuramente ad una persona che gli rincresceva trovarsi al suo posto, molto più che non vedeva apparenza per esentarsene non essendovi speranza che la Corte si restituisse per ora in Napoli” (De Nicola, p. 383).

19 Settembre. Giovedì. Napoli. “La città è piena di assassini che spogliano impunemente, mentre la forca è in azione pei soli rei di Stato (…) Non è possibile che un cuore umano e sensibile possa reggere in mezzo a questa carneficina… si comincia a dubitare della rettitudine della Giunta. Questa sera mi vien detto di sicuro, che il Re sarà in Napoli pel giorno 4 di ottobre. Mi si è detto pure, che i Siciliani non vogliono che la Corte si restituisca più in Napoli” (De Nicola, p. 387).

I giustiziati di Napoli. “Ciò che anima i sostenitori della repubblica partenopea, ciò che li spinge a sfidare le armate nemiche e infine a salire orgogliosi il patibolo (solo due, testimoniano le fonti, piangono di fronte al boia), medici, avvocati, professori, commercianti, militari, popolani, nobili, donne, non è un pretesto puramente riformatore ma è piuttosto un’utopia di giustizia e di libertà, contro ogni forma di repressione e di oppressione e di disparità, disegnando un progetto contro il quale urta l’ostilità di chi dovrebbe essere il primo a beneficiarne, il popolo, tutt’al più passivo invece, spesso partecipe e osannante il Re. Dove si può leggere la distanza tra l’astrazione giacobina e rivoluzionaria e la miseria affamata di quelle plebi, che invocavano più che diritti e princìpi il vantaggio fisico della Rigenerazione” (G. Fortunato, prefazione).

20 Settembre. Venerdì. Chieti. “Un magistrato della città scrive in un esposto alla Giunta di Governo che dovendo procedere all’arresto di due celebri ladri di Pratola si è rivolto al Comandante delle masse Giuseppe Pronio. Costui, invece di arrestarli, li vestì da fucilieri, e li pose sotto il suo comando aggregandoli nella Massa. Il magistrato aggiunge di avere saputo da sicure informazioni che il detto Pronio aveva presso di sé tutte le carte repubblicane riguardanti rei di Stato, rinvenute nel tribunale dipartimentale di Chieti e nella fortezza di Pescara; delle quali carte si faceva un infame mercimonio da quei che stavano d’intorno al detto comandante, vendendosele agli stessi rei. Speculatori sulle vittime della reazione, favoreggiatori di briganti, e briganti essi stessi: ecco ciò che erano diventati alcuni di quei Capimassa dopo la guerra” (Rodolico, p. 250).

24 Settembre. Martedì. Napoli. E’ impiccato Gabriele Manthoné, 35 anni. Educato all’Accademia militare, ufficiale di carriera dell’esercito borbonico. Membro del Governo Provvisorio e del Comitato centrale della repubblica. Nell’ordinamento dato dall’Abrial faceva parte della Commissione Legislativa, ministro della Guerra e infine generale dell’esercito repubblicano. “Manthoné, interrogato da Speziale di ciò che avesse fatto nella repubblica, non rispose altro che: “Ho capitolato”. Ad ogni interrogazione non dava altra risposta. Gli fu detto che preparasse la sua difesa: “Se non basta la capitolazione, arrossirei di ogni altra” (Cuoco, p. 204).

E’ impiccato un calzettaio di nazione francese, di cognome Bai” (De Nicola, p. 476).

E’ impiccato Pasquale Sieyès, vice console di Francia (Serrao, p. 286).

30 Settembre. Lunedì. Napoli. E’ impiccato Prosdocimo Rotondo, 25 anni, avvocato. Durante la repubblica membro del Governo Provvisorio, del Comitato di polizia generale e presidente del Comitato delle finanze. Coinvolto nel dissidio che intorno ai problemi finanziari andò maturando nel Provvisorio e accusato dal Palomba di peculato, abbandonò le cariche che ricopriva ma espose le sue ragioni in una “Rimostranza al pubblico”.

E’ impiccato Francesco Astorre.

E’ impiccato Padre Nicola De Deo, frate crocifero.

E’ decapitato Ferdinando Pignatelli, principe di Strongoli, 30 anni. Nipote del Vicario del Re nel dicembre 1798, giacobino come i fratelli Francesco, Mario, Vincenzo sin dal 1794, aveva lasciato Napoli nel 1797, rifugiandosi a Bologna e arruolandosi volontario nella Legione Cispadana. Tornato a Napoli nel 1799.

E’ decapitato Mario Pignatelli, principe di Strongoli, 26 anni, fratello del precedente. Coinvolto nella congiura del 1794 (quando aveva appena 21 anni), era vissuto in esilio a Bologna. Capitano della Guardia nazionale repubblicana. “I due Strongoli andarono imperterriti alla morte” (De Nicola, p. 401).

I rivoluzionari giacobini di Napoli erano in prevalenza giovani. “Non c’era stato un lento trapasso dal precedente orientamento della classe colta meridionale, una graduale e spontanea evoluzione dei precedenti indirizzi riformistici a posizioni più estreme. Era stata, invece, una vera e propria rottura, una sotterranea e per qualche tempo latente esplosione rivoluzionaria, di cui si debbono far risalire le ragioni tanto alla monarchia e alla sua brusca virata di bordo dinanzi al precipitare degli eventi in Francia tra il 1789 e il 1792 quanto allo choc prodotto dalla rivoluzione francese, alla sua propaganda rivoluzionaria e al clima favorevole ed alle spontanee reazioni ed iniziative che essa trovava in un paese in cui la maturazione delle idee e della passione politica era in grande anticipo su quella di adeguate e congeniali forze sociali. Il fenomeno si concretò con tutta evidenza nella formazione di una leva interamente nuova di neofiti e partigiani del rinnovamento politico ed è estremamente interessante come esso si riverberasse sullo stato anagrafico dei rivoluzionari del ’99: dalle filiazioni dei rei di Stato si ricava che una buona metà dei condannati in quell’anno e nel seguente non avevano superato i trent’anni, e si era quindi interamente formata nelle idee e nello spirito negli anni seguiti al 1789, e che la percentuale salirebbe ai due terzi se si considerassero i minori di trentacinque anni, e cioè coloro che in quegli stessi anni erano ancora abbastanza giovani per risentire con vivacità e  duttilità dell’avvento di un nuovo clima etico-politico. E nel nuovo clima l’estremismo, l’utopismo, l’evangelismo rivoluzionario non erano avventure personali e smanie di animi irrequieti; erano, invece, il segno col quale una nuova generazione si affacciava, scomparsa quella dei grandi nomi del riformismo meridionale proprio tra il 1780 e il 1790, in nuove condizioni, alla vita e all’attività politica, onde molti dei contrasti dispiegatisi nella breve e agitata vita della repubblica si atteggeranno poi come contrasti tra giovani e vecchi” (Galasso, pp. 264-5).

1 Ottobre. Martedì. Napoli. E’ impiccato Ercole d’Agnese, 54 anni, professore di diritto e filosofia. Vissuto a lungo in Francia, amministratore del dipartimento del Rodano. Imparentato con l’Abrial, fu nominato in aprile presidente della Commissione Esecutiva. Negli ultimi giorni della Repubblica fu ministro della guerra.

E’ decapitato Filippo De Marini, marchese di Genzano, 21 anni. Discendente da una famiglia dell’antico patriziato genovese, educato nel Collegio fernandiano, fu ufficiale dell’esercito repubblicano e aiutante di campo del generale Matera. “Questa mattina è stato decollato il marchesino di Genzano, Filippo Marino, giovane poco più di venti anni. Il marchesino non voleva essere decollato, per cui ora abbracciava un padre assistente, ora il carnefice, ed ora cercava aiuto ad alta voce dal popolo spettatore. Questa è stata la prima volta che la plebaglia non ha gridato “Viva il Re” per giubilo” (Marinelli, 97, in Rodolico, p. 246).

3 Ottobre. Giovedì. Napoli. Abile provvedimento del cardinale Ruffo per cercare di ottenere la pace nelle province. “Scioglie “le masse” che di giorno in giorno minacciano di degenerare in bande di briganti. E’ scritto nel decreto di scioglimento che il Ruffo “incorporò tutti i veterani nei reggimenti provinciali e concesse a tutti gli altri gratificazioni con la minorazione dei pesi fiscali”. Fu questo uno degli ultimi atti di governo del Ruffo: il problema di dar pace alle province resta tuttavia ancora grave ed insoluto” (Rodolico, pp. 247-8). Un’analisi delle azioni e della personalità del card. Ruffo. “Ragion di Stato e religione”. “Ho tre dubbi essenziali. Primo: sul cuore del Ruffo. Era chiuso, ipocrita e nocivo, come è descritto nella leggenda nera? Perché mai obliare la storia della sua pietà verso i poveri, anzi verso le classi oppresse? Era la sua una pietà motivata, anche se non priva di emotività. Quando mai nella storia dei governi si era visto un ministro di Stato che nei mesi di studio per il risanamento delle Paludi Pontine –che tanto entusiasmava Vincenzo Monti- in una delle ispezioni, scorge fra gli acquitrini un lavoratore abbattuto dalla malaria, se lo carica sulle spalle, lo porta nella sua carrozza, gli tiene la testa appoggiata sulla spalla lungo tutto il percorso e lo salva? Più tardi gli condussero in catene Vincenzo Petroli, capo della Deputazione repubblicana di Catanzaro, che aveva posta la taglia sulla sua testa e lo graziò, anzi gli affidò un incarico amministrativo. La stessa cosa al prete che aveva attentato alla sua vita. Soprattutto, come dimostrò da ministro, la sua pietà era razionalmente operosa: soccorreva ma anche teorizzava la riforma delle istituzioni ingiuste. Sia a Roma sia in Calabria il popolo, anzi la cosiddetta “ima plebe”, lo amava per i suoi atti generosi, per l’abitudine a contrastare il baronaggio nei privilegi delle esenzioni e nel dispotismo feudale. Perciò i baroni lo odiavano al punto che Pio VI dové ricorrere a crudele ironia dicendo loro “Ve lo toglieremo, creandolo cardinale”. Quanto al cuore, credo che vi attengano altri fatti. Non accumulò ricchezze, anzi restò sempre essenzialmente povero, anche da ministro, anche da cardinale, anche dopo aver riconquistato un regno. E perché? Per l’abitudine a sovvenire. Il suo essere era eticamente leggero, perché rispondeva con ironia alla gratitudine e all’elogio. Il suo cuore fu sottoposto a prove smisurate sia nella guerra, quando doveva fronteggiare l’inclemenza dei Sovrani contro i prigionieri e la loro slealtà verso i patti stipulati nella Capitolazione repubblicana del 21 giugno. Ricorderò sempre il disgustato dolore del mio maestro Ernesto Pontieri nel descrivere “il disonore” di Nelson e la tragedia del Ruffo. Quanto agli orrori della guerra, non ho trovato nessun conforto di prove sulle voci della sua partecipazione, anzi neppure sulla sua passività. So invece che operò per mitigarli, dalla presa di Monteleone alla resa di Napoli. Poi li denunciò, attirandosi la malevolenza della regina e lasciò la Corte quando non poté disciplinare le diritto le atroci Giunte di Stato. Mi sono fatto il convincimento che Ruffo più che bonario, come pure è descritto, fosse buono.

Secondo dubbio: sulla mente. Era vacua, confusa, tirannica? Occorre prima d’ogni altro verificare i suoi studi, specie quelli superiori nell’esclusivo Collegio Clementino, dove poté accedere grazie allo zio cardinale: prese una progressiva passione delle scienze fisico-matematiche e per la finanza, ed ebbe idee proprie, ossia antifeudali, come rivela nelle sue “Memorie economiche”, pubblicate a Cesena nel 1789: sulla proprietà individuale, sulla libertà nel commercio dei grani (certo non all’altezza di Genovesi e di Galiani), sul protezionismo industriale che gli occorrerà specialmente quando dovrà dirigere la gloriosa Colonia di San Leucio. Ruffo era portato alle riforme e al compromesso politico davanti agli ostacoli e lo si vide, per esempio, nel governo pontificio, nelle riflessioni sulla Cassa Sacra calabrese, negli “Schiarimenti e aiuti” chiesti alla Corte quando lo incaricarono della Riconquista. So quanto fascino comunicava da ambasciatore, per esempio a Parigi, però mi ha giovato anzitutto riflettere su una ipotesi: se la sua mente non fosse stata lungimirante, sarebbe mai bastata la magnanimità del suo cuore a dargli l’attrazione sulle persone, da quelle rudi a quelle colte? Goethe scrisse a Napoli che attrazione è parola intraducibile e inesprimibile, e infatti il Ruffo era di misterioso carisma. Terzo dubbio: sulla controrivoluzione. Era il 10 febbraio 1799 quando sulla spiaggia “alla Catona”, dov’era da poco sbarcato con 5 compagni, vide passeggiare un uomo chiuso nei suoi pensieri: lo salutò e seppe che era l’ammiraglio Caracciolo in ispezione delle coste. Lo invitò a pranzo ma Caracciolo non poté. Il cardinale insistette inutilmente, poi disse “Peccato, perché il pesce è freschissimo” e si augurarono felicità: fra pochi mesi sarà disperato a causa della regina e di Nelson che impiccheranno Caracciolo a tradimento. Ruffo era perspicace: papi e principi si avvalevano dei suoi consigli. Ma cadde il consiglio suo più accurato, dato ai Borbone di Napoli: che non fuggissero davanti all’armata francese. Tentò di convincerli con due argomenti: che il loro esercito era sufficiente e che un re, senza perdere il consenso popolare, non può abbandonare lo Stato nel pericolo. Aveva intravisto l’imminente morte morale della monarchia? D’altra parte non aveva mai condiviso il giudizio della regina sulla Repubblica, “perversione vesuviana”; e neppure concorderà con Johannes Gottfried Pahl, che nel 1803 la ritenne un gioco da “partenopei”. Certo non fu un gioco a batterla. Priva di mezzi, dopo che il re si era appropriato dei risparmi privati nei Banchi e i francesi del ricavo fiscale, nonostante gli errori strategici della milizia volontaria e l’inesperienza politica dei governanti, la Repubblica spiegò una resistenza imprevedibile, inferendo a Ruffo anche scacchi umilianti. Ma egli, che aveva amato la scienza della guerra sui libri, via via che avanzava verso Napoli, nelle piccole e incessanti battaglie, fra scene di viltà e di coraggio, analizzando la vita chiusa nei feudi, metteva in atto alcune sue convinzioni. Le popolazioni abituate solo a esattori di dazi, di decime e di imposte, si videro alleggerire aggravi fiscali secolari e ripristinare diritti comuni. Fu così, e anche alimentando il sentimento di patria, che rese popolare il reclutamento e plausibile il morire nell’Armata della Santa Fede. Dava così argomento a  Mazzini perché nei sanfedisti riconoscesse un popolo che si desta, al pari degli insorti della opposta parte. Ma con il sanfedismo Ruffo anche rivelò l’abisso che spaccava in due il popolo: in plebe e in tutto il resto” (Romeo De Maio, p. 17).

5 Ottobre. Sabato. Ancora rivolte e insubordinazione sociale nelle campagne. Montesantangelo (Lucera). “Qui, feudo della marchesa di Gerace, il popolo insorge bramando che il governatore amministrasse giustizia in nome del re; e con la forza a ciò lo ha obbligato, dimostrando livore contro del nome baronale”. Il duca di Salandra protesta perché “i naturali di Miglionico, suo feudo, hanno devastato una difesa e lo hanno spogliato de facto dei diritti proibitivi dei forni”. Il duca di Laurenzana espone al Re “le usurpazioni di corsi d’acqua, di cui è stato spogliato da molti, che hanno convertito quei corsi ad uso di mulini, trappeti di tinte e d’altro”. Il marchese di Arienzo si dice anch’egli vittima “dell’anarchia su dei corpi ne diritti feudali specialmente nella città di Cerreto, ove colla più ardita violenza si sono occupate le acque feudali, imprendendosi la fabbrica di un nuovo molino in pregiudizio del molino feudale, si niega arditamente il pagamento dei terragi per quei demani annosi a siffatta prestazione”. Né solo contro i diritti feudali il popolo insorge ma anche contro le decime ecclesiastiche. Il governatore di S. Bartolomeo, Ingaldo e Ciampella (Lucera) espone di avere “ritrovato quella popolazione quasi tutta sedotta da poche famiglie giacobini che e patriottiche per modo che è risoluta di opporsi alla prestazione delle Decime spettanti a quella Chiesa e dei pagamenti fiscali”  (Rodolico, pp. 258-61).

6 Ottobre. Domenica. Bagnoli Irpino (Principato Ultra). L’occupazione del territorio. “Però se il governo borbonico non perseguitò i pochi repubblicani di Bagnoli, previde che costoro non avrebbero tralasciato di diffondere nel paese le nuove idee, e come in altri Comuni del Regno furono qui mandati plotoni di bande sanfediste a carico in buona parte dell’Erario Municipale, e dal Bilancio del 1801 si apprende che tal plotone era comandato dall’Alfiere Giuseppe Zoppoli, al quale il Comune corrispondea annui ducati 36, mentre pei Poliziotti da lui dipendenti il Comune spendea per sua parte annui ducati 73. La presenza nel paese di questi sanfedisti non fu certo gradita agli abitanti e specialmente ai fautori della Repubblica, ma ripetiamo né per tradizione, né da alcun documento viene ricordata alcuna persecuzione contro di loro. Rileviamo invece dallo stesso Bilancio, che riusciva gravosa assai la tassa Catastale, inasprita dall’altra imposta detta la “Decima”, tanto che vari cittadini furono costretti emigrare altrove, e ciò non ostante l’agevolazione, che il Comune fece col mettere a suo carico buona parte dell’ammontare di tali tasse, e col rimborsarla nel corso dell’anno a coloro, che erano riconosciuti impotenti a sostenerla. Era quindi ben misera la condizione di Bagnoli in questa fine del secolo XVIII, perché pei tumulti, le sommosse e le guerre i traffichi erano impediti, ed il commercio languiva dovunque, ed anche l’industria armenti zia soffriva assai pel Brigantaggio, che di nuovo infieriva, e nel Bilancio suddetto viene caratterizzato quel tempo con le parole “calamitoso e pernicioso”, per dimostrare lo stato miserando della popolazione” (Sanduzzi, 540).

8 Ottobre. Martedì. Napoli. E’ impiccato Nicola Rossi (De Nicola, 476).

E’ impiccato Domenico Pagano, militare (De Nicola, ibidem).

10 Ottobre. Giovedì. E’ impiccato Pasquale Matera, 31 anni, esiliato nel 1796 perché esponente del gruppo filo-francese. Arruolatosi nell’esercito francese, si era distinto nella campagna d’Italia e in quella di Roma. Destituito per ordine del Direttorio perché giacobino, fu reintegrato grazie all’intervento di Joubert. A Napoli, al servizio di Championnet, organizzò la resistenza contro la rivolta popolare.

11 Ottobre. Venerdì. Giacobini, masse popolari, rivoluzione nazionale. Una tesi. “La condanna delle idee, dei metodi, della politica giacobina (espressa in origine dal Cuoco), ripresa e sviluppata dall’agiografia risorgimentale, ha dato origine nell’Ottocento ad una interpretazione –che ancor oggi ha numerosi sostenitori- totalmente negativa dell’esperienza rivoluzionaria del 1796-99, definita (a parte la glorificazione dei martiri partenopei artificiosamente contrapposti –grazie alla loro tragica fine- agli altri giacobini) una astratta e frenetica parentesi, sostanzialmente estranea al nostro processo nazionale. Riallacciandosi ( e in buona parte travisando) a quanto scritto dal Cuoco, dal Botta e da alcuni altri contemporanei e protagonisti di quegli avvenimenti (tipici rappresentanti, tra l’altro, di quegli ambienti sui quali, da parte italiana, pesa in buona parte la responsabilità del fallimento dell’esperimento rivoluzionario del ’96-’99), si è sostenuto che tutta l’esperienza rivoluzionaria del triennio sarebbe stata completamente negativa, non solo e non tanto perché effimera, ma perché ad essa erano mancate completamente sin dall’inizio le premesse più elementari. Le aspirazioni dei rivoluzionari, dei patrioti, dei giacobini non avrebbero infatti avuto nulla in comune con quelle del popolo e, anzi, avrebbero contrastato totalmente con esse. Il popolo avrebbe così passivamente subìto una rivoluzione che non capiva e che contrastava con i suoi sentimenti ed interessi e sarebbe, di fronte agli eccessi dei rivoluzionari, insorto subito contro di essa. In realtà, come vanno dimostrando gli studi più recenti, questa interpretazione appare oggi sempre meno sostenibile, sia che si approfondisca il vero atteggiamento delle masse popolari, sia che si approfondisca la realtà del giacobinismo e la si studi non più sulla base di schemi artificiosamente costruiti, ma per quella che essa fu veramente. Ad un esame spregiudicato appare così subito chiara l’insostenibilità della tesi della rivoluzione passiva così come teorizzata dagli epigoni del Cuoco. Parlare di rivoluzione passiva per il ’96-’99 è infatti storicamente giusto, a condizione però che non si prenda tale definizione come punto di partenza bensì come punto di arrivo; a condizione cioè di rendersi concretamente conto di come sia stato possibile giungere ad essa, delle cause che determinarono la passività delle masse popolari verso la rivoluzione e, addirittura, la loro rivolta contro di essa. Alla vigilia dell’invasione francese il disagio e il malcontento erano diffusissimi tra le masse popolari, specie tra quelle contadine, di tutta la penisola. Pur rimanendo assolutamente estranee ad ogni ideologia rivoluzionaria, queste masse sentivano profondamente un’esigenza eversiva nei confronti dell’assetto sociale esistente. Questa esigenza era così profonda che affiorava perfino in occasione di fatti e di manifestazioni che pure sembrano a prima vista rivolti esclusivamente contro i francesi e i giacobini. Si pensi, tanto per fare un esempio, allo stato d’animo delle masse nelle regioni meridionali dello stato pontificio in occasione della famosa ondata di miracoli del 1796-’97. Salvo rari casi dovuti a circostanze locali e alle mene del clero reazionario, l’arrivo dei francesi non incontrò l’ostilità aperta delle masse popolari. La gran massa della nazione meridionale –ebbe a scrivere il Cuoco- intese tranquillamente la rivoluzione e stette al suo luogo: le insorgenze non vennero che molto dopo” (De Felice, pp. 32-3).

14 Ottobre. Lunedì. Napoli. E’ impiccato Antonio Tocchi, militare (De Nicola, 476).

E’ impiccato Pasquale Assisi (De Nicola, ibidem).

E’ impiccato Felice Mastrangelo, 26 anni, medico. Comandante generale della Guardia nazionale in Basilicata e commissario organizzatore di Terra di Bari. Tentò inutilmente, insieme al Palomba, la difesa di Altamura contro il Ruffo.

E’ impiccato il sacerdote D. Nicola Palomba, 53 anni. Laureatosi a Napoli in teologia, fu coinvolto nel movimento giacobino prima del 1799. Allontanato da Napoli in seguito al suo dissidio col Rotondo, fu incaricato, quale commissario organizzatore del dipartimento del Bradano, di difendere Altamura contro le truppe sanfediste. Non riuscì a organizzare la resistenza e si ritirò a Napoli. “Nicola Palomba era già sotto al patibolo: il commesso del fisco gli dice che ancora era a tempo di rivelare dei complici. “Vile schiavo!” –risponde Palomba-io non ho saputo mai comprar la vita coll’infamia” (Cuoco, p. 205).

16 Ottobre. Mercoledì. Il popolo vuole tenacemente autogovernarsi.“Come fosse accolto dal popolo dopo il giugno del ’99 l’agente del feudatario, che il regio Visitatore restaurava nell’esercizio delle sue funzioni, lo narra don Concezio Carusi, governatore feudale di Aversa e Villalazio, feudi del marchese di Rayana: “Quando andiedi a prendere possesso, moltissimi naturali di colà dissero di non volermi riconoscere per governatore, volendosi da per loro governare”. A nulla valse, egli narra, l’opera di pace dell’arciprete: “i naturali commisero delle insolenze e grandi ingiurie contro l’arciprete manifestando sempre più di volersi da loro governare; e andiedero dagli amministratori poiché avevano dato il possesso al governatore”. Don Concezio Carusi si salvò con la fuga” (Rodolico, 257-8).

19 Ottobre. Sabato. Napoli. “La Giunta di Stato motiva le sentenze contro Antonio Tocco, per aver fatto fuoco sul popolo nell’entrata dei Francesi, vestita la divisa republicana, assistito alla fucilazione dei realisti ed invitato il popolo a volersi arrollare in un reggimento che formava, e per aver fatto fronte agli Inglesi nella spedizione di Cuma; contro Pasquale Assisi, per essersi mostrato irreligioso, per aver vestito la montura repubblicana con spallette e dragona, per avere sparlato contro la Sacra Persona di V. M. e Real famiglia, per essersi portato alla spedizione di Puglia e di Cuma, e finalmente per aver formato de’ proclami incendiarj, ripieni di tutto il veleno del patriottismo” (Filiazioni dei rei di Stato).

 

 

Nota bibliografica

G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975

V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976

C. De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I

R. De Felice, “Italia giacobina”, ESI, Napoli, 1965

“Filiazioni dei Rei di Stato condannati dalla Suprema Giunta etc. ad essere asportati da’ Reali Dominij”, Napoli, 1800

G. Fortunato, “I giustiziati di Napoli del 1799”, Linea d’Ombra, Napoli

G. Galasso, “Mezzogiorno medievale e moderno”, Einaudi, Torino, 1975

“Il Mattino”, Napoli, Speciale Bicentenario, giovedì 21 gennaio 1999

N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926

A. Sanduzzi, “Memorie storiche di Bagnoli Irpino”, Dragonetti, 1975

Serrao De Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I