Belli. Sonetti. “Un tant’a ttesta”. 28 gennaio 1833.
Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.
“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.
La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
Un tant’a ttesta 28 gennaio 1833
Giacubbinacci che covate in petto
L’arbaggìa de sfreggnà la Santa Chiesa
Senza volé che lei facci un fischietto
Pe chiamà Gesucristo in zu’ difesa, 4
L’editto de Papà l’avete letto?
La scummunica sua l’avet’intesa?
Conzolateve dunque coll’ajetto
C’avete fatto una gran bell’impresa! 8
La Chiesa fischia, Cristo nun è ssordo,
Li Romani so ttutti papalini,
E la Santità Ssua nun fa er balordo. 11
E ppe ffotte voantri giacubbini,
Già er Zanto-padre e noi semo d’accordo:
Lui dà indulgenze e noi dàmo quadrini. 14
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).
Un tanto a testa
Giacobinacci, che covate in petto la superbia arrogante di voler distruggere la Santa Chiesa senza volere che lei faccia un richiamo per invocare Gesù Cristo a sua difesa (il Vigolo allude all’invocazione di aiuti militari dagli stranieri), l’editto del Papa l’avete letto? La cedola di scomunica l’avete capita (si allude alla scomunica lanciata nel 1832 contro i ribelli che si erano rifugiati in Ancona)? Consolatevi dunque con la piccola speranza di farla franca mentre una grave rovina si abbatterà su di voi. La Chiesa fa un fischio, Cristo non è sordo al suo richiamo, i Romani sono tutti papalini, e Sua Santità non è un balordo. E per rovinare voialtri giacobini già il Santo Padre e noi tutti siamo d’accordo: Lui dà le indulgenze e noi diamo i quattrini.
Le quartine.
A parlare, anzi a declamare, è un esponente dei sanfedisti romani, acceso difensore degli interessi papalini. Si rivolge direttamente ai democratici italiani che vorrebbero insidiare il potere della Santa Chiesa. Sbrigativamente i patrioti vengono denominati “giacobini”, anzi “Giacubbinacci”, continuando la tradizione post-rivoluzionaria francese di definire col termine giacobinismo tutte le iniziative, anche le più moderate, tese a minare il potere degli antichi regimi. E infatti questi oppositori sono caratterizzati da termini spregiativi: covano in petto (v. 1), l’arbaggìa de sfreggnà (v. 2). Destano interesse nella prima quartina i ben tre enjambement che sottolineano, ancora una volta, lo scontro totale tra il fronte democratico e l’istituzione della Chiesa di Roma. Un ritmo veloce che viene frenato bruscamente, nella seconda strofa, dalle interruzioni –verso per verso- delle interrogative e dalle ripetizioni: l’avete letto? (v. 5), l’avet’intesa? (v. 6), alla fine dei versi.
Le terzine.
L’intermezzo è categorico: l’alleanza tra la Chiesa, il Cristo e i Romani è ferrea e il Papa ne è un efficace realizzatore. La terzina finale conclude emblematicamente il pistolotto: si riprende il tono volgare iniziale con quel fotte voantri giacubbini (v. 12) e si sintetizza con amara ironia il nodo dell’alleanza tra il papa e il popolino romano. Dal papa si irrogano le eterne indulgenze (fatale instrumentum regni della Chiesa) e dalle tasche dei cittadini le necessarie tassazioni.
Cosa emerge da questo racconto? Certo un intreccio mirabile di spavalderia e servilismo, di bigottismo e di ferocia, di sfarzo e miseria. In penombra c’è la Roma delle osterie sozze, delle migliaia di morti ammazzati dalle inondazioni del Tevere assassino, dalle epidemie o semplicemente dai parti senza adeguata assistenza medica e igienica. Si avverte la presenza di un poeta radicalmente legato ai sentimenti cristiani, ma vendicativamente risentito contro il malgoverno di chi quei princìpi evangelici era abituato a violare ogni giorno. Il suo artiglio si rivela soprattutto negli accenti aspri e chiocci del dialetto romanesco. E a Roma la storia sembra fermarsi in un tempo fisso, liturgicamente ciclico, un’eterna metastoria di miseria e oscurantismo.
Qualche giorno dopo, il 2 di febbraio, Belli –in giro per Roma- si ferma, da cronista puntiglioso, nei pressi della chiesa di S. Agostino, vicino piazza Navona, e osserva e annota:
La Madonna tanta miracolosa
Oggi, a fforza de gommiti e de spinte,
Ho potuto accostammo ar butteghino
De laMadonna de Sant’Agustino,
Quella ch’Iddio je le dà ttutte vinte. 4
Tra du’ spajère de grazzie dipinte
Se ne sta a ssede co Gesù bambino,
Co li su’ bravi orloggi ar borzellino,
E catene, e scioccaje, e anelli e cinte. 8
De brillanti e de perle, eh cià l’apparto:
Tiè vezzi, tiè smaniji, e tiè collana:
E de diademi ce n’ha er terzo e ‘r quarto. 11
Inzomma, accusì ricca e accusì ciana,
Quella povera Vergine der Parto
Nun è ppiù una Madonna: è una puttana. 14
Una Madonna tanto miracolosa
Oggi, a forza di gomitate e di spintoni, ho potuto accostarmi al botteghino della Madonna di Sant’Agostino (nella chiesa degli Agostiniani c’è la statua della Madonna del Parto, opera di Jacopo Sansovino, che è tra le più venerate di Roma ed è tuttora ricoperta di oggetti preziosi e circondata di ex-voto. Belli usa il termine “butteghino”, per dare l’idea sacrilega della divinità usata per fare guadagni), quella alla quale Dio concede ogni grazia. Tra due spalliere di tavolette votive dipinte Lei se ne sta a sedere con in braccio Gesù Bambino, con i suoi begli orologi sulla cintura, e catene, e lunghi e grandi orecchini (forse dal francese “chocailles”), e anelli e cinture. Di brillanti e di perle sembra che abbia l’appalto: tiene vezzi, tiene braccialetti e tiene collane: e di diademi ce ne ha un terzo e un quarto. Insomma, così ricca e così vanitosa per ricercatezza di vesti e di fregi, quella povera Vergine del Parto non è più una Madonna: è una puttana.
Gennaro Cucciniello