W. Auden, “Funeral blues”, 1936

Wystan H. Auden (1907-1973), “Funerario blues”, aprile 1936

 

Fermate tutti gli orologi, staccate il telefono,

date un osso succoso al cane, che non abbai,

silenziate i pianoforti e con tamburi velati

portate fuori la bara, cedete il passo ai piangenti.                                   4

 

Volteggino gli aerei gemendo sopra le nostre teste,

scarabocchino in cielo il messaggio Lui E’ Morto;

collarini di crespo al bianco collo delle colombe ufficiali,

e i pizzardoni indossino i guanti neri di cotone.                             8

 

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est e Ovest,

la mia settimana lavorativa e il mio riposo domenicale,

il mezzogiorno e mezzanotte, la mia parola, il mio canto;

pensavo che l’amore durasse per sempre: avevo torto.              12

 

Le stelle ora non sono richieste; spegnetele tutte,

impacchettate la luna e smantellate il sole,

svuotate gli oceani e ramazzate via le foreste;

perché niente può più tornare utile, ormai.                                    16

 

                                              

 

                                                Funeral Blues

 

Stop all the clocks, cut off the telephone,

prevent the dog from barking with a juicy bone,

silence the pianos and with muffled drum

bring out the coffin, let the mourners come.                                                         4

 

Let aeroplanes circle moaning overhead

scribbling on the sky the message He Is Dead,

put crepe bows round the white necks of the public doves,

let the traffic policemen wear black cotton gloves.                                              8

 

He was my North, my South, my East and West,

my working week and my Sunday rest,

my noon, my midnight, my talk, my song;

I thought that love would last for ever: I was wrong.                              12

 

The stars are not wanted now; put out every one,

pack up the moon and dismantle the sun,

pour away the ocean and sweep up the wood;

for nothing now can ever come to any good.                                            16

 

da “Lighter poems”, in “Another time” (1940)

 

Tutti ricorderanno questa poesia nella scena più commovente di “Quattro matrimoni e un funerale”, la commedia inglese del 1994: John Hannah che si sforza di trattenere le lacrime leggendola durante le esequie del suo buffo, anziano amante. Molti uscendo dal cinema avranno attribuito all’autore di quella lirica una vicenda analoga, la perdita dell’uomo che amava. Spesso si dimentica che le poesie sono anche il frutto di un abile, ma non per questo superficiale, artigianato. La prima redazione di questo testo risale a tutt’altra occasione e l’amore non c’entrava niente. La scalata dell’F6 è una pièce che Auden scrisse a quattro mani con Isherwood: vi si parla di uno scalatore la cui vena idealistica viene sfruttata a scopi politici per la conquista di una vetta himalayana. Una pièce brechtiana e satirica contro le false sirene del nazionalismo e del superomismo; l’improvvisa rivelazione che alla base dell’impresa non c’erano (dantescamente) virtù e conoscenza, ma solo desiderio di potere, stronca con un infarto il fratello-controfigura dello scalatore –ed è per questa morte che entra un coro di monaci parodiando il genere del lamento funebre. Le prime due strofe sono identiche a quelle del nostro testo, poi ne seguono altre tre che piegano più decisamente verso il comico-grottesco: con pratiche autoptiche per verificare la morte e un carro funebre a motore che porta via la salma “a nove miglia all’ora”. La pièce, edita nel 1936, fu messa in scena l’anno dopo con musiche di Britten; questo Funeral blues (nella redazione che leggiamo ora) fu poi reso indipendente dal testo teatrale e comparve in Another time, la raccolta audeniana del 1940, in un gruppetto di Four cabaret songs for Heidli Anderson (una cantante che già era stata diretta da Britten nella pièce). Un song leggero dunque, per voce femminile, che riecheggia il misto di passionalità e distacco del cabaret.

Le rime baciate (che si perdono in traduzione) sono una delle forme metriche preferite da Auden proprio perché adatte a coniugare istinto e ironia. Le prime due strofe sono effettivamente quelle in cui l’ufficialità è messa più in canzonatura: l’arcaicità elisabettiana dei “muffled drums” (v. 3), quella addirittura medievale dei “mourners” (v. 4), i lamentatori, e poi l’enfasi modernista-pubblicitaria delle scritte aeree, e i guanti a lutto dei vigili urbani e infine l’invenzione ribalda dei collarini di pizzo alle “public doves” (v. 7) (le colombe usate dagli enti pubblici per le cerimonie di gala). E’ vero d’altra parte che chi è innamorato spesso si rende ridicolo, e che il lutto sinceramente sentito esige il silenzio. Non è stato difficile quindi, per Auden, trasformare un testo satirico in uno che esprimesse l’irrazionalità sentimentale: se il “he” del v. 6 era l’eroe della menzogna istituzionale, ecco che ripreso al v. 9 si trasforma nel centro più autentico dell’idolatria amorosa: l’essere amato come riassunto superstizioso del mondo. Quel “my” ripetuto nove volte in tre versi, in un delirio di desolazione ed esclusività; i calibrati vv. 9-11 si sbilanciano nel grido del v. 12 (e Britten, ri-musicando il song, non si è lasciato sfuggire la drammatica dissonanza).

Ma l’operazione non sarebbe riuscita così bene se la tecnica non avesse potuto poggiarsi su qualcosa di più profondo: nel lavoro di trasmutazione del testo, Auden ha esagerato nell’ultima strofa la follia egotistica di onnipotenza. Certo, la radicalità appartiene alla tradizione delle lamentazioni classiche, ma qui l’accanimento distruttivo sembra una Creazione all’incontrario –un piccolo dio che smantella il mondo con la furia di un proprietario che sbaracca casa (pack up, pour away, sweep up). Come non ricordare, allora, che in “Depravity. A sermon” (del 1935) Auden aveva equiparato “il bisbiglio di tre sillabe: Tu sei Dio” alla pazzia torva e fanatica che stava portando il mondo alla rovina? Il libertario Auden, che con Isherwood aveva instaurato un ménage capace di inglobare reciproche distrazioni e infedeltà, nutriva nel più buio di sé la nostalgia per l’amore unico ed eterno: “Ogni donna e uomo si strugge nelle ossa / per desiderio di quel che non può ottenere:/ non l’amore universale,/ ma di avere solo per sé ogni amore”. Nella leggerezza dandy del “cabaret song” si annida un mediocre strazio di impossibilità.

Auden era troppo buon marxista per non sapere che struttura e sovrastruttura si influenzano a vicenda: come i sentimenti muovono sotterraneamente la politica, non è strano che un’emozione nata dalla politica possa ripercuotersi sul privato. La tentazione totalitaria dell’eroe e il desiderio fuori misura dell’innamorato insistono sulle stesse note; ammetterlo significa superare la parodia e porsi domande serie sull’oscurità dei tempi: il repulisti cosmico che l’innamorato invoca sta per compiersi, su altra scala, nella storia d’Europa –“the stars are dead”, le stelle sono morte, scrive nel 1937 in una poesia sulla guerra di Spagna. La cultura di massa nel film citato all’inizio ha certo volgarizzato il testo togliendogli lo spessore ironico e quello storico; ma ha conservato il nocciolo che Auden, nella sua eleganza, non avrebbe mai ammesso senza aggiungerci qualche gioco di prestigio.

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 7 settembre 2014, p. 54