Alfred De Musset (1810-1857), “Chanson”, 1831

Alfred De Musset (1810-1857), “Chanson”, 1831

J’ai dit à mon coeur, à mon faible coeur:

n’est-ce point assez d’aimer sa maitresse?

Et ne vois-tu pas que changer sans cesse,

c’est perdre en désirs le temps du bonheur? 4

Il m’a répondu: Ce n’est point assez,

ce n’est point assez d’aimer sa maitresse;

et ne vois-tu pas que changer sans cesse

Nous rend doux et chers les plaisirs passés? 8

J’ai dit à mon coeur, à mon faible coeur:

n’est-ce point assez de tant de tristesse?

Et ne vois-tu pas que changer sans cesse,

c’est à chaque pas trover la douleur? 12

Il m’a répondu: Ce n’est point assez

ce n’est point assez de tant de tristesse;

et ne vois-tu pas que changer sans cesse

nous rend doux et chers les chagrins passés? 14

Canzone”

Ho detto al cuore, al mio debole cuore:

non è abbastanza una donna da amare?

E non ti accorgi che il continuo cambiare

sperpera il tempo felice in desideri? 4

Lui m’ha risposto: Non è abbastanza,

non è abbastanza una donna da amare;

e non ti accorgi che il continuo cambiare

fa cari e dolci i passati piaceri? 8

Ho detto al cuore, al mio debole cuore:

non ne hai abbastanza di tanta tristezza?

E non ti accorgi che il continuo cambiare

ad ogni passo ti rinnova il dolore? 12

Lui m’ha risposto: non ne ho abbastanza,

non ne ho abbastanza di tanta tristezza;

e non ti accorgi che il continuo cambiare

fa care e dolci le passate amarezze? 16

Canzonetta dalla metrica fin troppo elementare: decasillabi a rima incrociata in cui la prima quartina ha le stesse rime della terza e la seconda della quarta; inoltre i versi centrali di tutte e quattro sono monorimi, così che i 16 versi si reggono si reggono su tre sole rime; molti versi vengono ripetuti quasi interamente salvo lievi variazioni, la sintassi è parlata e il lessico comunissimo. L’elementarità non dovrebbe stupire, pensando che chi scrive ha solo 21 anni: un testo d’apprendistato, la prova di un ragazzo alle prime armi? Mica tanto. Già a 20 anni Musset aveva pubblicato, con successo e clamore di scandalo, un volume di versi tecnicamente maturi, con audaci esperimenti di prosodia e licenziosità provocatorie; a 17 era entrato nel Cenacolo romantico dominato da Hugo ma aveva mostrato precoci segni di indipendenza, un aristocratico gusto della sprezzatura e dell’ironia. Fiero del blasone di visconte, giovanotto viziato e dandy ammiratore di Byron, la sua semplicità è finta –è già una posa. Il personaggio che dice “io” mostra la propria pigrizia e debolezza di carattere anche stilisticamente, abbandonandosi alla facilità delle ripetizioni e alla mollezza del ritmo.

Attratto com’è dal teatro (per cui oggi è più conosciuto, da Lorenzaccio ai Capricci di Marianna), la contraddizione di fondo gli si dispone con naturalezza nella forma di un dialogo: il classicissimo dialogo tra l’eroe e il proprio cuore. Ma, nella tradizione, all’eroe toccava la parte razionale e al cuore la passionale –qui sembra il contrario: è l’io che difende le ragioni dell’amore romantico, eterno e fedele (amare una donna sola deve bastare, l’incostanza dei desideri non conduce che alla rovina), mentre il cuore è un freddo libertino sostenitore della promiscuità e della leggerezza. L’io però è anche un maestrino noioso e didascalico (“n’est-ce point assez?”, “ne vois-tu pas?”), mentre il cuore è un discolo che risponde sempre no ma pronuncia le sole parole positive del testo, “dolci e cari”. L’amore romantico è dunque repressione, e il cinismo libertino è fedeltà a un comandamento più profondo? La questione è indecidibile.

Non è un caso che i due antagonisti del dialogo si facciano eco quasi con le stesse parole, o che bonheur (v. 4) e douleur (v. 12) si collochino in due nicchie parallele e che lo stesso accada con plaisirs (v. 8) e chagrins (v. 16): la debolezza del cuore si estende a tutto l’io incapace di decidere e il solo bene dell’individuo consiste nel malsano compiacimento della propria indegnità. L’io pronuncia le parole forti (felicità, dolore) ma il cuore le piega al relativismo dell’esperienza vissuta spicciolandole in più banali (ma dolcissimi) “piaceri e dispiaceri”; essere deboli significa non aderire ai grandi valori, cullarsi in un comodo andazzo di opposizioni complementari, goduto come perenne indifferenza a tutto: le cose opposte sono quasi uguali. L’io (ancora una volta vigliaccamente) si trincera dietro una responsabilità collettiva, lo “spirito del tempo”; nella Confessione di un figlio del secolo Musset disegna un ritratto lamentoso della sua generazione post-napoleonica (“ardente, pallida, nervosa”). Figli dell’impero e nipoti della Rivoluzione, i cui padri erano tornati frustrati dalla guerra: una generazione che non crede a niente e non progetta il futuro (piaceri e dispiaceri sono comunque “passés”, a 21 anni!). “E’ dolce credersi infelici”, scrive, “quando non si è che vuoti e annoiati”; delusi dall’amore come dalla Storia.

Non che Musset non sia sincero quando parla delle proprie oscillazioni emotive; testimonianze biografiche garantiscono sugli eccessi di frenesia erotica seguiti da depressione, al limite della sindrome bipolare (George Sand, qualche anno dopo, saprà dirne qualcosa). In termini culturali l’oscillazione vede da un lato le amare massime settecentesche di Chamfort (“l’amore è lo scambio di due fantasie e il contatto di due epidermidi”), dall’altro il dolorismo romantico di Lamartine. Il suo dongiovannismo è composto da “vilains” come Valmont o Lovelace mescolati alla ricerca platonica (tipo Novalis) dell’amore-che-non-si-trova, il fiore irripetibile e unico. L’insensibilità non sarebbe che disperazione rimossa. Non c’è differenza tra amore di un anno o di un’ora, se quel che conta è l’intensità; o anche, all’inverso, se l’amore non esiste tanto vale ubriacarsi col “vino dei sensi”.

Ci sono temperamenti per cui la posa è l’unica autenticità possibile; non di questo fu dunque colpevole Musset, ma di non aver saputo scoprire la propria vena. La debolezza era la sua forza e su quella doveva concentrarsi, non gonfiare le guance in poemoni retorici: era uno di quei poeti che più alza la voce più stona. Flaubert aveva ragione, ascoltando il suo discorso di accettazione all’Académie Francaise, a definirlo “la glorificazione del mediocre”. Le aritmie del suo “faible coeur” lo portarono a morire a 47 anni. L’alcool, la droga, la sregolatezza, il dandysmo, l’intelligenza sarcastica, la capacità di far zoppicare i versi come una raffinatezza in più –l’abilità acquistata negli anni, dopo questi esordi di pura grazia, non gli bastò a far fiorire quei “fiori del male” che sarà un altro, più geniale, a scrivere.

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 12 ottobre 2014, p. 58