Isabelle Eberhardt, che si volle nomade e musulmana

Isabelle, che si volle nomade e musulmana

Isabelle Eberhardt morì nel 1904 a 27 anni. Si convertì, esplorò il Nord Africa, frequentò criminali e mistici. Un libro: i suoi scritti.

Nel “Venerdì di Repubblica” del 30 giugno 2017, alle pp. 102-103, è pubblicato un articolo di Vittoria Alliata sulle vicende intriganti della scrittrice svizzera, di origine russa, Isabelle Eberhardt (1877-1904), e sul suo libro “All’ombra calda dell’Islam” (Elliot, pp. 150, euro 16,50, traduzione di Ilaria Mascia).

Gennaro Cucciniello

Fosse viva oggi, l’arresterebbero. Per la sua conversione all’Islam, il suo vestire abiti esotici, quasi sempre da uomo, con identità diverse e dissimulate, sempre alla ricerca di luoghi “ai margini” del mondo benpensante, ma centrali per la Storia. Per il suo essere russa, nata dagli amori proibiti –con fuga in Svizzera- tra la moglie tedesca ed ebrea di un generale dello zar e un prete ortodosso anarchico, nichilista, sovversivo, bestemmiatore, patito di piante allucinogene e morto forse di eutanasia proprio per mano dell’adorata unica figlia, mai riconosciuta: la nostra Isabelle Eberhardt, o se preferite Si Mahmoud, Nadia, I. de Moerder, Meryem o Nicolas Podolinsky.

L’arresterebbero per la sua frequentazione, a Parigi come a Cagliari, a Tunisi come a Ginevra, di personaggi pericolosamente contraddittori, frutto di mescolanze meticce e di mondi paralleli: francesi d’Oriente, ebrei d’Egitto che vaticinano in arabo a Parigi, girovaghe russe assetate di deserti e cimiteri. Ma anche per quel suo immergersi, a giorni alterni e con indiscriminata passione, in postriboli e romitaggi, tende beduine e comandi militari, nomade nei letti d’Algeri come negli erg, nei fumoirs di canapa come fra i santi salmodiatori del Corano. E che dire infine della sua complicità con i fratellastri, implicati in misteriose attività clandestine, rivoluzioni bakuniste e legioni straniere, morti entrambi suicidi?

Fosse viva oggi l’arresterebbero, portando come prova della sua pericolosità i suoi scritti in russo e in turco, in arabo e in latino, in greco e in francese, le migliaia di pagine di romanzi incompiuti e frammenti di diari in cui esalta l’Islam, condanna le efferatezze delle autorità coloniali e descrive con minuzia appassionata le genti feroci di un Sud perennemente insubordinato. A dimostrazione della sua appartenenza a gruppi integralisti si citerebbe il tentativo di decapitazione con sciabola, subìto per mano di un uomo dichiaratosi “inviato da Dio”, in un villaggio dell’Algeria dove era stata iniziata a una confraternita sufi e viveva ospite delle massime autorità religiose. Tanto più che nelle sue rivelazioni al Consiglio di Guerra sembra voler scagionare l’assassino, dichiarando che “l’attentato non può essere attribuito a un odio fanatico per tutto ciò che è cristiano, dato che io sono musulmana da moltissimo tempo”. Una difesa oltremodo sospetta per colei che, appena giunta a Bona, aveva fatto convertire persino la madre, poi seppellita nel cimitero arabo con il nome di Fatima Manubia.

Chi crederebbe oggi alla vocazione spirituale di quelle due donne, l’amante dell’anarchico e la bevitrice incallita, colei che aveva commesso adulterio con il precettore dei figli e l’altra che vagava di notte “nell’Algeri voluttuosa e criminale?”. Quale anelito religioso o culturale poteva muovere quella ragazza corpulenta dalla voce nasale che trascorreva le notti ora da un carbonaio sudanese, ora da una cantante del quartiere di Sidi Abdellah, ora “da individui tarati e loschi, ragazze equivoche, pregiudicati”, dove “assisteva a scene inverosimili molte delle quali finivano nel sangue”, dichiarando tuttavia di frequentare zawiye (i luoghi di culto delle confraternite sufi) e moschee “nella contemplazione dell’estasi”?.

Raffinata e ambiziosa scrittrice dalla vena malgrado tutto orientalista, infatuata di paesaggi sconfinati e della “rude maestà della vera razza araba”, confessa di cercare la fama letteraria, briga per essere apprezzata dagli ambienti intellettuali di Parigi, ma –a suo espresso dire- per passare inosservata si traveste in funzione “dei piani per il resto del giorno”, approfittando della complicità di una lavandaia italiana? Di quali piani si trattava: spionaggio, terrorismo?

Sulle prime quello strano personaggio androgino, intabarrato in folkoristici burnus, viene sospettato dai francesi di essere una spia pagata dalla “perfida Albione” per seminare zizzannia tra i diseredati delle loro colonie. Eppure ben presto le autorità coloniali l’ospitano nelle loro caserme fra gli spahis (i soldati indigeni dell’esercito francese), nei loro ospedali quando si ammala di malaria, lo accompagnano (o lo scortano?) in avventurose spedizioni presso impenetrabili fortilizi e monasteri incastellati, fra nomadi berberi e venerandi capitribù arabi, non solo nella colonizzata Algeria, ma fin oltre le frontiere del Marocco. E il nostro Si Mahmoud, ora studioso tunisino, ora studente turco, non sembra scandalizzarsi dell’impresa coloniale, quasi fosse ineluttabile e davvero civilizzatrice di razze sanguinarie.

E così nel 1904, quando Isabelle Wilhelmina Maria Eberhardt muore a soli 27 anni a sud di Orano, travolta e inghiottita dalla melma di una fiumara in piena, alcune biografie nostre contemporanee non si stupiscono che il generale Lyautey in persona, governatore militare del protettorato del Marocco, faccia affannosamente cercare dai soldati le spoglie della sua amica e consigliera; e che, “con grande emozione, ritrovato il corpo sotto le macerie, provveda all’inumazione nel cimitero musulmano”, rilasciando dichiarazioni alquanto insolite per un militare incaricato di “pacificare” popolazioni riottose: “Mi piaceva per ciò che era e ciò che non era, una ribelle… veramente se stessa, al di sopra di ogni pregiudizio, di ogni asservimento, di ogni cliché, che attraversa la vita libera come un uccello nello spazio. Mi piaceva il suo prodigioso temperamento di artista e il suo comportamento che scandalizzava le autorità civili e militari”.

Alcuni sostengono oggi che l’etichetta di eccentrica servisse al generale per celare la loro vera complicità, quella che gli consentì di vedere il “suo” protettorato attraverso lo sguardo romantico di Isabelle e di gestirlo –anziché con il pugno di ferro- con quel tono paternalistico con cui lei descriveva le popolazioni locali. D’altronde, per esaltarne la biografia avventurosa e bizzarra (e meglio venderne i libri) un altro suo amico, l’editore Barrucand, manipola i testi inediti e li integra a modo suo, interpretandoli.

Isabelle, quasi ignorata da viva come scrittrice e giornalista, diventa protagonista di decine di biografie, che si susseguiranno dal momento di quella sua morte apparentemente assurda, quasi il destino volesse sigillarne per sempre la marginalità, quella stigmata di non-appartenenza che fu l’ossessione da cui lei invece non smise mai di fuggire. Edmonde de Charle-Roux ne fa l’emblema dello spirito di indipendenza, della trasgressione, della totale libertà sessuale. Al contrario, Lynda Chouiten la condanna come avida di potere e ligia ai codici razziali dell’impero europeo d’Africa. Sull’onda di queste biografie concentrate sulla contraddittorietà del personaggio, le sue “pagine di folgorante bellezza”, oggi raccolte dall’editore Elliot in “All’ombra calda dell’Islam”, sono spesso passate quasi inosservate.

Ma forse quel che sarebbe più doloroso per Isabelle è il nostro aver frainteso quanto quella sua morte fosse tutt’altro che assurda ed eccentrica. Lo fa intuire un passo scritto dopo le settimane trascorse nel ritiro di Kénadsa: “Spinta da una forza misteriosa, qui ho trovato ciò che cercavo, e mi godo il meritato riposo, dove altri fremerebbero di noia… Il mio spirito lasciava il mio corpo per raggiungere i giardini incantati”. Nella pace di quel luogo di preghiera e meditazione, protetta dalla disciplina del padre spirituale che l’aveva adottata, Isabelle, che aveva sempre saputo ciò che fuggiva ma non ciò che davvero cercava, capiva di aver compiuto il suo destino. La sua morte, sopraggiunta poche settimane dopo, sarebbe venuta a strapparla dalle sofferenze terrene e a portarla verso l’assoluto che tanto aveva invocato.

Vittoria Alliata