Sandro Penna (1906-1977), “Solitudine senza tetto né legge”

Sandro Penna (1906-1977), “Solitudine senza tetto né legge”

 

1.

Nel fresco orinatoio alla stazione

sono disceso dalla collina ardente.

Sulla mia pelle polvere e sudore

m’inebbriano. Negli occhi ancora canta

il sole. Anima e corpo ora abbandono

fra la lucida bianca porcellana.                                                          1929

 

2.

E’ il nobile sesso. E poi, di questo,

sola un’età (nobile sì, ma fresco!).

Di questa solo alcuni rari esemplari.

E infine, e poi… di te, ma tanto tanto

una sola immagine mi è cara.                                                 1938-1949

 

3.

Veloce va l’atleta adolescente

entro il meriggio placido e lento.

Ma lo abbraccia il crepuscolo, e ne spicca

adesso la sua ferma ombra in Atene.

Se si riveste, noi assistiamo all’epoca

dei calzoncini.                                                                               1938-1949

4.

E’ l’ora in cui si baciano i marmocchi

assonnati sui caldi ginocchi.

Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi

inutilmente. Io, mostro da niente.                                          1949-1955

 

da “Poesie”, Garzanti, 2000

 

Orinatoio”:parola scandalosa da scrivere in versi nel 1929 (a meno che non fosse nel registro comico-lazzaronesco del più basso avanspettacolo). Lo stesso Montale, amico e intellettuale non retrogrado, ritenne questa poesia impubblicabile –qui il termine è impiegato con arresa serietà, se non forse con un briciolo di orgoglio (“amici miei gli orinatoi…”, dice in un altro testo). La stazione è quella di Recanati dove Penna è andato in gita con un amico: nel secondo verso la “collina ardente” sostituisce un più allusivo (e provocatoriamente leopardiano) “colle rovente” della prima redazione. La polvere e il sudore sulla pelle non sono soltanto suoi, le imprese compiute al sole ancora gli cantano negli occhi –ma lì, in quel piccolo santuario che è l’orinatoio, può essere finalmente libero (anima e corpo) di ricordare e fantasticare –rivivendo il desiderio in solitudine. I melodici endecasillabi del primo e ultimo verso chiudono in una bolla intangibile l’esperienza, che non si può dettagliare perché appartiene a una sfera superiore. Il realismo di “orinatoio” è il realismo dei mistici, che non badano alle cautele del mondo quando nominano gli attrezzi terreni necessari all’estasi. Alla fine della prima redazione c’erano due versi in più, che Penna ha espunto con precoce orecchio: “solo così nel delizioso carcere / sento vivere in me calda la vita”. Impoetica pesantezza ragionativa, ma anche spietata autocoscienza che per lui la felicità è una prigione.

L’ingenuità di Penna è la reazione a un trauma: l’amore che lega e impegna lo ha conosciuto, prima con la madre andata via di casa quando lui aveva 14 anni, poi con un ragazzo ebreo di cui sentiva di non poter fare a meno –si è spaventato della dipendenza e ha preferito rinunciare (“non ammettevo le relazioni”, confesserà da vecchio). Guardiamo alla progressione di selettività che presiede al secondo testo: prima un’affermazione misogina, il sesso maschile come “sesso nobile”; poi il primato (gidiano e greco) della pederastia sull’omosessualità; poi il privilegio della bellezza, pochi esemplari della specie. E poi, del ragazzo amato, una sola immagine: quel che si salta è la persona del ragazzo –col suo carattere e i suoi inevitabili limiti. Solo la crema delle sensazioni, il meglio del meglio: come non leggere la disperazione dietro una tale vanteria?

Contrariamente al solito, di Penna non commento un testo ma quattro; in lui la serialità è forse l’essenziale, i ragazzini come le bottiglie per Morandi. Intercambiabili perché ridotti, appunto, a sola icona. Un profilo, un particolare del corpo, un gesto o un’unica parola; non consigliavano, i mistici, di concentrare le facoltà su un solo oggetto per pervenire all’apatia? Nel terzo testo ecco un adolescente, uno dei tanti, apparire e vivere per un attimo: loro sono il movimento, la naturalezza animale (cioè angelica), l’infrazione alle stupide leggi adulte. Irrompe nella lentezza del pomeriggio e la contrasta, ma il sopravveniente crepuscolo lo abbraccia come Penna vorrebbe fare; ora l’adolescente è immobile come una statua olimpica, scolpito nell’intemporalità. Ma la grecità (come nei disegni di De Pisis) fa presto a modernizzarsi, appena sul corpo nudo infila i calzoncini: più eccitanti del nudo perché lo avvicinano e lo rendono abbordabile. Eppure, con quell’ultimo quinario che conclude la serie di endecasillabi come se fosse un classico adonio, l’epoca dei calzoncini è già un tempo mitico. Nelle poesie di Penna tutto è rigorosamente fisico, non c’è nemmeno un simbolo, eppure tutto parla di un mondo che non è il nostro.

Si appoggia a una lingua poetica media, un po’ congelata e consunta, facilissima; a una metrica tradizionale impreziosita da sprezzature e licenze apparentemente sciatte ma studiatissime, ipermetri e iati, assonanze e quasi-rime. La sua audacia tematica è compensata dalla castità stilistica, da un sapore ormai nostalgico di “vecchio Novecento”; Penna rischia di diventare un poeta chic per mezzecalze culturali. Bisogna ritornare alla violenza delle sue contraddizioni, alla follia di quel suo contrapporre continuamente l’onnipotenza della gioia e la disappartenenza al genere umano. Come un sasso, una bestia, uno che non c’entra niente con una civiltà fondata sulla repressione (provò la psicanalisi ma fu un pessimo paziente). “Io, mostro da niente” si definisce nel quarto testo (quello più della vecchiaia), facendosi paura da solo. Fa rima con “inutilmente”. E’ inutile guardare la vita da fuori: la solitudine è un bellissimo posto per spiare ma così il solo amore possibile è quello non ricambiato, la sola postura è quella del ladro o del mendicante. Ci vuole un coraggio mostruoso per accettarlo. I primi tre versi a rima baciata (marmocchi, ginocchi, occhi) sono la ninna nanna da cui si è esclusi. Penna ha dato alla poesia italiana, diceva Saba, “i tanto attesi canti della maternità”; ma non è vero. In lui c’è piuttosto la vergogna della maternità assente, e di doverla surrogare con pratiche trionfalmente infamanti. Escluso dal calore torrido del desiderio come da quello temperato della famiglia, l’unico calore possibile è alla fine quello onanistico dei suoi versi; la sua stessa grazia diventa il suo alibi.

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 26 ottobre 2014, p. 56