William Shakespeare aveva già capito il Pop

William Shakespeare aveva già capito il Pop

A 400 anni dalla morte, l’ex direttore del British Museum spiega perché il bardo è diventato emblema identitario di un Paese. Coinvolgendo tutti i ceti sociali.

 

Questo articolo di Neil MacGregor è stato pubblicato nel “Venerdì” di “Repubblica” il 19 agosto 2016, alle pp. 90-93. MacGregor ha scritto il saggio, “Shakespeare’s Restless World: An Unexpected History in Twenty Objects”, Penguin Books, London 2013.

 

Shakespeare offriva un’arte raffinata a un pubblico di massa. Questa tradizione inglese può essere trapiantata in altri Paesi?

Da più di 70 anni una delle trasmissioni più amate della BBC è Desert Island Discs, un format basato su un’idea semplice: ogni settimana un ospite celebre viene invitato in studio per presentare otto brani musicali e un libro che vorrebbe gli tenessero compagnia su un’isola deserta. Nella conversazione sulle loro scelte gli ospiti rivelano molto di sé e della loro visione del mondo. Sull’isola non c’è altra musica, ma vi si trovano già due libri: la Bibbia e le opere di Shakespeare. Cosa questo significhi, è chiaro. Per un madrelingua inglese è semplicemente inimmaginabile affrontare le sfide di un mondo diverso e di una nuova esistenza senza avere Shakespeare con sé.

Shakespeare ha un’importanza fondamentale non solo per l’evoluzione della lingua inglese, ma anche per l’autostima degli inglesi. Siamo quello che siamo perché le sue parole sono diventate la nostra lingua. Di fronte alla minaccia dell’invasione napoleonica William Wordsworth poté scrivere senza tanti giri di parole: “Noi, che parliamo la lingua di Shakespeare, dobbiamo essere liberi o morire”.

Centocinquant’anni dopo, Enrico V che infiamma le sue truppe con i versi trascinanti di Shakespeare diventò, nel momento storico in cui incombevano i pericoli della seconda guerra mondiale, la voce a cui erano affidate le speranze di tutto il mondo anglofono. Negli ultimi cinque anni, quando il referendum sull’indipendenza della Scozia ha rischiato di spezzare la Gran Bretagna, il Re Lear è sembrato dare una rappresentazione vivida dei danni che un sovrano debole e irresponsabile può provocare a uno Stato.

Come questo creatore di miti nazionali, così concentrato sulle questioni politiche britanniche, sia potuto diventare il poeta dell’intera umanità, è argomento di analisi e motivo di celebrazioni in questo anno, il quattrocentesimo della sua morte. Spero però che accanto al mistero della sua esistenza e della sua straordinaria creatività poetica si riesca a dare il giusto risalto anche a un aspetto pragmatico del suo genio.

Diversamente dalla maggioranza dei drammaturghi del suo tempo, il Bardo è morto ricco. Perché? Perché non ha soltanto dato forma a una nuova lingua, ma ha anche definito un nuovo rapporto tra la cultura elevata e il pubblico, tra il teatro e la strada. Il poeta era uno scafato uomo d’affari, perché nei nuovi teatri commerciali di Londra un drammaturgo di successo non doveva piacere soltanto ai monarchi o ai mecenati, ma doveva conquistare un intero pubblico – e catturarne l’attenzione. Il Globe Theatre sta al vertice della letteratura inglese moderna e di una tradizione britannica di cultura pubblica in cui si mescolano il finanziamento statale e quello privato e dove il pubblico e l’autore creano assieme un mondo di conoscenza e di ricreazione.

Il teatro pubblico nella Londra elisabettiana era un nuovo mezzo di comunicazione. Anche se veniva designato con un termine classico, l’edificio era inglese  e moderno nella forma: un ferro di cavallo chiuso, che nel centro si apriva al cielo. In questa “O di legno” i ricchi sedevano nei posti più cari, le gallerie coperte, mentre i poveri pagavano un penny per stare nel cortile interno scoperto, sperando nel bel tempo (a quel tempo un bel rischio come oggi).

Qui (cosa assolutamente impensabile nel teatro di corte del continente) era presente l’intera società: dall’alta aristocrazia, che occupava le sue logge private, ai membri dei ceti professionali e delle corporazioni, ospitati nelle gallerie sottostanti, fino agli apprendisti e ai lavoratori a giornata, che affollavano il cortile interno. Era un intrattenimento di massa, rivolto a tutta la popolazione, per molti aspetti non dissimile dalla televisione degli anni ’50 e ’60. E come la televisione anche questo nuovo teatro commerciale attirava grandi talenti e un gran numero di spettatori. Sappiamo che attorno al 1600 spesso almeno tre teatri concorrenti tenevano le loro rappresentazioni nello stesso tempo.

Come si riesce  divertire un pubblico che presenta una così sconcertante varietà di cultura e istruzione? Ogni opera teatrale di Shakespeare è una risposta a questa domanda. Gli si racconta una buona storia d’amore o di inganno, di eroismo nazionale o di follia individuale. Si allude ai temi politici più rilevanti del presente: la paura di una guerra civile o di un’invasione straniera. Si incanta il proprio pubblico con la poesia, dopodiché si spezza l’incantesimo con lazzi e canzoncine. E qua e là una lotta o un duello (a quei tempi molto amati, come oggi il calcio).

Chiunque vada in un teatro vuole vedere e ascoltare se stesso sul suo palcoscenico. Shakespeare li mette in scena tutti. Carpentieri e tessitori hanno il loro momento di gloria nel Sogno di una notte di mezza estate accanto agli amanti aristocratici. I ragazzi che si godono un giorno (e una sera) liberi e stanno nel cortile interno si identificano immediatamente con le bande rivali di Romeo e Giulietta: parlano lo stesso slang e ridono nelle osterie delle stesse battute. Le donne degli artigiani e dei commercianti possono mescolarsi idealmente al seguito di Cleopatra e ridere sul modo in cui quest’ultima si delizia nel ricordo delle gioie sessuali con Antonio (“Fortunato cavallo, che ti porti il peso di Antonio!”), così come le donne di oggi confidano sui social media le loro fantasie con George Clooney.

In tutte e tre queste opere teatrali la poesia più sublime della lingua inglese forma un contrappunto alla voce quotidiana del pubblico. In un senso quasi musicale esso accompagna i protagonisti verso la loro fine, felice o tragica. Solo con il nostro coinvolgimento l’impresa artistica può riuscire. Non sorprende che questa tattica per divertire e avvincere un vasto pubblico avesse grande successo, tanto che nel 1607 Francis Beaumont la parodiò nella sua commedia Il cavaliere del pestello ardente. Quando la rappresentazione comincia, un bottegaio e sua moglie escono dal pubblico e si lamentano che vogliono un’altra commedia, di loro gusto, nella quale il loro giovane e dotato apprendista possa recitare un ruolo da protagonista. Quest’ultimo dimostra di intendersi di recitazione interpretando un brano di Shakespeare, sicché viene creato per lui un ruolo da eroe e il divertimento può proseguire.

Mentre si svaga con lo spettacolo il pubblico mangia volentieri qualcosa, come sappiamo dai resoconti contemporanei dei frequentatori di teatri. I ricchi gustano qualche costoso dolciume, i poveri ostriche e noci – resti di tutto ciò sono stati ritrovati fra le rovine del teatro incendiato. Tutte le classi sociali indulgono al piacere della birra; sono pervenute lagnanze sul fastidioso rumore delle bottiglie che sibilano quando vengono aperte. Shakespeare acquista una parte del suo patrimonio con la sua quota dei proventi del teatro e un’altra con i guadagni provenienti dal catering. Lui e i suoi soci d’affari hanno successo in ogni campo, poiché garantiscono che il pubblico avrà quello che vuole avere.

Credo che questa capacità di proporre un’offerta culturale molto raffinata per il pubblico più vasto sia una delle grandi conquiste dell’Inghilterra elisabettiana e che in essa Shakespeare abbia svolto un ruolo decisivo. Quest’anno dovremmo celebrarla con grande rilievo, come parte della sua eredità permanente, poiché essa continua a improntare gran parte della vita culturale britannica.

Quando il Parlamento pose la pietra fondativa delle grandi collezioni pubbliche, come il British Museum (1753) e la National Gallery (1824), insistette fin dall’inizio sul fatto che tutte le classi sociali avrebbero dovuto poterne godere. Uno dei suoi obiettivi era esplicitamente politico e sociale: “Consolidare i vincoli dell’unità tra gli strati più ricchi e quelli più poveri della società”. I musei non devono servire soltanto alla formazione degli intellettuali ma anche al divertimento e al piacere. Devono svolgere la ricerca scientifica ma anche trovare vie per conquistare il pubblico più ampio possibile. Il loro compito è mostrare oggetti significativi ed approfondire temi importanti, ma in modo piacevole. Oggi il Parlamento auspica che il pubblico –i pubblici- possano ritrovarsi nelle nostre gallerie e nei nostri musei. Credo che questo sia un ideale molto shakespeariano. Non per nulla l’ingresso principale della Bbc, creata dal Parlamento per informare e intrattenere l’intera popolazione, è sovrastata dalla statua di Prospero, il grande mago della Tempesta.

Questo aspetto istituzionale dell’eredità shakespeariana è soltanto una peculiarità britannica, oppure –come la sua poesia- potrebbe esercitare un appeal universale? Il particolare mix di cultura elevata e di cultura di massa, elevatezza, attualità e comicità, con cui Shakespeare ha parlato a tutte le parti della società e ha lasciato un segno così profondo in Gran Bretagna, può essere un modello per le istituzioni di Paesi con altre tradizioni culturali? Non lo so. Ma dal momento che oggi le società assegnano ovunque un ruolo sempre più rilevante alle istituzioni culturali nel favorire la coesione sociale e l’intesa reciproca, la domanda mi sembra importante.

C’è però un luogo nel quale lo spirito del teatro shakespeariano –e lo spirito del suo rapporto con il pubblico- conosce ogni anno una bellissima fioritura: i Proms della Bbc alla Royal Albert Hall, soprattutto la Last Night of the Proms.I ricchi siedono nelle gallerie, i meno agiati e i ragazzi chiassosi stanno nella platea. E’ inevitabile immaginare di trovarsi nel Globe. Il programma prevede canzoni d’amore e canti di eroismo nazionale. La cultura elevata si mescola con l’umore popolaresco, il pubblico manifesta in modo inequivocabile quello che vuole, ed è ben deciso ad ottenerlo. E tutto il mondo lo può gustare.

 

                                                           Neil MacGregor  (traduzione di Carlo Sandrelli)