Belli. Sonetti. “Le ribellioni della Romagna”

Le regazzate de li Romagnoli”    30 settembre 1845

 

Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.

“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.

La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

 

“Le ragazzate de li romagnoli”     30 settembre 1845

 

Semo inzomma da capo, eh sor Zirvestro,

Co sti romaggnolacci de Romaggna?

Ma sta porca ginìa de che sse laggna

C’oggni tantino j’aripija l’estro?                               4

 

E’ ‘na cosa ch’io proprio ce sbalestro!

Lamentasse, pe dio, de sta cuccaggna!

Che spereno de ppiù? de vive a uffaggna?

De mette er zanto-padre in d’un canestro?          8

 

Nun cianno come noi chiese, innurgenze,

Preti, conforterie, moniche, frati,

Carcere, tribbunali e pprisidenze?                          11

 

Nun c’è giustizia là come che qui?

Ma via, proprio sti matti sgazzarati

Se moreno de voja de morì.                                        14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                            Le ragazzate dei Romagnoli

 

E’ necessaria una breve nota storica. Un nuovo moto rivoluzionario scoppiò in Romagna nel 1845. Fu guidato  da Pietro Renzi che il 23 settembre s’impadronì, con un gruppo di patrioti, di Rimini. Altre bande armate si formarono presso Faenza e Bagnacavallo. Rimini fu rioccupata il 27 e il Renzi fuggì a San Marino. Anche le altre bande furono sconfitte ed andarono in esilio in Toscana. Da queste vicende prese spunto Massimo D’Azeglio per scrivere il suo celebre opuscolo: “Degli ultimi casi di Romagna”. Belli, perciò, con questo sonetto commentò a tamburo battente le vicende politiche.

 

Siamo insomma da capo, eh, sor Silvestro, con questi romagnolacci di Romagna? Ma questa porca genìa di cosa si lamenta che ogni tanto le ripiglia questa voglia di insorgere? E’ una cosa che io proprio ci perdo il senno! Lamentarsi, per Dio, di questa cuccagna! Cosa sperano di più? Di vivere a ufo? Di mettere il papa nel sacco? Non hanno come noi chiese, indulgenze, preti, luoghi carcerari dove si ricevono dai condannati gli estremi conforti religiosi, monache, frati, carceri, tribunali, commissariati di polizia? Non funziona la Giustizia là come qui? Ma via, proprio questi matti scriteriati muoiono dalla voglia di morire.

Analisi.

“Il 25 settembre 1845 Agostino Chigi informa nel suo diario che “col corriere di Bologna arrivato questa mattina si è avuta la ben triste notizia, che martedì verso sera seguì una rivoluzione a Rimini, e che i rivoltosi erano rimasti padroni della città dopo aver disarmata la poca truppa pontificia che vi era, uccisi alcuni carabinieri e liberati i detenuti”. E due giorni dopo il Chigi aggiunge: “Non si sa che la rivoluzione di Rimini si sia propagata ad altri paesi di quelle provincie ma purtroppo se ne sta in timore”. I moti furono subito e abbastanza facilmente repressi, ma essi segnalarono che le idee liberali e risorgimentali si stavano radicando, assumendo tinte fortemente mazziniane.

Nel 1831-1832 in Romagna c’erano già state sommosse e ribellioni, ma in quelle occasioni Belli aveva scritto sonetti dando voce a furiosi sanfedisti che auspicavano e minacciavano durissimi castighi ai rivoltosi. Sono passati quasi quindici anni: ora il nostro poeta registra lo sfogo di un papista che non ha più la grinta e la rabbia dei suoi precursori. Elenca con ironia malcelata i pregi del governo pontificio, insulta stancamente i ribelli e prevede la loro punizione quasi con una battutina comica, “se moreno de voja de morì”. Lo Stato teocratico dei papi si sta stancamente estinguendo. 

 

Qualche mese prima, il 3 giugno 1845, Belli aveva scritto questo sonetto contro il bullismo di certa gioventù romana:

                            “La compassion de le disgrazie”

 

La finimo sì o no, brutti scimmiotti?

Me sò accorto de tutto, me sò accorto.

Cosa v’ha ffatto quer povero storto

Pe ppijallo a ssassate e a scappellotti?                   4

 

Si ha avuto in vita sua li stinchi rotti

E’ una raggione de volello morto?

Sò l’inzurti e le bòtte er ber conforto

Che date a la disgrazia, eh galeotti?                       8

 

Cacciatori d’uscelli senza penne!

Che bella grolia! che bella bravura

De strapazzà chi nun ze pò difenne!                       11

 

Se perzéguita un vizzio de natura,

E li vizziacci propi se protenne

De portalli qua e là ssempr’in figura!                     14

 

                                               Gennaro Cucciniello