Belli. “La religione cristiana”. “Er giusto”, 21 gennaio 1835
E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.
Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.
Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
Gennaro Cucciniello
“Er giusto” 21 gennaio 1835
Er giusto, fiji, fateve capace,
pe quanto mai sia stato peccatore,
campa co la cuscenza sempre in pace,
e spira ne le braccia der Ziggnore. 4
Vive in grazzia de tutti, e quanno more
a ttutti li cristiani je dispiace;
e oggnuno piaggne, e dice co dolore:
“E’ morto er giusto e in zepportura jace”. 8
Mentre l’anima sua j’esce de bocca,
un formicaro d’angeli la pija,
la porta in Celo, e guai chi je la tocca. 11
Li diavoli je manneno saette,
e l’angeli je danno la parija;
e la cosa finisce in barzellette. 14
Il giusto
Il giusto, figli, capacitatevi, per quanto possa essere stato un grande peccatore, vive con la coscienza sempre pacificata e muore nelle braccia del Signore. Vive in stato di grazia con tutti, e quando muore a tutti gli uomini dispiace; e ognuno piange e dice tutto addolorato: “E’ morto un giusto e giace nella sua tomba”. Mentre la sua anima esce dalla sua bocca, una schiera d’angeli in fila come un formicaio la prende, la porta in cielo e la difende a mano armata. I diavoli gli mandano saette e così fanno anche gli angeli, in una specie di sarabanda; e la contesa finisce in barzelletta.
Metro: sonetto (ABAB, BABA, CDC, EDE).
Le quartine. Si dà l’impressione che a parlare sia un vecchio saggio di quartiere: l’ispirazione è pedagogica, chiama “figli” i suoi ascoltatori, racconta con tono inizialmente equilibrato e pacatamente discorsivo. Il giusto è visto come un essere privilegiato per nascita che, per quanto si ostini a peccare, rimane sempre in stato di grazia, “spira ne le braccia der Ziggnore” (v. 4). E non si trascuri la sottolineatura sottilmente parodistica della rima in B (peccatore, Ziggnore). Belli sembra voler dire: questa nostra società è divisa in ricchi e poveri e allo stesso modo fatalistico in giusti e peccatori. Un ambiguo richiamo calvinista (la dottrina della predestinazione) scava la sua nicchia nella terribile miseria e nel degrado feudale della Roma papalina.
Le terzine. Il crescendo ironico (dal formicaro d’angeli a li diavoli che manneno saette) sfocia in un esplosivo umorismo iconoclasta. Nell’universo gli spiriti angelici e demoniaci (quasi due opposte fazioni) giocano a “guardie e ladri” mentre il giusto, oggetto del contendere, è del tutto passivo. Sicché è proprio inevitabile la smagata conclusione che rende però il quadro non più credibile, scarsamente attendibile. Ma così finisce in barzelletta la stessa religione, in quanto tale e nel suo complesso.
Alcune immagini richiamano il sonetto, “Er giorno der giudizio” del 25 novembre 1831 ma lo scetticismo è ancora più radicale e inequivocabile. Un poeta costruisce i suoi personaggi in maniera molto diversa da come pensano tanti lettori. Questi ultimi tendono a vederli come esseri umani reali mentre l’autore, io credo, ha memoria del sangue sulle sue mani quando li ha plasmati, un po’ come un artigiano ricorda le ferite che si è procurato mentre fabbricava una sedia. Il creatore di personaggi è un puparo, costruisce marionette e noi dobbiamo sempre tenerlo a mente.
Nello stesso giorno Belli scrive questo altro interessante sonetto:
L’editto su li poverelli
La Legge parla chiaro: ”Si ppe ssorte
sentirete accattoni sfaccennati,
li porterete tutti carcerati”.
Viva l’orecchie de sta santa Corte! 4
Cusì Cristo in ner punto de la morte
m’accordassi er perdon de li peccati,
come pe la città strilleno forte
in zur gusto de tanti indemoniati. 8
Strade, chiese, caffè, scale, portoni,
osterie, trattorie, per tutto poveri;
e gnisuno je roppe li cojoni. 11
E noi, storditi da ‘gni parte, intanto
pe mantené li pubbrichi aricoveri
pagamo sangue inzin zull’ojo-santo. 14
Gennaro Cucciniello