Russia 1917. L’estate del golpe fallito del generale Kornilov.

Russia 1917. L’estate del golpe fallito.

In agosto si consuma il duello tra il capo del governo Kerenskij e il generale Kornilov, tra chi vuole ricompattare il paese e chi sta preparando un putsch.

 

Nel quotidiano “La Repubblica” di venerdì 4 agosto 2017 è stata pubblicata una nuova puntata dell’inchiesta di Ezio Mauro sulle rivoluzioni del 1917 in Russia, alle pp. 31-33. In queste pagine si racconta del premier del governo provvisorio che sventa il complotto militare e fa consegnare le armi alle Guardie Rosse. Così Kerenskij vince ma apre la strada ai bolscevichi.

                                                        Gennaro  Cucciniello

 

Col capo chino e la mano destra che indica il bambino, avvolta nel suo mantello orientale ornato di perle, la Madonna Iverskaja non aveva più visto un corteo d’onore così maestoso dall’epoca dell’ultimo Zar, che ad ogni visita a Mosca veniva ad inchinarsi proprio qui, davanti all’icona miracolosa che risana gli infermi, nella minuscola cappella incastonata dentro la Porta della Resurrezione, aperta sulla Piazza Rossa e sul Cremlino. Adesso la grande malata era la madre Russia, in mezzo alle convulsioni del 1917, e l’uomo che doveva salvarla si stava inginocchiando nella rigidità della sua uniforme militare di fronte all’immagine sacra, prima di accendere un cero, scattare sull’attenti per il saluto e spalancare la porta sulla folla in attesa. “Generale Kornilov, noi tutti abbiamo fiducia in voi” – urlò un cadetto al suo passaggio- “Vi preghiamo: salvate la Russia, e il popolo grato vi incoronerà con l’alloro”.

Il popolo, frastornato, aveva già assistito a uno spettacolo straordinario a mezzogiorno di quel 13 agosto, alla stazione Aleksandrovskij, che oggi è la Bielorusskij Vokzal. Mentre gli junker presidiavano la piazza del teatro Bolshoj, dove Kerenskij aveva appena inaugurato la Conferenza di Stato, Lavr Kornilov organizzò il suo arrivo in treno a Mosca come una parata trionfale d’investitura, una presa simbolica del potere, una benedizione popolare. Sulla pensilina, i grandi invalidi in prima fila e gli alti ufficiali carichi di medaglie. Dietro, i manipoli dei comitati patriottici, il coro della scuola militare, i cosacchi a cavallo sulla piazza e il battaglione femminile schierato in posizione di riposo. Suonò la fanfara quando il generale apparve facendo il saluto militare e le dame della nobiltà si inginocchiarono gettando fiori. In quel momento scattarono le guardie del corpo turkmene che lo scortavano ovunque coi loro costumi a vestaglia color cremisi, e si schierarono davanti al vagone in due file perfette, con le sciabole sollevate in alto. Sotto quelle lame sguainate, curvandosi appena, passò “il primo soldato della Russia”, per entrare col suo seguito – e su un’auto scoperta- nelle strade di Mosca e nell’agosto della controrivoluzione.

Tutto sembrava maturo per il gran colpo. Disertori in massa al fronte, con il comandante dell’XI Armata che ordina di aprire il fuoco su chi lascia le trincee. Voci di movimenti sospetti di truppe nel Don e al Nord, in Finlandia. A Pietrogrado, perquisizioni continue da parte di reparti di allievi ufficiali affiancate da bande di volontari, che disarmano i quartieri operai, entrando nelle fabbriche. La sepoltura dei sette cosacchi uccisi nei moti di luglio trasformata in una prova di orgoglio militare dentro la cattedrale di Sant’Isacco. Il Soviet che deve andarsene da palazzo Tauride, per accamparsi allo Smolnyj, ultima cittadella rivoluzionaria. Ottocento bolscevichi imprigionati, cominciando da Kamenev, Trotzkij e Lunaciarskij mentre Stalin si dà alla macchia, Lenin teme di essere impiccato e riesce a fuggire prima della perquisizione a casa della sorella, guidata direttamente dal colonnello Nikitin, capo del controspionaggio che apre tutti i cassetti, gli armadi e i bauli, e sfoglia i libri ad uno a d uno.

Quando Aleksandra Kollontaj si presenta con la borsa piena di materiale di propaganda al confine svedese di Tornio, viene arrestata dallo stesso ufficiale (un principe) che a marzo proprio lì, mentre rientrava in Russia dall’esilio, le aveva mostrato la coccarda rossa sul petto e si era affrettato a baciarle timidamente la mano. Il clima è cambiato, dovunque, e c’è fretta di saldare i conti. I soldati forzano la tipografia della Pravda e la devastano, sgombrano i bolscevichi dal palazzo della Kshesinskaja, gettano striscioni e bandiere dal balcone dove si era affacciato Lenin appena tornato dalla Germania.

Si avvicina il sesto anniversario del febbraio, ma non c’è un clima da celebrazioni, nemmeno da ricordi.

Borghesia, impiegati, capitalisti hanno voglia di chiudere la stagione rivoluzionaria, Kerenskij che recita la forza ma sente la debolezza che lo circonda, spera di appoggiare il suo governo al risentimento popolare per spostarsi al centro, come interprete di un’unione nazionale che ricompatti il Paese dopo sei mesi di travaglio, trasformando la domanda d’ordine in una riserva esterna di energia politica. Come un impresario, ha affittato un teatro per la sua rappresentazione, anche se non è riuscito a scongiurare lo sciopero operaio che paralizza mezza Mosca, bloccando anche il buffet teatrale. Così, tra i marmi bianchi del Bolshoj senza cibo, il 13 agosto si apre la grande parata della Conferenza di Stato dove il Primo ministro cerca una sorta di incoronazione laica in un Paese scettico e svuotato, ormai senza liturgia.

Soltanto che lo spirito del tempo scombina le parti degli attori, sposta Kerenskij in seconda fila e a sorpresa chiama sul proscenio il generale Kornilov, assegnandogli il ruolo di protagonista nazionale. Il Capo del governo, che ha voluto tenere per sé i ministeri della Guerra e della Marina, si presenta scortato da un soldato e da un marinaio, guarda la sala divisa in due tra destra e sinistra, saluta il palco imperiale dove sono seduti gli ambasciatori dei Paesi alleati e dando corpo ai fantasmi che vagano nel cielo di Mosca annuncia che “ogni atto contro il potere supremo del governo provvisorio sarà represso con le armi e col sangue, perché bisogna essere pronti a perdere la vita pur di salvare lo Stato”. Ma ecco che dal fondo del teatro l’ombra della controrivoluzione prende corpo, mentre avanza col berretto da generale in mano Lavr Georgievic Kornilov con mezzo Bolshoj in piedi in un’ovazione, mentre l’altra metà rimane seduta tra gli insulti. “Nel generalissimo noi salutiamo l’esecito che muore per la libertà della patria”, lo presenta Kerenskij e vedendolo sul palco ricorda quando da capitano si presentò a una festa danzante a casa dei suoi genitori tra i profumi e i colori notturni di Tashkent, prima di entrare clandestinamente in Afghanistan, evadere da una prigione austriaca, riapparire tra le linee russe come un eroe per essere infine nominato, proprio il primo giorno di quell’agosto, comandante supremo.

I turkmeni sono in piedi ai lati del palco, con la mano sulle sciabole e gli occhi sulla folla quando il generale evoca il dramma incombente, rivelando che il nemico batte già alle porte di Riga: “Se la città cade, la strada per Pietrogrado è spalancata. E grazie alle leggi varate da uomini estranei alla vita militare l’esercito si è trasformato in un’orda di pazzi, preoccupati solo per la propria vita”. Tripudio, urla, confusione. Che aumentano quando il generale Alekseev attacca “i distruttori a cui suona in tasca la musica allegra dei marchi tedeschi”, quando i mutilati e gli invalidi di guerra, coi cavalieri di San Giorgio, chiedono che il generale Kornilov sia dichiarato inamovibile, in un comando supremo permanente. “Che l’anima diventi pietra, che secchino i fiori e i sogni –prova a reagire Kerenskij- da oggi sappiate che getterò via le chiavi del mio cuore e penserò solo allo Stato”. Ma è l’arcivescovo Platon che dà il sacro viatico alla controrivoluzione. “Fratelli, abbiamo sentito tutti in che situazione penosa versa il nostro esercito, ma io sono venuto qui per dire alla Russia: non temere carissima, non turbarti, diletta. Se occorre un miracolo per salvarti, ebbene sappi che il Signore Iddio lo farà”.

Quando Dio e il Kaiser realizzano la profezia del generale, con Riga presa dai tedeschi il 21 agosto, scattano insieme il panico e la grande occasione. Il governo provvisorio prepara il piano per trasferirsi a Mosca, cercando di sfuggire al fronte che avanza e all’insidia proletaria che cova perenne sotto la pelle di Pietroburgo. Ma Kornilov ha un piano diverso. Appena nominato, dopo aver chiesto di reintrodurre la pena di morte al fronte, ha spedito al governo un telegramma non cifrato (dunque letto da tutti) avvertendo che risponderà solo alla sua coscienza e al suo popolo. A metà agosto con un altro messaggio aveva chiesto di avere ai suoi ordini la regione militare di Pietrogrado. Poi attiva una rete di spionaggio nelle fabbriche, per tenere sotto controllo giorno dopo giorno gli umori operai e le mosse dei bolscevichi. Adesso dà ordine alla divisione “Selvaggia” del Caucaso di muovere verso la capitale, sotto la guida del generale Krymov, mentre la terza divisione sale da Sud, avanzano i corpi di cavalleria muniti di granate e i cosacchi si accampano nei nodi ferroviari attorno a Piter, aspettando l’ordine decisivo.

Lo aspettano tutti coloro che guardano alla carta militare come all’ultima soluzione per la Russia. Le ambasciate straniere sono curiose, interessate e anche indaffarate in incontri, pranzi, colloqui riservati, con gli inglesi in prima fila. Banchieri, circoli di commercianti, agenti di Borsa, associazioni patriottiche, club di artigiani, vescovi, proprietari immobiliari e l’unione degli ufficiali premono su Kornilov perché non rimandi l’azione. Dalla sua residenza prigioniera anche Nicola II aspetta di capire se le voci che gli arrivano sono vere, e se il generalissimo (che a marzo aveva portato personalmente alla Zarina l’ordine di arresto domiciliare per tutta la famiglia) restaurerà l’Impero e magari la Corona, se troverà un accordo con Kerenskij per salvare la Russia. Quando capirà che non è così, per la prima e unica volta confiderà sconfortato a monsieur Pierre Gilliard, il precettore del figlio, che la sua abdicazione è stata inutile, perché la Russia precipita senza rimedio.

Kerenskij e Kornilov, in realtà, si annusano e si spiano da tempo, usandosi e temendosi a vicenda, inseguendosi e anticipandosi. In un colloquio nei corridoi della Conferenza di Mosca, in mezzo alla confusione, il Capo del governo sente pronunciare per la prima volta dal generalissimo la parola “dittatura” e il concetto di “direttorio”. Ecco: una dittatura congiunta, in poche fidatissime mani, che associ il potere esecutivo e il comando militare potrebbe essere un esito utile e interessante per entrambi. Ma chi si fida, chi comanderà, chi finirà per prevalere? E intanto chi comincia, aprendo il gioco e cercando di condensare in un nuovo potere il cambio d’atmosfera della Russia? Con un ordine spettacolare, completamente autonomo dal governo e dal Primo ministro, Kornilov si è appena mosso convocando al Gran Quartier Generale quattro ufficiali per ogni reggimento, centinaia e centinaia di graduati a cui viene raccontato che i bolscevichi stanno organizzando l’insurrezione, bisogna reagire.

Kerenskij è informato di tutto, osserva, calcola, aspetta. Tentenna tra il timore di un putsch e la tentazione di lasciare che si compia, provando a inclinare la storia altrui a suo vantaggio, impadronendosi dell’esito finale. E’ la politica che crede, sempre, di avere l’ultima carta in mano, decisiva grazie all’arte del governo. Ma dall’altra parte c’è la forza che vede la concreta possibilità di trasformarsi essa stessa in politica, assorbendola e deformandola in comando, saltando mediazioni e subordinazioni, restituendo un’anima di ferro alla Russia cresciuta nell’autocrazia, senza poi riconsegnare quell’anima ai Soviet, alla Duma, ai partiti. Entrambi –il Primo ministro e il generalissimo- pensano che l’occasione sia da cogliere, il Paese sembra pronto: ma mentre giocano tengono il finale coperto, perché tutti e due credono che all’ultimo atto, nel giorno decisivo, riusciranno a prevalere sull’alleato-avversario, scartando.

C’è un mediatore-messaggero, che dal Quartier Generale arriva a Palazzo d’inverno, nella stanza di Kerenskij. E’ il deputato ottobrista Lvov, e ha in mano un ultimatum militare: stato d’assedio in tutto il Paese, dimissioni dell’intero governo, il Presidente del Consiglio torna a fare il ministro della Giustizia, il potere passa nelle mani del generalissimo. Nell’esplosione bianca delle notti d’estate, il 26 Kerenskij va al ministero della Guerra, vicino alla Mojka, e si siede nella sala dell’apparecchio Hughes, antenato delle telescriventi. Vuole registrare su nastro la conversazione con Kornilov, che risponde alla chiamata dalla “stavka”, il Gran Quartier generale. Il Primo ministro vuole avere conferma dell’ultimatum, e la riceve. Il generalissimo in più gli chiede di raggiungerlo subito a Mogilev, per ragioni di sicurezza, lo aspetta già domani. “Non andateci, guardatevene bene. Laggiù vi vogliono ammazzare”, dirà un’ora dopo a Kerenskij l’intermediario Lvov. “Voi fate parte della congiura contro lo Stato, io vi dichiaro in arresto”, risponde il Primo ministro, aprendo la porta della stanza ai soldati. Portano Lvov al terzo piano, nella sala dove all’epoca degli Zar riposavano le damigelle d’onore. Da lassù, nel silenzio della Piazza, alle quattro del mattino sentirà Kerenskij che nella stanza dell’Imperatore canta interi brani di opera, per attraversare in solitudine una notte senza sonno.

Ma prima, alle 11 di sera, il Presidente del Consiglio riunisce d’urgenza il governo e nella sala di malachite mostra il nastro Hughes con il dialogo della controrivoluzione. Kornilov viene destituito con un radiogramma urgente e il comando supremo dell’esercito passa al generale Klembovskij, capo delle truppe al fronte del Nord, mentre i ministri si dimettono, Kerenskij è investito di pieni poteri speciali, davanti al rischio estremo del putsch, e parte un telegramma che ordina al Gran Quartier generale di fermare le truppe in movimento, bloccando tutti i treni militari. Scatta la legge marziale. Kornilov non vuole cedere, chiede apertamente aiuto al comando della flotta del Baltico e del Mar Nero, muove tre divisioni di cavalleria su un convoglio ferroviario speciale verso Pietrogrado. C’è una guerra di proclami: Kerenskij accusa il generalissimo di aver sguarnito il fronte in guerra per attaccare la capitale, con un atto di tradimento. I traditori non sono qui tra di noi, risponde Kornilov, ma nel governo criminale che ha venduto la Russia all’oro del Kaiser, mentre la patria sta agonizzando “e l’ora della morte si avvicina”.

Mentre Piter vive un’altra giornata estrema, in preda a un delirio di voci e paure che segnalano le truppe dovunque, i cosacchi alla stazione di Finlandia, la cavalleria già a Zarskoe Selo, il battaglione del genio che arriva su nove convogli, il Primo Ministro vede il Palazzo d’Inverno svuotarsi, il pessimismo crescere col vuoto intorno a lui, i mediatori farsi avanti suggerendo di lasciare il governo al vecchio Capo di Stato maggiore zarista, il generale Alekseev, che saprà venire a patti con Kornilov ed evitare uno scontro armato in città e il sangue per strada. Kerenskij ascolta, pensa ancora di proporre al generalissimo il direttorio, poi fa la vera mossa politica decisiva che cambierà la sorte della partita. Svuota le carceri, apre la fortezza, libera i capi bolscevichi che aveva fatto arrestare nemmeno un mese prima, fa consegnare le armi alle fabbriche e ai reparti delle Guardie Rosse. Trotzkij va direttamente dal Kresty, la prigione, al Comitato per la difesa della rivoluzione. Con lui, davanti alla destra che avanza, alla borghesia che fa blocco, alla controrivoluzione lanciata contro i Soviet, Kamenev, Zinoviev, Stalin organizzano la difesa del Febbraio, mobilitano gli operai, muovono gli agitatori nell’esercito, i propagandisti nella polizia, le Guardie Rosse ferroviarie che occupano le stazioni, bloccano i binari, fermano i treni dei soldati.

La notte dell’incertezza è tra il 28 e il 29 agosto. La Russia va a dormire col generale Krymov che è giunto a Luga con un distaccamento da campagna pronto a garantire l’ultimo balzo del treno fino a Piter, mentre due reparti sono già arrivati a Gatcina e l’ataman dei cosacchi del Don si schiera con Kornilov, al quale il principe Bagration assicura che tutti gli uomini della divisione “Selvaggia” sono pronti a dare il sangue per lui. Ma al mattino si scopre che una delegazione musulmana con due mullah ha parlato proprio con la “Selvaggia”, convincendo i soldati a non tradire il governo, si capisce che i villaggi cosacchi non vogliono la ribellione, e intanto gli ufficiali dicono che qualcuno ha intascato i fondi raccolti per il colpo di Stato, i soldati non ubbidiscono più, il comandante Krymov viene addirittura arrestato. La controrivoluzione si arena davanti ai ponti della Neva, dov’era arrivata, senza sparare un colpo, l’armata immaginaria del generalissimo si scioglie l’ultimo giorno d’agosto, come la neve d’estate.

Interrogato da Kerenskij in quel Palazzo d’Inverno che doveva conquistare, Krymov ammette il complotto controrivoluzionario ma rifiuta di pentirsi cercando anzi di convincere il Capo del governo a farsi dittatore: poi, in attesa del carcere, viene portato al ministero della Guerra dove appena rimane solo si sparerà un colpo alla testa con la pistola del golpe militare. Il 2 settembre il generale Alekseev entra nella “stavka” per arrestare Kornilov, che senza resistere gli consegna la sua sciabola, proprio lui che aveva ricevuto la “spada d’oro al coraggio”. Otterrà in cambio una blanda prigionia nel monastero di Bychov, circondato addirittura dai fedelissimi turkmeni della sua guardia speciale, anche grazie alla supplica in suo favore del Concilio ecclesiastico di Mosca, “in nome di Dio e dell’amicizia di Cristo”.

Così, a cose fatte, la Chiesa benediceva la controrivoluzione tentata e abortita nello spazio russo di un mese. Oggi, quando si entra nella piccola chiesa sulla Porta della Resurrezione, che doveva aprire dal cielo la strada del golpe fino al Cremlino, le vecchie fedeli che raccolgono la cera sciolta delle candele sembrano ancora aspettare l’arrivo del generalissimo, come cent’anni fa. Ma allora, in quell’agosto del colpo di Stato, insieme con i ceri del generale davanti alla Madonna Iverskaja tornava a crescere in tutta la Russia la fiamma della rivoluzione, il fuoco di Lenin che sembrava spento si rianimava. L’operazione golpista, sconfitta, aveva rilanciato i bolscevichi in rotta, rilegittimandoli in un Paese sempre più fuori controllo. L’inflazione correva, il rublo crollava, la diserzione al fronte aumentava, gli espropri si moltiplicavano. Trotzkij passava da un comizio all’altro nei circoli operai di una città sfinita, scossa, stordita, ormai pronta a tutto nell’isteria sensitiva che prefigurava l’Ottobre, quasi lo anticipava, lo profetizzava a se stessa. Come quando al teatro Aleksandrinskij, durante la recita di “Grandine”, arrivava il momento dello scoppio del tuono: e a Piter il pubblico in platea si faceva ogni sera il segno della croce in silenzio, nel buio spaventato della sala, mentre fuori tutto era bianco nella notte russa e irreale d’estate.

 

                                                        Ezio Mauro