Spunti d’analisi per un convegno sulla riforma della scuola secondaria superiore. Venezia, ottobre 1979

Questo è il testo della relazione distribuita a tutte le compagne e i compagni della Commissione Scuola di Venezia, ai primi di ottobre del 1979,  per preparare un convegno sulla riforma della scuola secondaria superiore che si è tenuto poi nel marzo del 1980.

 

Spunti d’analisi per la preparazione di un convegno sulla riforma della scuola secondaria superiore

Ottobre 1979                                                                      Gennaro Cucciniello

            Responsabile della Commissione Scuola e Cultura del PCI di Venezia

 

Ho preparato alcune note di riflessione, volutamente incomplete e sotto forma di schema, affinché possano servire da canovaccio per un dibattito utile a preparare un convegno del partito e le necessarie iniziative politiche sui processi di riforma della scuola superiore.

Sottolineo alcune contraddizioni che abbiamo criticamente rimarcato nell’esperienza di questi ultimi tre anni: sono state faticosamente concordate delle leggi in un logorante gioco parlamentare, leggi che non hanno portato ad alcun rinnovamento del fare scuola; si sono sviluppati dibattiti sulla riforma che, al di là del confronto generale, si sono rivelati chiacchiericci senza supporti di esperienze, il che ci ha spiazzato anche sul terreno della concreta organizzazione del lavoro formativo; c’è stato uno scarto preoccupante tra l’elaborazione legislativa e l’attività del governo, in una situazione che –abbandonata a se stessa- ha teso sempre più a deteriorarsi. Tutto questo mentre la DC sul piano politico, e con essa le forze sociali dominanti, hanno lavorato sui dati strutturali della crisi.

In questi anni c’è stato sviluppo (sia pure distorto e disuguale), non recessione: il che ha fatto evolvere le classi, ha dinamicizzato la società, ha cambiato la coscienza collettiva e i bisogni, e ci ha spiazzato. Noi guardavamo negativamente la crisi; la DC, col personale tecnico e intellettuale suo e alleato, ha gestito questo sviluppo seguendo una filosofia dell’assistenza, della terziarizzazione, dell’economia sommersa. Ha continuato ad esercitare un sapiente controllo sulle figure dinamiche dello “sviluppo dipendente” ritagliato per l’Italia nella divisione internazionale del lavoro e dalla crisi internazionale più rigidamente riconfermato. Nella scuola questo ha significato una prosecuzione, sia pure con varianti che specificherò, del parcheggio giovanile e un elaborato assorbimento amministrativo delle contraddizioni, chiave di volta per comprendere il fallimento della democrazia scolastica. E questo la DC l’ha fatto non isolandosi ma correlandosi ad una tendenza che si può definire OCSE, europea. Si potrebbe perciò fare una ricostruzione del genere: è saltata la strategia anni ’60 di espansione delle strutture scolastiche come strumento di politica attiva del lavoro (in previsione dell’espansione dell’occupazione qualificata); si è preso atto che il basso sviluppo dell’occupazione è diventato un dato strutturale delle società a capitalismo sviluppato, e che questo durerà almeno per due decenni; si è preso atto ancora che la scuola, in quanto istituzione, presenta caratteristiche di viscosità e di resistenza alla modificazione; si è dovuto tener conto dei bisogni impellenti imposti dalla crisi (riduzione d’una consistente domanda di lavoro qualificato, gravità della disoccupazione giovanile soprattutto scolarizzata). Quindi c’è una tendenza, non reazionaria né maltusiana, a considerare la scuola superiore come uno strumento della crescita culturale, sociale, scientifica di massa, progressivamente però svincolandola da immediate relazioni con possibilità occupazionali, per arrivare alle quali ci sarà bisogno di una “mediazione professionalizzante”. Ne dovrebbero scaturire alcune inevitabili conseguenze: l’impossibilità di far valere il titolo conseguito nei confronti del mondo produttivo (abolizione del valore legale del titolo o, meglio, sua dequalificazione fino a renderlo inutile); scuola sede di cultura disinteressata, nel peggiore dei casi di pura e semplice socializzazione, parcheggio della forza-lavoro di massa; svincolare la scuola dal mercato del lavoro mentre le competenze che contano sarebbero distribuite altrove, la formazione delle élites sarebbe demandata alle scuole private.

Un documento OCSE, citato dal CISEM in un recente convegno, recita: “Con la recessione economica l’interrogativo su chi debba assumere la responsabilità della formazione è balzato in primo piano”. Non è azzardata perciò l’ipotesi di una tripartizione del sistema formativo che riprivatizza momenti decisivi della formazione: scuola secondaria unitaria; formazione professionale, altro canale formativo più duttile, più collegato alla realtà produttiva; formazione e strumenti formativi per i lavoratori, congedi pagati per l’istruzione, la formazione sul lavoro, la formazione aziendale. Questo risponderebbe già ad alcuni dati concretamente emersi negli ultimi anni: si è stabilizzato il tasso di scolarità secondaria (il 51% della fascia d’età corrispondente, dati Censis riferiti al 1977); sono aumentati gli abbandoni scolastici; c’è la preferenza per formazioni professionali brevi; si è registrato un incremento della formazione sul lavoro e un vertiginoso aumento delle scuole private nel 1978. Il quadro europeo, al proposito, conferma, anzi aggrava, tale impressione.

Questi elementi d’analisi rimarcano l’errore di fondo da noi compiuto nell’intervento sulla scuola superiore. Abbiamo affidato alla sola Sezione Scuola del partito il compito di studiare i temi della riforma delle strutture formative. Le esitazioni, le timidezze, gli impacci nel precisare i passaggi della cosiddetta “terza via”, l’incapacità che abbiamo avuto nel definire gli obiettivi del cambiamento ci hanno costretto a svolgere –nella scuola- solo una supplenza istituzionale e che si è tradotta nella nota formula del “salvare la scuola”. Ma questa scuola non si può salvare senza riformarla profondamente. Così, senza cambiamento, noi siamo apparsi o i difensori dell’esistente o i predicatori d’una trasformazione di là da venire. E mentre noi rimanevamo schiacciati sull’emergenza (l’accordo a tutti i costi in Parlamento con la DC) subivamo un attacco duro proprio sul fronte del cambiamento: la DC e gli altri trasformavano senza riforma. Ed errori li abbiamo fatti anche sul terreno del movimento da costruire. Ci siamo un po’ chiusi negli accordi di vertice e nel dibattito tecnico parlamentare mentre abbiamo bisogno di unificare conoscenze e competenze, esperienze reali, democrazia partecipata che si traduca in potere reale. La gente ha il diritto di misurare le tappe del processo in termini di esercizio del potere.

Scrivevo prima che questa analisi è tagliata con angolatura ridotta, autocritica ma non recriminatoria. Sono convinto infatti che nella scuola si stia sviluppando uno scontro di enorme portata (confuso, caotico ma significativo), che è legato alla battaglia sull’egemonia, e che c’è una situazione di precario equilibrio in cui noi, la sinistra, non abbiamo ancora perduto, pur avendo fallito l’esercizio di un’egemonia politica (sulle funzioni dello Stato), di un’egemonia teorica (relativa ai livelli della scienza moderna). Ne è una dimostrazione –contraddittoria- il progetto da poco approvato alla Camera sulla riforma della secondaria, su cui occorrerà tornare per una ridefinizione più puntuale delle critiche e delle modifiche da apportare. Per questo abbiamo bisogno del convegno e su questo terreno dobbiamo farlo calare. Ci occorre un intervento collettivo e complessivo del partito; dobbiamo riprendere gusto a discutere di politica confrontandoci con problemi e proposte concrete; dobbiamo mobilitare e usare e valorizzare tutte le energie dei compagni.

Io sottolineerei due esigenze, due filoni di lavoro: uno che affronti la trascrizione didattica delle ipotesi riformatrici, che riesca a calarsi nelle concreta esperienza scolastica quotidiana, e uno che provi a conoscere le implicazioni di politica economica, di dialettica sociale e di governo e uso del territorio. Non per separarli schematicamente ma per lavorare seriamente su problemi che hanno una loro diversa specificità, che forse avranno anche tempi diversi di realizzazione ma che sono comunque strettamente intrecciati, oltre che per evitare dabbenaggini e cavalcate inconcludenti. Indicherò alcune esigenze.

La “trascrizione didattica”.  E’ una brutta espressione ma ora non trovo di meglio. Ci dobbiamo dotare di capacità di analisi delle sperimentazioni in atto nella nostra regione. Solo esse possono consentirci di leggere –in vitro- nella fatica quotidiana i problemi gravi e complessi che si apriranno con la riforma. Si è diffusa un’impressione negativa circa la corrispondenza tra le mediazioni raggiunte in sede politica e tecnica e i problemi operativi che ne derivano. Il governo si è comportato e si comporta pessimamente: autorizza esperienze sperimentali che poi non ritiene nemmeno degne di una verifica obiettiva, per poi magari sostenere che non sono serie e non possono essere generalizzate. Ma anche il PCI fa altrettanto: non si è impegnato nelle esperienze, ritenendole sprovvedute e riduttive, ma ancora ora non fa uno sforzo minimo per conoscerle e capirle. La riforma prevede un modello di organizzazione degli studi tutt’altro che semplice, aggravato da noi dal fatto che non c’è abitudine nelle scuole ad organizzare in modo autonomo il lavoro; mancano per di più strutture scientifiche qualificate per la ricerca educativa; c’è una crisi dell’università, ora soltanto nascono gli IRSAE. Quindi occorre creare il retroterra conoscitivo e teorico della nuova scuola. Sviluppare le iniziative necessarie all’acquisizione di quel “saper fare” educativo che dovrebbe poter riempire di contenuti la cornice legislativa. Ci sono infine i problemi dei contenuti culturali, la ridefinizione delle materie, la riflessione epistemologica, la collaborazione pluridisciplinare, l’organizzazione e il controllo dei curricoli, le modalità di orientamento, gli obiettivi e le verifiche della formazione culturale comune e delle professionalità, il coordinamento tra esperienze interne ed esterne alla scuola, le attività elettive, gli esami di diploma. Ecco, ho provato solo a fare un elenco di questioni che meritano attento esame e serietà di soluzioni.

Faccio un esempio concreto. Il rapporto tra area comune, area di indirizzo, area elettiva. Occorrerà evitare situazioni educative schizofreniche, con studenti che percorrono tre curricoli paralleli e incomunicanti: bisogna invece stabilire una connessione funzionale tra gli obiettivi delle tre aree. Ci sono almeno quattro ipotesi che nella concreta esperienza si affacceranno (io ho potuto notarlo allo “Sperimentale Stefanini”): 1- obiettivi di area comune (AC) molto generali, propedeutici ai vari settori disciplinari; obiettivi di Indirizzo (I): sviluppi in profondità; area elettiva (E): arricchimenti specialistici o aggiunte disinteressate, magari creative. Resterebbe inalterata l’attuale gerarchia delle discipline a seconda del tipo di scuola: soluzione pessima che vanificherebbe la riforma, ma che è la più vicina al senso comune della gente e anche di molti insegnanti. La nostra concezione postula invece la formazione di una generale coscienza storica e scientifica dentro la quale si inserisce organicamente il momento tecnico-specialistico. 2- All’AC si affida la socializzazione culturale, con l’acquisizione privilegiata di abilità linguistico-espressive, mentre nell’I si sviluppano impegnativi curricoli di apprendimento. C’è una nozione dell’AC suggestiva ma da scuola dell’obbligo; c’è un meta-obiettivo retorico: privilegio del criticismo verbale e del disinvolto espressivismo, abilità tipica della scuola liceale, adeguata ai consueti meccanismi della selezione di classe. 3- Nell’AC il dominio d’una cultura non finalizzata, mentre negli I la dimensione applicativa delle conoscenze. E’ mantenuta una nozione divaricante della cultura e la gerarchizzazione tra indirizzi. 4- Insieme gli obiettivi dell’AC e degli I realizzano analoghe sintesi di elementi teorici e pratici, aprendo negli I gli specifici settori problematici. Questa sarebbe la soluzione in astratto migliore ma esiste il rischio che la formazione comune sia subordinata alle scelte di indirizzo: per uno studente del linguistico conterà di più l’Italiano dell’AC, per uno dello scientifico di più la Matematica dell’AC. Ad evitare un tale orientamento occorrerebbe definire e controllare con rigore la programmazione autonoma dell’AC. Ma soprattutto sarebbe indispensabile la compresenza in una stessa classe di allievi di indirizzi diversi. Ma qui il progetto approvato alla Camera non ci aiuta: l’art. 29 non solo ribadisce rigidamente le classi, non solo precisa che dovranno essere affollate ma delega ai provveditori –in via di deroga, in situazioni ambientali particolari e ove sia possibile- la facoltà di autorizzare che “i programmi relativi alle discipline dell’AC siano svolti in classi nelle quali confluiscano allievi di indirizzi diversi”; senza dire che dallo stesso articolo si evince che nello stesso istituto non ci saranno affatto né tutte le opzioni di indirizzo né la maggioranza di esse.

E a questi problemi sono connessi tutta una serie di fondamentali questioni organizzative, diciamo di delicatezza strutturale. L’organizzazione del lavoro, la dialettica tra classe e modulo, la diversificazione e l’integrazione tra docenti dell’AC e degli I e delle E, l’orario di servizio, le compresenze, la programmazione comune e il controllo del lavoro, il dibattito sulle metodologie e sui traguardi formativi, lo spazio-scuola e la situazione edilizia con la riconversione delle strutture esistenti, il censimento delle risorse non strettamente scolastiche. Mi fermo qui perché non voglio elencare diligentemente tutti i nodi, ripeto didatticamente strutturali, che la riforma pretenderà che siano affrontati ma solo dare un’idea ai non addetti ai lavori della mole ingentissima delle difficoltà che si presenteranno a breve scadenza. A questo io lego l’uso intelligente e coraggioso della contrattualistica sindacale, sin dal prossimo contratto.

Il raccordo tra riforma della scuola, sistema produttivo e organizzazione del lavoro. Qui si incontrano le maggiori difficoltà. Intanto si possono avanzare alcune ipotesi interpretative dei decenni trascorsi in relazione a due fenomeni abbastanza spiccati. 1- In Italia si è modificata profondamente la stratificazione sociale. E’ cresciuta la domanda d’istruzione –come via breve per la promozione sociale- ma anche per la spinta egualitaria del movimento operaio. La DC e i partiti laici suoi alleati vi erano interessati per favorire l’irrobustirsi dei ceti medi, e l’allargamento dell’istruzione è forse lo strumento più manovrabile, a patto che l’istruzione sia antagonista alla classe operaia, apra le porte dell’impiego e non quelle della fabbrica. Bisognerebbe, comunque, che il nostro partito approfondisca di più l’analisi di questa terziarizzazione, valutandone le distinzioni. Dal canto suo il movimento operaio e i sindacati non sono riusciti a fissare e ad imporre obiettivi intermedi, sicché hanno finito col sostenere ogni ulteriore corsa alla scolarizzazione, senza processi di riforma e senza una significativa modifica dei meccanismi selettivi di classe: hanno visto così e vedono crescere i ceti medi con i quali dovranno porsi problemi di alleanze e avanzare una disoccupazione di tipo nuovo. 2- Si è completamente modificato l’apparato produttivo, è in crisi la tradizionale organizzazione del lavoro, del vecchio mestiere e del taylorismo; la scuola lo sta inseguendo con una corsa all’individuazione di sempre nuovi profili professionali (sembra più di 200), subito fatiscenti. Ci sono mutamenti straordinariamente rapidi della tecnologia, delle forme di organizzazione aziendale e sociale del lavoro, della ricerca scientifica. E crescono i bisogni formativi di riqualificazione, di aggiornamento e di cultura degli adulti.

Ne consegue un’esigenza fondamentale. Il sistema d’istruzione post-obbligatorio deve fondarsi sul principio della transizione tra scuola e lavoro, consentendo anche l’alternanza lavoro-scuola, non per dividersi fra tanti i pochi posti di lavoro o per convincere ad accettare il lavoro così com’è ma per creare processi reali che incidano sull’occupazione. Certo, occorrerà affrontare contraddizioni di tipo nuovo: la crescita dei livelli d’istruzione farà aumentare sempre più il rifiuto dei lavori più pesanti e dequalificati; se vorremo evitare di dar luogo a minoranze discriminate dovremo configurare un’area del lavoro socialmente utile da mantenere anche con le occasioni di lavoro temporaneo offerte ai giovani studenti. E si pone con urgenza il problema d’una diversa qualità del lavoro per tutti, se si vuole materialisticamente –e senza moralismi- arrestare la tendenza verso il lavoro impiegatizio. E per fare alcuni esempi indico alcuni problemi che ritengo centrali: l’impegno immediato per la definizione degli indirizzi professionali in ogni area di Distretto e per i singoli istituti o plessi scolastici; precisare i legami tra questi Indirizzi e la produzione, i servizi sociali, il piano economico territoriale; definire il ruolo degli Enti locali; stabilire progetti di integrazione tra strutture territoriali e strutture scolastiche; organizzare stretti collegamenti tra le riforme della scuola superiore, dell’istruzione professionale, dell’Università, della Sanità, dell’agro-alimentare, dei trasporti, delle strutture dello Stato. C’è bisogno di un rilancio molto serio della programmazione, unico elemento di modifica dei processi spontanei che –abbiamo visto- tendono alla divaricazione dei momenti formativi, di un programma finalizzato alla crescita sociale e civile della regione Veneto. E tutto questo filtrato scolasticamente, a livello di consapevolezza e prima ancora di informazione, di metodo di lavoro, di contenuti formativi, di esperienze quotidiane, pena il velleitarismo o il frammentismo inconcludente.

Ho trascurato intenzionalmente di trattare della “questione giovanile”: non perché la ritenga marginale, tutt’altro, ma per la mia impreparazione a parlarne se non nei termini d’un riporto meccanico della letteratura giornalistica. Spero che più utilmente ad investirsene siano direttamente i giovani compagni della FGCI, in autonomia piena ma con sforzo di pensiero. Abbiamo pagato nel nostro rapporto con i giovani anche per un abito pedagogico, borioso perché solo predicatorio a volte, proprio mentre la gioventù rifiutava la politica dogmatica ed esprimeva forse il bisogno di costruire certezze solo soddisfacendo delle incertezze.

Un lavoro di questo genere, se assunto seriamente dal partito tutto, può consentirci di riprendere –in forme nuove e vivaci- l’iniziativa in questo difficile settore, ci potrà permettere la costruzione di gruppi di lavoro capaci di assumersi responsabilità e di sviluppare, di dirigere un fecondo e spregiudicato dibattito politico e culturale. Con una duplice avvertenza. Il protagonismo, in questo come in tutti i processi di riforma e trasformazione della società e dello Stato, sarà molteplice e contraddittorio: noi del PCI dovremmo avvertire come positivissimi la pluralità degli apporti e aprirci al confronto e stimolare i contributi. Di questo saremo capaci, saremo interlocutori preziosi, potremo esercitare egemonia se saremo non solo politicamente attivi ma tecnicamente e culturalmente competenti.