Belli, “Pio ottavo”, 1 aprile 1829. Immagine e ruolo del Papa.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Immagine e ruolo del papa”. “Pio ottavo”, 1 aprile 1829

 

Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere.

Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.

E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.

A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

 

“Pio ottavo”                                             1 aprile 1829

 

Che ffior de Papa creeno! Accidenti!

Co rrispetto de lui pare er Cacamme.

Bbella galanteria da tate e mmamme

pe ffà bbobò a li fijji impertinenti!                                                   4

 

Ha un erpeto pe ttutto, nun tiè ddenti,

è gguercio, je strascineno le gamme,

spènnola da una parte, e bbuggiaramme

si arriva a ffà la pacchia a li parenti.                                                          8

 

Guarda llì cche ffigura da vienicce

a ffà da Crist’in terra! Cazzo matto

imbottito de carne de sarcicce!                                                         11

 

Disse bbene la serva de l’Orefisce

quanno lo vedde in chiesa: “Uhm! cianno fatto

un gran brutto strucchione de Pontefisce”.                                              14

 

Che fior di papa creano! Accidenti! Con rispetto di lui sembra un Cacamme (questa è voce romanesca derivata dall’attributo hamham –sapiente- con la quale a Roma veniva indicato il rabbino più anziano). E’ una bella gentilezza,  degna di quei padri e madri che vogliono intimorire i figli impertinenti! Ha un erpete su tutto il corpo, non ha denti, è guercio, strascina le gambe, pende da una parte, e possa essere io sciocco se arriverà a beneficiare i suoi parenti (morirà presto). Guarda un po’ che figura da venirci a fare da Cristo in terra. Un uomo dappoco fatto di carne di scarto. Ha detto giustamente la serva dell’orefice, vedendolo in chiesa: “Oh! Hanno nominato un ben brutto storpio come Papa!”

Questo è uno tra i sonetti d’esordio della raccolta, il terzo composto dal nostro poeta, dedicato a papa Castiglioni, eletto –dopo la morte di Leone XII- il 31 marzo 1829, all’età di 68 anni e male in arnese. Pio VIII morirà dopo venti mesi di pontificato.

 

Le quartine. A narrare è un’anonima voce popolare che esprime un diffuso scetticismo. Il plebeo romano di Belli entra in scena, la voce fuori campo, quel popolano guardato da Stendhal con occhi attoniti e ammirati. E’ senza dubbio un personaggio servile, che parla col suo linguaggio, le sue movenze, i suoi gesti e che dal basso guarda e giudica. E’ il servo che giudica il potente, la cronaca che stravolge i rapporti di potere e la logica della teocrazia. Il primo aprile, data del presente sonetto, il nuovo papa si recò processionalmente dal Quirinale (sede del conclave) a San Pietro. Scrive il D’Azeglio: “Mi trovai vicino a lui quando lo portavano su per le scalere di S. Pietro (…) Il nuovo Papa, grasso, grasso, con le gote cascanti, ringraziava il popolo plaudente, piangendo, suppongo, di consolazione” (“I miei ricordi”, II, cap. II). Lo sfacelo fisico, così puntigliosamente descritto, dà il senso della decadenza anche morale dello Stato pontificio.

Le terzine. Il nuovo papa è sorpreso nella sua misera realtà di uomo sfatto e cadente, ridicolo perché in contrasto con quella che dovrebbe essere la dignità della sua alta carica (“Guarda lì che ffigura da vienicce / a ffà da Crist’in terra! Cazzo matto / imbottito de carne de sarcicce!”). Il crudo realismo con il quale viene descritto l’aspetto fisico del nuovo papa è la rivelazione tangibile di un punto di vista polemico. E’ la sostanza contro la finzione, la verità contro la menzogna, la realtà contro la recita. Questo è uno dei suoi primi personaggi, è il primo papa, il primo cadavere vivente. In quella Roma il confine tra cronaca, vita reale e apocalisse letteraria è sottilissimo.

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello