Belli. Sonetti. “Er monno”, 10 settembre 1833

Belli. Sonetti. “Er monno” 10 settembre 1833

Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.

La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.

La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

                                         Er monno       10 settembre 1833

Vedi mai nove o dieci cor palosso

Attorno a un ber cocommero de tasta,

Che inzinamente che ce sii rimasta

Na fetta da spartì, “taja ch’è rosso”? 4

Accusì er monno: è ttanto granne e grosso,

E a nove o dieci Re manco j’abbasta.

Oggnuno vò er zu’ spicchio, e ppoi contrasta

Lo spicchio der compaggno e je dà addosso. 8

E lèvete li scrupoli dar naso

Che noi c’entramo per un cazzo: noi

Semo monnezza che nascemo a caso. 11

Ar piuppiù ciacconcedeno er ristoro

De quarche sseme che je casca, eppoi

N’arivonno la mànnola pe lòro. 14

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE)

                                             Il mondo

Tu vedi mai nove o dieci persone col coltello intorno a un bel cocomero de tasta (il cocomero su cui si pratica un tassello per vedere se è maturo)? Che fino a quando ci sia rimasta una fetta da dividere, “taglia che è rosso” (si procede al taglio senza esitazione, lo affettano con forza)? Così è il mondo: è tanto grande e grosso, e a nove o dieci Re neanche gli basta. Ognuno vuole il suo spicchio, e poi vuole appropriarsi dello spicchio dell’altro e lo assale. E non ti far alcuna illusione sul fatto che noi gente comune ci entriamo in qualche modo: noi siamo immondezza e nasciamo a caso. Tutt’al più ci concedono l’elemosina di qualche seme che casca dal cocomero, dopo averceli fatti sbucciare, e poi ne rivogliono la mandorla per loro.

Le quartine.

Immaginate un angolo di Roma con un crocchio di persone intente a chiacchierare fra loro. Un popolano racconta una storiella ricavata da una scena consuetissima nell’estate romana: ambulanti che vendono cocomeri e che ne esaltano la bontà invitando i presenti a tagliare il tassello per vederne la maturazione. Senza interrompersi l’intrattenitore ne ricava un commento severo: l’avidità dei sovrani, gli scontri fra potenze, le guerre, i miserabili lasciati a bocca asciutta.

Le terzine.

Infatti conclude il nostro narratore: “noi / semo monnezza che nascemo a caso” (vv. 10-11). Questa immagine icastica, durissima, sarà ripresa l’anno successivo, amplificata e rinvigorita nell’inizio di un sonetto famoso, “Li du’ ggener’umani”: “Noi, se sa, ar Monno semo ussciti fori / impastati de mmerda e dde monnezza”.

Nell’ultima strofa la metafora dei semi del cocomero caduti dalla tavola dei re, che subito se li riprendono con gli interessi, richiama la parabola evangelica del ricco epulone, punito con l’inferno per non aver prestato soccorso al lebbroso Lazzaro, “bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla ricca tavola”.

Nell’estate del 1833 Belli scrive soltanto due sonetti. Torniamo perciò al 29 maggio quando il poeta scrive:

                                                            Un conto arto-arto

E’ de fede c’appena una cratura

Scappa for da la picchia, er Padr’Eterno

La mette a navigà ssott’ar governo

D’un angelo e d’un diavolo addrittura. 4

Uno de loro st’anima prucura

De dàlla ar paradiso, uno a l’inferno,

Sin che sse vedi chi guadaggna er terno

Ner giorno che va er corpo in zepportura. 8

Liticàtase l’anima ar giudizzio,

Oggnuno de li dua serra bottega,

Pe nun rifà mai ppiù sto bell’uffizzio. 11

Oh mo ttira li conti, amico mio,

Sopr’ar gener’umano, e va’ che ffrega

D’angeli e de demoni ha ffatt’Iddio! 14

                                                 Un conto approssimativo

E’ verità di fede che appena una creatura esce fuor dal ventre della donna, il Padre Eterno l’affida subito al governo di un angelo e di un demonio. Uno di loro si dà da fare per destinare quest’anima al paradiso, l’altro vuole portarla all’inferno. Fino a quando si vedrà chi vince la prova nel giorno che il corpo verrà sepolto. Dopo aver disputato tra loro per il possesso dell’anima, entrambi cessano dalle loro funzioni per non rifare mai più questo loro ufficio. Oh, adesso fai i conti, amico mio, su quanti sono stati e sono tutti gli uomini e le donne dalla loro creazione, e guarda che quantità di angeli e di diavoli ha creato Dio!

Fa sorridere questa pseudo-teologia popolare che fa immaginare un innumerevole stuolo di angeli e di diavoli, rimasti disoccupati dopo il giudizio del loro pupillo, e che vagano a distesa sopra il genere umano.

                             Gennaro Cucciniello